Liberalismo e razzismo
Di fronte all'ineluttabile connubio tra liberalismo e razzismo, entrambe espressioni sintomatiche della modernità occidentale, le potenzialità della Quarta Teoria Politica, come dottrina volta a porsi in contrasto con il nichilismo mercantilista imposto dal processo di globale omologazione, si palesano nella sua capacità di smascherare il suddetto connubio attraverso un processo di comprensione che, escludendo una determinazione negativa a prescindere di “anti-modernità”, possa costruire una prospettiva filosofica che si proponga di superare questa “età” del mondo attraverso la messa in evidenza delle sue più volgari contraddizioni.
Constatare il carattere intrinsecamente moderno del razzismo nelle sue svariate forme è il primo passo per comprendere il più complesso fenomeno della modernità e dell'imposizione su scala globale dei presunti “valori occidentali”. Delle tre ideologie politiche che hanno caratterizzato il percorso filosofico della modernità (liberalismo, fascismo/nazionalsocialismo e comunismo), due in particolare (liberalismo e nazionalsocialismo) si distinguono per il loro carattere marcatamente razzista. Ora, se il Soggetto del nazionalsocialismo era propriamente “la razza”; e dunque una forma di razzismo dai connotati espressamente biologici i cui maggiori teorici furono Johann Friedrich Blumenbach, il conte Joseph Arthur de Gobineau e Houston Stewart Chamberlain (autore de I Fondamenti del Diciannovesimo Secolo, testo che ispirò Il Mito del Ventesimo Secolo di Alfred Rosenberg), comunque non privo di voci critiche come quella di Julius Evola o di Herman Wirth (non a caso palesemente osteggiato nelle sue attività di ricerca dallo stesso Rosenberg). Il Soggetto del liberalismo, l'individuo atomizzato e separato da ogni forma di potenziale aggregazione sociale, rende difficilmente intuibile il carattere razzista di questa ideologia. Tuttavia, tale carattere è l'esito inevitabile del percorso filosofico che ha posto l'individuo all'interno di un centro illusorio esterno ad ogni realtà metafisica, e che vede nel progresso “ad ogni costo” e nella pretesa evoluzionistica la negazione stessa dell'umanità ed il suo superamento attraverso il fenomeno del transumanesimo.
Afferma Evola: “l'individualismo si caratterizza per la costituzione di un centro illusorio fuori dal centro, come pretesa prevaricatrice di un Io che è semplicemente quello mortale del corpo […] Da qui un radicale irrealismo, una radicale inorganicità in tutto ciò che è moderno. All'interno come all'esterno, nulla più sarà vita, tutto sarà costruzione: all'Essere estinto, il volere e l'Io si sostituiscono in ogni dominio, in un sinistro puntellamento razionalistico e meccanicistico di un corpo morto”1.
Julius Evola non era di certo estraneo a sentimenti di natura razzista. Tuttavia, quello di Evola era un razzismo dello Spirito che si esprimeva in primo luogo nel rifiuto del razzismo biologico come prodotto della modernità. Evola era razzista così come potevano esserlo Platone, Giulio Cesare o l'imperatore Giuliano. Evola, infatti, rifiuta la connotazione esclusivamente etnico-razziale del termino “ariano”, propria dell'esasperazione biologica del razzismo germanizzante, ritornando all'etimologia originaria della parola sanscrita Arya, significante “nobile”, la cui derivazione dalla radice AR è comune ai termini greci Aristos (migliore) e Aretà (virtù)2. Il razzismo spirituale di Evola è una coerente negazione della fede individualistica dell'epoca borghese e mercantile, e su di esso si impernia la reazione al sentimentalismo egualitario. In questo senso il razzismo evoliano tende ad un “rivolgimento all'indietro” ed a svolgere una funzione quasi katecontica nei confronti del declino della civiltà occidentale. Esso mira a dissolvere le perversioni della modernità basate sugli assunti ideologici dell'illuminismo, dell'umanitarismo e dello scientismo positivista. Il razzismo evoliano si basa sulla necessità di affermare una gerarchia delle qualità umane e fa delle doti di coscienza, di carattere e di azione, nonché del modo di vivere la spiritualità, la propria discriminante. La razza è prima di tutto una qualità interna all'essere umano: un patrimonio innato di attitudini, tendenze morfologiche e psichiche che distinguono gli uomini gli uni dagli altri. Lo Spirito, nella prospettiva evoliana, è l'autore del significato della natura della comunità umane ed il centro delle loro determinazioni storiche. Il razzismo di Julius Evola è dunque un rifiuto della modernità che, al contrario, ha fatto del razzismo nelle sue varianti più volgari una caratteristica peculiare della propria essenza.
