LA RICOSTRUZIONE DELL’EUROPA PLURIVERSALE
“È quindi più che legittimo riconoscere che, geograficamente, l’Europa non è un vero Continente e che possa perciò essere considerata come un’appendice dell’Asia […] Sarebbe quindi meglio parlare di ‘Oriente e Occidente’ piuttosto che di ‘Asia e Europa’ […] Il significato di questa bipolarità è ovviamente assai più culturale e storico che non antropologico o geografico [ed] è stato solo con l’ascesa della serie di Grandi potenze marittime (Portogallo, Spagna, Olanda, Inghilterra [e infine Stati Uniti]) a partire dal XV secolo, che l’idea di Occidente si è davvero consolidata. […] il principio dell’accerchiamento [marittimo] della Landmass eurasiatica ha dato vita, nel tempo, a quella globale contrapposizione tra ‘Oceania’ ed ‘Eurasia’”.
– Carlo Maria Santoro
Il concetto di Occidente geopolitico di cui parla Savin e su cui si basa l’interpretazione simbolica e geopolitica di tutta la storia moderna dell’Occidente, è quello fornito dall’ammiraglio Alfred Mahan nella teoria con la quale per la prima volta venne sistematizzato intellettualmente il potere marittimo e secondo cui chi la potenza che lo detiene è la naturale vincitrice nella lotta tra le potenze. L’Occidente geopolitico non si esaurisce però nel suo essere potenza marittima, ma accoglie anche, usando le grammatiche di Georges Dumézil, la “ribellione della terza funzione”, ovvero quella produttiva, “contro le altre due”, ovvero quella sacrale/giuridica e guerriera, ribellione che “da una parte rappresenta il potere effettivo acquisito dall’elemento economico su quello politico e su quello militare, mentre dall’altra comporta una penetrazione della mentalità mercantile in tutti gli strati della società”.
Durante il periodo colombiano (sec. XV-XIX) il cuore pulsante dell’Occidente geopolitico fu l’Inghilterra, l’isola minore che, affiancata ad altre potenze marittime secondarie, aveva reciso, per così dire, il cordone ombelicale che la teneva legata alla terra al fine di donarsi al mare, cioè l’elemento titanico, trasformandosi in un “pesce-balena”. L’Inghilterra “divenne soggetto e centro della elementare svolta della terraferma verso l’alto mare […] erede di tutte le energie marittime allora scatenate […] divenne isola in un senso nuovo e fino ad allora sconosciuto. [Distaccando] il suo sguardo dal continente [lo alzò] sui grandi mari del mondo”; essa divenne così l’egemone marittimo, la maggior potenza mondiale, che nel costruire il suo impero transoceanico diffuse quei mackinderiani “ideali democratici” di cui tutt’oggi si ritiene facciano da fondamento alla civiltà occidentale, aperta e moderna, che nacque dalla morte del Medio Evo. Civiltà con aspirazioni affatto universali che, per quanto riguarda la dimensione mondiale, “negli ultimi [secoli] gli stati occidentali e democratici hanno ripetutamente cerato di costruire un ordine internazionale su di relazioni aperte e fondate su regole tra gli stati – ovvero, si sono impegnati a costruire l’ordine liberale internazionale. Questo [è] il ‘progetto liberale’”.
Se la potenza marittima mondiale durante il periodo colombiano (sec. XV-XIX) fu quindi l’Inghilterra, nell’epoca postcolombiana (sec. XX ad oggi) la sede dell’Occidente è stata trasferita negli Stati Uniti, l’isola maggiore che ha preso in eredità l’impero transoceanico inglese allorquando l’isola minore si rivelò incapace di preservarlo dei confronti degli imperi continentali che mano a amno si stavano affacciando sulla scena mondiale.
