L’Europa come potenza non è atlantica
Il cambio di presidenza negli Stati Uniti ha coinciso con l’anniversario della scomparsa del generale Charles de Gaulle e uno scambio di opinioni indicative tra l’attuale capo dell’Eliseo e il governo tedesco, nella figura del ministro della Difesa Annegret Kramp-Karrenbauer, che ben rappresenta il quadro incerto dei rapporti tra Stati Uniti e Unione Europea messi a repentaglio durante la presidenza di Donald Trump e, più in generale, dell’evidenza dell’affermarsi del multipolarismo negli equilibri mondiali.
«L’Europa, sovrana della propria difesa, combatta unita per i suoi valori contro le barbarie», questo l’appello del presidente francese Emmanuel Macron che sollecita l’Unione Europea a diventare più potente sulla scena internazionale e in grado di operare in modo indipendente dagli Stati Uniti in tanti ambiti, dalle operazioni militari alla politica industriale, di contro la remissiva postura tedesca, univocamente preoccupata del suo primato economico continentale e della sua catena di valore commerciale mondiale, riassunta nel più sconsolante servilismo di un “passato che – evidentemente – non passa” ben riassunto dalla Kramp-Karrenbauer, secondo la quale «gli europei non saranno in grado di sostituire il ruolo cruciale dell’America nel garantire sicurezza». In tal senso c’è davvero da provare nostalgia per il generale de Gaulle, che ancora nel 1964, aveva perfettamente definito il problema quando aveva dichiarato: «Secondo noi francesi occorre che l’Europa si faccia per essere europea. Un’Europa europea significa che essa esiste da sé e per sé, ovvero che al centro del mondo abbia la propria politica. Orbene, è proprio questo ciò che taluni respingono, consapevolmente o inconsapevolmente, pur sostenendo di volerne la realizzazione. In fondo, il fatto che l’Europa, non avendo una politica, resterebbe assoggettata a quella dettatale dall’altra sponda dell’Atlantico, pare loro, ancora oggi, normale e soddisfacente».
In effetti, sarà assai difficile che gli attuali protagonisti possano rappresentare un destino politico adeguato al continente. L’Unione Europea è evidentemente un comitato di affari, che si sottrae nelle sue fondamenta alla questione della sovranità e moltiplica alla potenza il dissidio irrisolvibile tra democrazia e liberalismo, partecipazione e individualismo di massa, volontà popolare e istituzioni tecnocratiche.
Due le tare strutturali dell’edificio europeo: 1) il primato dell’economico, anziché del politico e della cultura che determina un principio di cittadinanza inconsistente, rivestito dall’ideologia dei diritti civili e il catechismo moralistico del “politicamente corretto”; 2) è costruito dall’alto, con tanto di autoreferenzialità oligarchica e tecnomorfa delle classi dirigenti, insensibili al senso comune dei Popoli che dovrebbero governare, in ultima analisi intesi come ostacolo sostanziale all’inveramento di un mercato autoregolato.
Il primo nome dell’Unione Europea fu “Mercato comune” e all’oggi siamo a una completa deriva liberale delle istituzioni – e liberista dell’economia – che mercifica la società e fa tutt’uno con l’aver sposato la globalizzazione come scopo ultimo dell’impolitica distopia del cosmopolitismo apolide. In merito al verticismo, l’Europa non può non essere una complementarietà d’identità federate integralmente in una sussidiarietà comunitarista, una democrazia organica, mentre al suo opposto a Bruxelles vige una burocrazia centralizzatrice ed entropica che vuole imporsi con il dettato giuridico su ogni ambito vissuto, cementando la forma capitale, soppiantando la vitalità sociale e la natura delle cose.
Le sovranità nazionali si piegano alle dinamiche globali, ma al loro posto non emerge nel continente una sovranità politica legittima e autorevole, sussunta dallo scenario post-ideologico dell’involuzione di ogni ideale volontaristico in favore dell’abbrutimento della società dei consumi e del materialismo edonistico.
A quest’orientamento impolitico si sovrappone l’indolenza morale. Ossessionata dall’universalismo di cui è stata storicamente riferimento, l’Europa ha introiettato un senso di colpa e di negazione di sé che ha finito per plasmare la “visione del mondo” delle sue classi dirigenti e lo stile di vita del ceto abbiente, divenendo inoltre l’unico continente che si vuole “aperto all’apertura” senza più prendere in considerazione – tranne i vantaggi economici – di cosa si vuole significare al mondo. Il risultato è un’accidia imperdonabile e geopoliticamente suicida, dato che le dinamiche internazionali si proiettano nel disordine d’interessi plurimi divergenti, assolvibili solo se autosufficienti, quindi politicamente e militarmente difendibili.
Valga come esempio – tra gli altri possibili – la suicida politica migratoria degli ultimi decenni, sostenuta con tanta fanatica irresponsabilità assimilazionista, quanto inesistente realismo identitario, foriera di una disgregazione civica che oramai si configura come una strisciante e interstiziale “guerra civile fredda” interna, direttamente proporzionale alla mancanza di rispettabilità esterna, cioè di una politica estera comune. Come ha affermato Alain Finkielkraut: «ciò significa che, per non escludere più chicchessia, l’Europa deve disfarsi di se stessa, “de-originarsi”, conservare della propria tradizione nient’altro che l’universalità dei diritti dell’uomo […] Noi non siamo nulla, è la condizione preliminare perché non siamo chiusi a niente e a nessuno».
