L'improbabile sbarco di Julius Evola Negli Stati Uniti
Nel contraddittorio profluvio di parole e argomenti, portati da commentatori nostrani e d’oltreoceano per interpretare l’inaspettata elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti, è spuntato anche il nome di un pensatore italiano, tra i più improbabili in tale contesto: Julius Evola.
In un articolo del «New York Times», intitolato Il pensatore italiano è un enigma per molti, ma non per Bannon, il commentatore Jason Horowitz indica il filosofo tradizionalista romano come uno dei riferimenti teorici di Stephen Bannon, creatore di Breitbart News –il sito di riferimento della cosiddetta alt-right, la destra alternativa statunitense – nonché organizzatore della campagna elettorale di Trump e,dal 29 gennaio scorso, membro del National Security Council.
Se per “enigmatico” si dovesse intendere il fraintendimento con cui di solito si è pregiudizialmente male interpretato il profilo gnostico sapienziale dell’autore di Rivolta contro il mondo moderno, questa sarebbe, paradossalmente, una buona notizia capace di sollevare un tema culturale non conformista (riguardo a un autore tanto citato, quanto non letto). Già Lucio Dalla e Roberto Saviano avevano suscitato una tempesta in un bicchier d’acqua, per avere semplicemente affermato di avere nella propria libreria i libri di Julius Evola.
In realtà, la strumentalità politica della polemica risulta evidente al vaglio elementare della distanza abissale che corre tra il profilo teorico del pensiero spiritualista e le cangianti categorie politiche del conservatorismo statunitense. Nell’articolo di Horowitz si evoca una conferenza tenuta nel 2014 in Vaticano, nel corso della quale Bannon, trattando di populismo, capitalismo e immigrazione, avrebbe citato il pensatore russo Aleksandr Gel'evič Dugin – che in effetti è un pensatore tradizionalista russo – per giungere alla giustificazione del “suprematismo” bianco statunitense tramite Julius Evola.
Ora, basti citare direttamente le parole dell’aristocratico filosofo romano al riguardo della modernità e della sua emanazione apicale, gli Stati Uniti: «L’America ha introdotto definitivamente la religione della pratica e del rendimento, ha posto l’interesse al guadagno, alla grande produzione industriale, alla realizzazione meccanica, visibile e quantitativa, al di sopra di ogni altro interesse. Essa ha dato luogo a una grandiosità senz’anima di natura puramente tecnico-collettiva, priva di ogni sfondo di trascendenza e di ogni luce di interiorità e di vera spiritualità; ha opposto, alla concezione in cui l’uomo è considerato come qualità e personalità in un sistema organico, quella in cui egli diviene un mero strumento di produzione e di rendimento materiale in un conglomerato sociale conformista». Sono parole del 1930, ma fanno parte dell’intero disconoscimento svolto dal pensatore tradizionalista nei confronti del processo di civilizzazione utilitaristico e individualista.
Nel descrivere le dinamiche sociali occidentali, Evola parla letteralmente di «demonia dell’economico», esprimendo quindi un antiamericanismo senza possibilità di replica;a questo proposito, sirimandaal puntuale libro della storica Michela Nacci, L'antiamericanismo in Italia negli anni Trenta.
Il giornalista del «New York Times», nel suo proposito di screditare l’operato di Donald Trump – per cui ci sarebbero evidentemente ben altri motivi – adopera di sponda degli stereotipi, spesso chiare falsificazioni, su un filosofo che non si conosce con correttezza filologica neanche nel nostro Paese.
È consigliabile, in tal senso, l’esegesi obiettiva fatta dal compianto Franco Volpi, che lo portò – in tempi non sospetti –a definire Evola come uno dei filosofi novecenteschi più influenti in Italia, insieme a Benedetto Croce e a Giovanni Gentile.