Scrive a questo riguardo Carlo Maria Santoro: “L’ipotesi di partenza del pensiero politico americano, fin dalle origini, ma soprattutto dopo la conquista della ‘frontiera’ occidentale, è sempre stata quella della naturale centralità geopolitica globale del Western Hemisphere, basata su una strategia del potere marittimo che si sarebbe diramata, come le ali di una farfalla, dal cuore insulare del continente americano sia verso Est che verso Ovest”. Anche gli Stati Uniti perciò staccarono gli ormeggi e si decisero per il mare, compiendo a loro volta una trasformazione elementare: “la dinamica di trasformazione della politica estera statunitense […] potrebbe essere paragonata al ciclo biologico di una farfalla che estende le sue ali e la sua potenza sopra oltre i due terzi del globo. Si potrebbe allora, con questa immagine, distinguere il lungo periodo di tempo trascorso dalla proclamazione della Dottrina Monroe, della sua graduale applicazione durante il secolo diciannovesimo, finalmente alla Guerra con la Spagna (1823-1898), come una lunga fase di latenza (larva/crisalide) della potenza statunitense. Il secolo XX, spesso definito come ‘the American Century’ può essere invece inteso come l’arco vitale della farfalla nel suo pieno sviluppo di insetto adulto”. Il corpo dell’insetto si completa per primo e corrisponde al Western Hemisphere, mentre le ali si aprono con l’insieme di guerre posteriormente ed impropriamente definite Prima e Seconda Guerra Mondiale, allorquando le ali della farfalla si aprono definitivamente e completamente lungo gli oceani che circondano l’America, raggiungendo e coprendo parte del Vecchio Mondo. Mantenendosi nella geografia delle forme e proponendo un’ultima metafora etologica, anch’essa proposta da Santoro, con la Seconda Guerra Mondiale l’aquila di mare – o aquila dalla testa bianca – statunitense, che nel periodo di gestazione era rimasta a guardia del suo nido insulare, ha disteso le ali ed ha spiccato il volo, e gli Stati Uniti adesso sono come uno squalo che deve necessariamente nuotare senza interruzione nei sette mari che domina per poter respirare, mordendo di tanto in tanto le terre del Rimaland per nutrirsi.
In questo contesto l’Europa, luogo nel quale pur nacque l’Occidente geopolitico e che si era organizzata per il tramite del sistema dello jus publicum Europaeum durante il periodo colombiano, è diventata un’appendice del quadrante atlantico del nuovo Occidente americanocentrico: un ordine mondiale che, per affermarsi, ha dovuto promuovere la destituzione di potenza, ovvero la distruzione, dell’Europa – complice l’Europa medesima, che nel breve volgere di pochi decenni (1914-1945) divorò se stessa – e la riduzione della penisola europea ad oggetto della politica di potenza occidentale: una vera e propria testa di ponte – o punta di lancia – statunitense diretta contro le altre regioni eurasiatiche e volta, inoltre, ad impedire all’Europa di ricostruirsi. Continua Santoro:
“Si trattava, in sostanza, di un progetto geopolitico e culturale diretto a spostare il ‘centro’ della potenza mondiale dell’Europa agli Stati Uniti, trasformando il Far West americano (rispetto all’Occidente europeo) in Occidente tout court. In quest’ottica l’Europa avrebbe assunto un ruolo, dapprima paritario ma poi subalterno, di postazione territoriale avanzata, una vera e propria testa di ponte dell’Occidente in Eurasia, perdendo così la sua primogenitura e con essa annullando gradualmente le sue specificità culturali, storiche, politiche, etniche, nel grande calderone (melting pot) americano, dilatato all’Europa, che avrebbe via via omogeneizzato e ‘normalizzato’, sul modello gerarchico americano, l’intero Occidente”.
Il meccanismo normativo e istituzionale di questa complessa operazione, ovvero la destituzione di potenza dell’Europa e l’affermazione del Nord America quale nuovo epicentro dell’Occidente geopolitico, fu l’espansione del diritto internazionale pattizio, la diffusione della diplomazia multilaterale e l’impiego della filosofia politica di stampo idealistico e democraticistico, la quale si ergeva come un blocco di granito ideologico alle spalle della potenza militare, tecnologica e finanziaria di Washington. Ancora oggi “il primato geoeconomico degli Stati Uniti si fonda sull’integrazione di due regioni del mondo, l’Europa e l’Asia, in una regione transatlantica e in una indio-pacifica. Tale quadro regionale, di conseguenza, ha impedito alla Russia di ripristinare la propria soggettività in Europa e alla Cina di ripristinare la propria soggettività politica in Asia”. A questo primato si accompagnano, ovviamente, quello militare, tecnologico e culturale, nonché l’occupazione militare delle macroregioni interessate.