A conferma dell'origine moderna del razzismo sta la constatazione che gli imperi del passato (compresi quelli mongolo-turchi di Gengis Khan e Tamerlano, spesso descritti dalla storiografia occidentale in termini esageratamente violenti e brutali) possedevano in tutte le loro manifestazioni un carattere multietnico e di intrinseca tolleranza religiosa. Non è un caso se Aleksandr Nevskij scelse di pagare un tributo all'Orda d'oro e di opporsi in armi ai cavalieri teutonici. Una scelta dettata, appunto, dalla constatazione che solo in questo modo avrebbe preservato l'Ortodossia russa dall'imposizione forzata del cristianesimo occidentale.
La modernità occidentale, e con essa la sua ideologia del progresso inarrestabile, è razzista nella sua stessa struttura. Come afferma il Prof. Dugin: “l'idea stessa che il presente sia migliore del passato e che il futuro sarà anche meglio del presente rappresenta una chiara discriminazione del passato ed una costante umiliazione degli uomini che vissero prima di noi; un insulto continuo all'onore ed alla dignità dei nostri antenati”3. È razzista l'idea stessa della globalizzazione unipolare basata sull'assunzione che la storia ed i valori occidentali, nella loro versione nordamericana, siano equivalenti a leggi universali. Il tentativo di omologazione di ogni società all'interno di una singola cultura globale basata su democrazia, parlamentarismo, capitalismo, individualismo, diritti umani e sviluppo tecnologico illimitato è un processo profondamente razzista4. Tale idea afferma implicitamente l'inferiorità di ogni cultura o civiltà “altra” considerata automaticamente alla stregua di imperfetta, sottosviluppata e da sottoporre ad un forzato processo di modernizzazione. E tale idea altro non è che “il prodotto dell'etnocentrismo anglo-sassone che rappresenta la più pura manifestazione dell'ideologia razzista”5.
Di fatto, storicamente, libertà e diritti, così come spesso si intendevano in ambito anglo-sassone, avevano dei precisi limiti di carattere etnico-razziale. Un'ideale politico che è stato tramandato dall'isola minore, la Gran Bretagna, all'isola maggiore, l'America, attraverso l'eredità puritana ed il dogma protestante della predestinazione, a loro volta prodotto dell'influenza del messianismo ebraico e di ciò che Evola, ancora una volta, definì in termini di “giudaizzazione del cristianesimo”.
Non è un caso se i coloni inglesi del Nord America hanno spesso appellato le popolazioni indigene come “razza esecrabile da sterminare” o se, come nel caso del generale Jeffrey Amherst durante la rivolta di Pontiac del 1763, invitassero i loro simili ad infettare i nativi americani col vaiolo. E proprio negli Stati Uniti, “terra della libertà” rispetto ad una Europa “terra del dispotismo” secondo la prospettiva del proprietario di schiavi Thomas Jefferson, la schiavitù era giustificata dall'idea che gli africani fossero adatti al suddetto ruolo a causa della loro “organizzazione psicologica primitiva”6. Va da sé che la stessa guerra civile statunitense più che banale scontro tra abolizionisti e non abolizionisti è da intendersi come lotta tra un sistema economico in decadenza ed uno nella sua fase di crescita e sviluppo il cui obiettivo era non tanto l'abolizione della schiavitù su basi razziali quanto la sua estensione su vasta scala in base ai “regolari” rapporti tra capitale e lavoro salariato all'interno di un sistema compiutamente capitalistico.
Ma a contraddistinguere il liberalismo è il razzismo nella sua variante culturale. Un'idea che nasce dalla pretesa superiorità morale della civiltà occidentale come “civiltà ultima” che condurrà inevitabilmente alla fine della storia secondo l'infausta quanto fallace interpretazione del crollo del mondo bipolare da parte del politologo statunitense Francis Fukuyama.