Evola, in sostanza, è un enigma per molti, ma a quanto pare non per Bannon, il quale sembra citarlo indirettamente, senza però fare delle sue opere il riferimento alle sue posizioni politiche pubbliche, per via della naturale incompatibilità tra il pensiero tradizionalista e il suo... Misteri dell’alchimia, insomma, per stare nel campo dell’esoterismo magico evoliano e dei suoi demoni, tra cui non poteva certo mancare quello “razzista” e “antisemita”.
A questo proposito, però, Jason Horowitz non sarebbe più credibile e intellettualmente onesto se, invece di improvvisarsi novello Harry Potter, verificasse le posizioni dell’amministrazione Trump e del consesso che lo supporta in merito all’influente componente ebraica della società americana e alle politiche dello Stato di Israele? Avrebbe risposte certe a domande poste in malafede.
Stiamo ai fatti.
Sarebbe infatti salutare per tutti, avversari apparentemente maggioritari e sostenitori evidentemente mimetici, porsi di fronte all’evidenza della fine della globalizzazione e delle conseguenti convulsioni. Natacha Polony l’ha ben detto: questo fenomeno «non è che la traduzione di un movimento di fondo che scuote tutte le società occidentali: la rivolta delle piccole classi medie, destabilizzate nella loro identità dall’ondata di globalizzazione che aveva già vinto le classi operaie».
Il fatto dominante, attualmente, è la crescente diffidenza mostrata dal popolo verso le élite politiche, economiche, finanziarie e mediatiche. Che sia accaduto negli Stati Uniti – potenza egemone della modernità liberal-capitalista – ratifica la profondità epocale della crisi sistemica in atto, tra coloro che vedono l’America come un Paese popolato da persone che si definiscono prima di tutto come americani, e coloro che invece vogliono un campo politico segmentato in categorie e gruppi di pressione tutti desiderosi di far prevalere i propri interessi particolari, a scapito gli uni degli altri.
Hillary Clinton si rivolgeva ai secondi; Trump ai primi e, contro ogni narrazione informativa dominante, ha vinto. Il non detto che alberga nella coscienza dei più, nell'incancrenirsi degli squilibri planetari, è che l’immigrazione provoca patologie sociali assieme a scontri culturali e religiosi drammatici, e che la mondializzazione si sviluppa a loro detrimento in ragione dell'utopia di un mercato privo di limiti e di responsabilità sociale. Il tutto in un contesto di disincanto,di rassegnazione, dicrisi generalizzata dei valori: una crisi di civiltà.
Le categorie, di sinistra come di destra, sono insufficienti, per orientarsi negli equilibri in divenire di questo scenario privo di certezze ideologiche. I progressisti cercano di esorcizzare il tramonto del determinismo storico evocando nemici immaginari; i conservatori si prestano al gioco sostenendo un modello economico, che corrode i valori cui si appellano. Alla stupidità delle persone di sinistra, che ritengono possibile criticare il capitalismo in nome del progresso, corrisponde l’imbecillità delle persone di destra, che ritengono possibile difendere dei valori tradizionali in un’economia mercificata che li distrugge.
L’opportunità, sulla scia della “Brexit” e ora di Trump e di tutto ciò che si dispone a riproporre la storia come apertura al cambiamento – in un contesto geopolitico, in cui viene meno l’unilateralismo atlantico e si prospetta l’opportunità di un multipolarismo internazionale – per noi europei, consiste non nell’assecondare la subalternità al declinante modello americano, ma nel cercare una comunità di destino continentale.
Se il “nuovo corso” avviato da Trump si evolvesse nel senso di un’alleanza “iperoccidentale” tra il neoisolazionismo americanocentrico degli USA e il Commonwealth dell’Inghilterra scaturita dalla Brexit, si rafforzerà la possibilità di superare nazionalismo e cosmopolitismo, in una rinnovata concezione dell’Imperium come dominio interiore, inteso cioè come grande spazio, in cui possono convivere identità diverse unite da principi e valori comuni, giacché la sovranità si configura in primo luogo come difesa del bene comune e dei legami comunitari. Una Europa capace di domare i titani che alimentano il caos mondiale, all’altezza quindi di un destino politico.