In Europa la Russia sovietica, dissanguatasi nella crociata tra nazional-socialismo e bolscevismo, fu quindi un nemico di comodo, una “stampella” sulla quale gli Stati Uniti, dopo aver promosso la “sovietizzazione” dello spazio euro-orientale e l’artificiale divisione in due del corpo distrutto dell’Europa, poggiarono il “sistema bipolare zoppo o monopolare zoppo” del mondo di Yalta. All’interno di questo mondo l’Unione Sovietica, rinchiusa nella propria prigione continentale dalla politica del contenimento, “ha avuto un ruolo e una voce, ma non il potere di fare qualcosa di più che un pavoneggiarsi all’interno della propria gabbia, finché, nel 1989, la gabbia implose”.
Durante il periodo della Guerra Fredda, il peggior timore degli Stati Uniti non era costituito da un’eventuale operazione bellica sovietica nell’Europa occidentale, che fu sempre ritenuta improbabile quando non semplicemente impossibile dagli stessi ideatori dell’Alleanza Atlantica, quanto l’eventuale “offensiva di pace” sovietica o un’eventuale elezione nei paesi dell’Europa atlantica di esecutivi filo-sovietici o neutralisti proprio per il tramite dei mezzi parlamentari-democratici che il processo di atlanticizzazione della parte più occidentale dell’Europa aveva imposto ai paesi europei. Una simile eventualità, infatti, avrebbe fatto cadere il “cemento di paura” che divideva artificiosamente in due l’Europa, facendo venire meno la ragione che giustificava il mantenimento della relazione di interdipendenza asimmetrica americano centrica: punta di diamante dell’archiettura globale che fornisce agli Stati Uniti la loro supremazia. Infatti, ogni tentativo di ricomporre, almeno in prospettiva, la mutilazione dell’Europa in termini politici, economici o continentali incontrò la ferrea opposizione di tutti i governi di Washington, i quali hanno spesso cercato di sabotare il buon esito dei negoziati coi sovietici su materie europee (dalla Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa e alle questioni del disarmo, passando per “l’Europa dall’Atlantico agli Urali” di De Gaulle fino alla “casa comune” gorbacioviana o alla “confederazione europea” di Mitterrand).
Un’Europa politicamente unificata, o anche solo dotata di significativa autonomia, può infatti comportare, per via della contiguità geografia nei confronti di Russia e Asia vis-à-vis la distanza oceanica che la separa dall’isola maggiore, “la sua autonomizzazione dalla tutela statunitense”: una piena violazione del “concetto ispiratore dell’azione politica americana verso l’Europa, [cioè] quello che vedeva nel ‘sistema atlantico’ un meccanismo d’integrazione irreversibile”, un’integrazione interdipendente che, nonostante l’apparente egualitarismo sotteso al termine, nasconde la fattuale asimmetria di potere che vige tra l’Europa e il Nord America.
L’architettura di integrazione dell’Europa occidentale non deve trarre in inganno. Infatti, il mito europeista, incoraggiato dagli Stati Uniti, che ha guidato l’integrazione dell’Europa occidentale (ora Unione Europea) dopo il 1945, e che in seguito al crollo dell’Unione Sovietica fu esteso anche alla parte dell’Europa di cui antecedentemente gli Stati Uniti avevano pur promosso la sovietizzazione, “è stato generato nel secondo dopoguerra dal rifiuto del nazionalismo, delle culture etniche e dalla diversità, perfino razziale, che pure hanno contraddistinto la storia europea e le sue guerre del passato, mentre dall’altro si è basata sull’auspicio, intriso della retorica normative tipica delle ‘piccole utopie’ istituzionaliste dell’Europa di Bruxelles e di Maastricht, della creazione di un nuovo nazionalismo europeo tecno-mercantile, al quale però non viene assegnato alcun ‘senso’, né alcuno ‘spirito’”. Tale mito tecno-mercantile, che fonda l’Unione Europea, è privo di “ethos arcaico, ovvero […] funzione di una teologia basata sul mito e sulla rilevazione; [di] etica filosofica di matrice aristotelica; [di] mito, inteso come trasformazione e atemporalità delle ‘origini’; e [di] politica vista come prodotto della convivenza e della inconciliabile prossimità fra morale, diritto e ‘polis’”. Esso è perciò un mito cattivo, poiché ogni ricostruzione o rinascita europea – che sarebbe, simbolicamente e praticamente, l’antitesi della sua autodistruzione (1914-1945) –, “non può avvenire se non attraverso una definizione spirituale e geostorica dell’identità europea”. Il gigantismo tecno-mercantile, che “come tutte le infezioni ideologico-culturali è di matrice americana”, ha, al contrario, ridotto l’Europa a mera “economia, tecnica e mercato”. Nel mondo internazionale, perciò, “l’UE, meno territorio con cui fare affari e solo se questi non si scontrano con gli interessi statunitensi, sfiora l’irrilevanza”.
