Lo Stato del benessere
Uno dei tratti distintivi della postmodernità, radicatosi fortemente nel corso del Novecento, è quello di aver discusso ampiamente la validità o meno del concetto di bonum communis, di Bene comune, riguardante la politica, andando verso una progressiva ridefinizione, anzi dovremmo dire sostituzione, di Bene con bene, creando un equivoco che è motore di buona parte delle problematiche politiche odierne.
Il bene di oggi non è più il Bene assoluto e ideale del passato antico greco-romano e medievale, della pre-modernità, non ha a che fare con il fine ultimo del singolo e della collettività, non trova spazio in alcuna riflessione metafisica o trascendentale: è un bene-benessere, legato allo star bene materiale, confinato nel dominio semantico della corporeità e nell’esperienza della contingenza del godimento. Questo “bene” è divenuto il motore primo delle decisioni politiche, provocando una sovversione – logica e prevedibile – del concetto di felicità e realizzazione dell’essere umano, che passa dal compimento della propria missione, vocazione, volontà divina o fine dell’incarnazione a seconda delle dottrine di riferimento, ad una sorta di felicità secolarizzata, in cui tutto viene sottoposto al governo delle cose, per il quale l’amministrazione del piacere è l’unico esercizio utile sia individualmente che socialmente.
La felicità di cui tanto si sente parlare, dovremmo domandarci che cosa sia veramente, soprattutto quando ne trattiamo nell’ottica politica. Tucidide insegnava che il segreto della felicità è la libertà, ma il mondo postmoderno è per definizione vittima di un incantesimo di schiavitù dal quale pochi coraggiosi riescono a trarsi fuori, mentre la maggior parte delle persone vive nell’automatismo del raggiungimento del piacere secondo il grado, più o meno soggettivo, di traduzione in termini di felicità. Non vi è dunque problema se la felicità manca di libertà, purché vi sia piacere. La società del godimento riceve la sua dose dopaminica dallo Stato del benessere, che è quella dimensione politica (facendo non poca violenza nell’utilizzo del termine) in cui si cerca di far star bene i propri cittadini, costi quel che costi. Di benessere ne esistono varie tipologie, in continua espansione e specializzazione per tentare di coprire tutte le possibili vie di fuga dall’illusione collettiva. Pensiamo, ad esempio, alla premura con cui i governi odierni si impegnano ad imporre misure di controllo sanitario, imponendo anche trattamenti non richiesti né tantomeno scientificamente validi, come obbligatori, nella contraddizione di una mancanza ignobilmente colpevole di interesse per la sanità pubblica e le cure ai cittadini, l’importante è dare l’impressione che ci sia tale premura, anche “speciale” e pronta a tutto, per assicurare l’equilibrio del benessere. Di ulteriori esempi ce ne sono copiosamente, il mantra da ripetere è quello di ammantare di benessere ogni cosa, in modo che sembri meno negativa e si renda più accettabile. La società del wellness, per dirla all’inglese, è propriamente la codifica estetica della società aperta postmoderna del globalismo imperante.
Ogni dimensione politica non può che essere sia specchio che sentinella della struttura stessa. Le dimensioni esistenziali vengono collaudate in base all’indice di gradimento, calibrate sullo share e diffuse come gadget in omaggio. L’ambiente del contesto è detto della felicità, operando un’artificiosa e illegittima sostituzione semantica, ovvero la confusione fra soddisfazione del bisogno con felicità. La vertigine della libertà, un tempo ritenuta indispensabile per gettarsi nell’avventura della felicità, è oggi posta sotto sequestro assicurativo delle corporation dell’immagine e della comunicazione. Prevenire, d’altronde, è meglio che curare, perciò bisogna fare in modo che il benessere assuefaccia abbastanza da non acconsentire troppo al divagare del pensiero critico. Lo Stato, promotore e garante, architetta nei dettagli ogni processo affinché il dispiacere non si presenti mai, o qualora giunga venga disinnescato e riparato immediatamente. Il dispiacere è il contrario del piacere, dunque una pericolosissima anomalia nel sistema che rischierebbe di sciogliere l’incantesimo sociale. È la logica del capitale che prevarica sulla massa e la informa a piacimento proprio.
Lo Stato del benessere è, quindi, l’antitesi di uno Stato che realizzi il Bene comune e la felicità dei suoi cittadini, perché genera una simulazione collettiva per far credere ai suoi membri di aver raggiunto un certo grado di beatitudine, quando in verità non sta facendo altro che coltivarne l’annichilimento autodistruttivo.
Occorre uscire da questa trappola mentale e riappropriarsi dell’essenza nobile e profonda della politica, esorcizzandone i demoni della postmodernità per trasformarli in nuove opportunità di cambiamento globale e questo è possibile a partire dalla estrazione, almeno parziale per cominciare, della nostra vita quotidiana da quelle abitudini, e poi modi di pensare, in cui viviamo in maniera automatica e non consapevole, che sono profondamente influenzati dalla logica del godimento e attraverso i quali ricerchiamo una realizzazione che non dalle cose, ma dall’Essere, proviene.
Fonte: Idee&Azione