In questa idea di superiorità morale si inserisce il concetto di guerra come processo inscenato dalla potenza egemone nordamericana per distruggere psichicamente e moralmente il proprio nemico. Un'azione bellica che dunque è sempre volta all'imposizione del modello occidentale, squalificando il nemico e superando l'idea di guerra come prosecuzione della politica con altri mezzi secondo il noto motto di Von Clausewitz. Il nemico non è più qualcuno da ricacciare esclusivamente all'interno dei propri confini ma qualcuno da distruggere in modo definitivo. Tale idea si riscontra nella costruzione penal-criminalistica del diritto internazionale post 1945 e nel progressivo processo di spoliticizzazione volto all'imposizione universale del liberalismo come ideologia trionfante dopo il tracollo del blocco socialista negli anni Novanta del XX secolo. Il concetto di sovranità, come ostacolo a simile progetto, deve ovviamente essere eliminato. Come afferma Carl Schmitt: “L'epoca della statualità sta ormai giungendo alla fine. Con essa viene meno l'intera sovrastruttura di concetti relativi allo Stato, innalzata da una scienza del diritto dello Stato eurocentrica, nel corso di un lavoro concettuale durato oltre quattro secoli. Lo Stato come modello dell'unità politica, lo Stato come titolare del più straordinario di tutti i monopoli, cioè del monopolio della decisione politica, questa fulgida creazione del formalismo europeo sta per essere detronizzato”7.
Tuttavia il sistema imposto dal liberalismo non è privo di contraddizioni che condurranno inevitabilmente, presto o tardi, al suo tracollo. Ed il compito della Quarta Teoria Politica, oggi più che mai, è mettere in evidenza tali contraddizioni proponendo allo stesso tempo le soluzioni adeguate al loro superamento. Scrive ancora il giurista tedesco (parafrasando Donoso Cortes e Louis De Bonald): “La borghesia liberale vuole un Dio che però non deve poter divenire attivo; essa vuole un monarca che però deve essere privo di potere, essa pretende libertà e uguaglianza ma allo stesso tempo cerca di assicurare all'istruzione ed alla ricchezza il necessario influsso sulla legislazione, come se istruzione e ricchezza dessero il diritto di opprimere gli uomini poveri e non istruiti; essa elimina l'aristocrazia del sangue e della famiglia e lascia però sussistere l'impudente aristocrazia del denaro, che è la forma più ordinaria e stupida di aristocrazia; essa non vuole né la sovranità del popolo né quella del re”8.
Di fronte a siffatte contraddizioni, il Soggetto della Quarta Teoria Politica (il Dasein heideggeriano), con il preciso obiettivo di combattere e superare il razzismo culturale proprio della modernità occidentale, può anche assumere la fisionomia dell'Ethnos. Ovvero, secondo la prospettiva antropologico-filosofica di Lev Gumiliev, può assumere i connotati di un sistema dinamico che include non solo persone legate da una origine, da una etnia o da un linguaggio comune, ma anche da elementi ambientali, da tradizioni culturali e dalle relazioni reciproche con i propri vicini. I concetti di Ethnos e Dasein, infatti, non sono in contraddizione. “Esistono tanti Dasein quanti sono i popoli e le culture […] Ogni Dasein ha la sua misura, la sua idea di tempo, di spazio, di uomo, di Dio e di natura”9. Il rispetto di ogni singolo Dasein è il primo passo verso la fine dell'ideale razzista occidentale che schiaccia ogni diversità culturale e religiosa e verso la definitiva affermazione del mondo multipolare.
1J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma 1998, p. 380.
2J. Evola, Sintesi di dottrina della razza, Edizioni si Ar, Padova 1994.
3A. Dugin, The Fourth Political Theory, Arktos, Londra 2012, p. 44.
4Ibidem.
5Ibidem, p. 46.
6A. Thomas – S. Sillen, Racism and Psychiatry, Carol Publishing Group, New York 1972.
7C. Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972, p. 90.
8Ibidem, p. 80.
9A. Dugin, L'ultimo punto di discesa all'inferno, su www.geopolitica.ru.