Nonostante ciò, l’Europa, come spazio metapolitico e ideale resta il riferimento per chiunque ne faccia parte per consapevolezza antropologica e culturale, essendo il processo di civilizzazione europea la nostra storia vissuta. Il valore di una terra di mezzo olistica, dove la totalità sia superiore alle singole parti, riconosciute e quindi complementari nelle differenze, è tutt’uno con l’identificarsi con la giustizia sociale e il bene comune, la reciprocità delle appartenenze comunitarie e corpi intermedi, la sostenibilità e una civiltà della misura capace di porre in simbiosi natura e cultura. Una comunità di destino.
Le ragioni di una terza via tra liberalismo e collettivismo hanno caratterizzato gli argomenti di tale tensione ideale, che nel secondo novecento ha significato rivendicare l’indipendenza europea e il non allineamento agli opposti imperialismi del sistema di Yalta. All’oggi, il mutato scenario storico internazionale, non muta la necessità di sottrarsi alla subalternità, nello specifico della globalizzazione, in favore di un multilateralismo aderente al realismo dei rapporti di forza in un mondo multipolare, progetto originale di cultura e civiltà.
Non vi è paragone fra un’Europa che cerchi di costituirsi come potenza politica autonoma sovrana e una Unione Europea come proceduralismo funzionale a misura di un libero scambio mercantile globale. In tal senso la questione militare non è accessoria e consta nel risolvere definitivamente il rapporto con la NATO.
Ideata in funzione antisovietica, durante il pieno svolgimento della Guerra Fredda, come risposta operativa alle possibili crisi tra blocco occidentale e blocco orientale, quest’alleanza militare, a rigore di logica e sua natura istitutiva, avrebbe dovuto cessare la sua esistenza all’indomani del triennio 1989-1991, ossia dopo la caduta del Muro di Berlino e in seguito alla dissoluzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Figlia del dualismo nei confronti del Patto di Varsavia (l’organizzazione sovranazionale militare facente capo all’URSS cui aderirono i paesi dell’Est Europa assoggettati) vinta quella che era definita come la “battaglia” principale, la NATO avrebbe dovuto iniziare a smantellarsi e, gradualmente, a ritirarsi dai territori europei in cui occupa suolo e basi militari (Germania, Francia, Italia in primis). Niente di tutto questo, a trenta anni da quegli eventi di cesura, si è verificato. Venuto meno il socialismo reale, la NATO è divenuta lo strumento esplicito degli interessi strategici, economici, commerciali, geopolitici e militari degli Stati Uniti, a tutto svantaggio della sovranità europea e del multilateralismo internazionale.
Non è un caso che tra i primi ordini esecutivi della amministrazione del nuovo presidente Joe Biden in politica estera confermano la presenza in Germania dell’intero dispositivo militare americano lì schierato e che la Russia va considerata un nemico strategico e geopolitico primario.
La serie d’interventi militari inanellati è storicamente acquisita: già nel periodo 1992-1999 la NATO agevola la crisi dell’ex Jugoslavia, accelerandone il processo di dissoluzione, sia diplomaticamente sia per mezzo dell’intervento militare sul campo da parte delle sue truppe. Il 1999, l’anno della crisi del Kosovo, realizza un intervento militare sul suolo europeo privo di ogni legittimità internazionale (ONU), alimentando le contrapposizioni etniche tra serbi, albanesi e kosovari, bombardando con l’uranio impoverito l’intera regione, con la complicità italiana (governo guidato da Massimo D’Alema, ministro della difesa Sergio Mattarella).
Il caso paradigmatico dei Balcani è solo l’inizio di un’espansione territoriale dell’ingerenza occidentale in tutta l’Europa orientale per accerchiare strategicamente la Russia, fino al colpo di Stato nel 2014 in Ucraina, ma poi, su altri scacchieri mondiali extra statuto, in primis quello Medio Orientale: Afghanistan, Iraq, Libia, Siria; considerando poi la Turchia – membro dell’organizzazione dal suo primo ampliamento nel 1952 – capace di una spregiudicata politica neo-ottomana nel mediterraneo, arrivata a sostenere il terrorismo fondamentalista islamista dell’ISIS. Come si possa continuare a sostenere le ragioni di questo strumento atto a puntellare la declinante egemonia mondiale statunitense, attiene al livello di ottundimento raggiunto dal dettato del pensiero unico dominante e, se vi è un tema “sovranista” davvero inequivocabile, su cui misurare le reali intenzioni, ulteriori alle declinazioni sinistre e destre del populismo, è proprio questo.
La NATO mina alla base la sovranità e l’indipendenza dell’intero continente. Settanta e più anni dopo, l’Europa, se credibile a se stessa, deve creare forze armate indipendenti, per una difesa comune integrata dei propri confini e dei propri interessi, sottraendosi all’unilateralismo e all’aggressività atlantista, fattore d’inimicizia e conflitto nel grande spazio euroasiatico. La civiltà europea, come potenza neutrale, punto di equilibrio tra Oriente e Occidente, recuperando la sua vera funzione storica e il proprio Limes, potrà essere sovrana, perché la “volontà di potenza” non ha niente a che fare con l’imposizione della forza e l’espansionismo, ma si manifesta nel dominio di sé, di chi quindi combatte disinteressatamente, non attaccato all’esito delle sue intenzioni, poiché, per dirla con Walter Whitman, «le battaglie si perdono nello stesso spirito con cui si vincono». Chi riconoscerà la decadenza e il crollo della civiltà occidentale potrà porre le condizioni per risvegliare la coscienza dell’Europa.