La logica del paradigma d’interdipendenza atlantico non è infatti cambiata nemmeno in seguito al crollo sovietico e all’apertura dei blocchi socialisti al sistema occidentale, che ha raggiunto così valenza universale. Infatti, la vittoria del modello occidentale su quello orientale, che fu dovuta più ad un abbandono del secondo che non per virtù del primo, ha implicato il ripresentarsi dello “spettro della riappacificazione” europea, ovvero la possibile ricomposizione del corpo dilaniato dell’Europa e, quindi, l’eventuale fine del sistema di interdipendenza atlantico, cardine dell’architettura di potere dell’Occidente geopolitico. L’atlanticizzazione dello spazio euro-orientale in seguito al venir meno della saturazione sovietica è servita proprio per interporsi come diaframma divisore tra il cuore economico europeo e la profondità territoriale russa, col risultato che “le linee di divisione della Guerra Fredda vennero semplicemente spostate verso est”. Ma tale divisione, che è stata tracciata “militarizzando la promozione della democrazia da parte dell’Occidente” e sfruttando il momento di dipendenza russa nei confronti dell’Occidente, non può che essere per sua natura instabile e temporanea, e quindi risolversi soltanto con la vittoria finale di uno dei due contendenti.
Si spiega così la ragione per la quale immediatamente dopo la vittoria dell’Occidente capitalista sull’Oriente socialista in Europa si è instaurato un dominio pressoché monopolistico del paradigma liberalcapitalista, mercantilista e istituzionalista, ovvero globalista, nel campo degli studi politologici, con annesso nascondimento e occultamento di tematiche scomode; paradigma, questo, che altro non è che l’ideologia delle potenze marittime e degli Stati Uniti in particolare. Allo stesso modo, si capisce per quale ragione gli Stati Uniti hanno preconfezionato ed esportato all’Europa monoculturali ideologie multiculturaliste, che parlano tanto di diversità salvo poi bandirla in ogni sua forma, da una parte, mentre hanno promosso il nazionalismo di secessione negli Stati già multietnici (Jugoslavia, URSS, Sudan, ecc.) dall’altra. L’imposizione e l’esportazione di questo pericoloso paradigma omologante, che è caratteristica fondamentale dell’Occidente geopolitico e che ha raggiunto livelli universali durante il momento unipolare, non è che “l’assalto dei Titani all’Olimpo”, ovvero della crematistica agli dèi del pluriverso politico; titani che per il tramite di spallate democratiche e guerre umanitarie auspicano alla “unificazione del Pianeta sotto l’egida di Washington, campione dell’Umanità, e, innanzitutto, la realizzazione di un governo mondiale basato sui criteri liberisti dell’economia di mercato”. Commenta Costanzo Preve: essa è l’immagine della “fine capitalistica della storia, risoltasi in organizzazione capitalistica integrale del mondo (Tecnica per Martin Heidegger, Poststoria per Arnold Gehlen, Grande Satana per Ruhollah Khomeyni, eccetera). […] Potremo definirla un cocktail di Hannah Arendt e di Fukuyama”.
Ebbene, tale avanzata è stata solo recentemente arrestata dalla paziente opera di tessitura eurasiatica (e parzialmente latinoamericana) lanciata dagli Stati di dimensione continentale che sono sopravvissuti alla strategia del frazionamento occidentale, oltre che dal loro tentativo di imporre un qualche, seppur parziale, dominio politico sul vortice crematistico.
La differenza essenziale tra le linee di divisione che si sono quindi formate e quelle del periodo della Guerra Fredda (che fu fredda esclusivamente da un punto di vista eurocentrico) sta nel fatto che, se nel periodo del bi/mono-polarismo zoppo l’Oriente era rinchiuso nella propria prigione continentale, adesso l’Asia è cresciuta per via “della ascesa spettacolare della Cina, che ribalta i cinquecento anni di dominio occidentale”. La Cina, infatti, dopo esser riuscita a sopravvivere al tentativo occidentale di trasformarla in una propria colonia economica (tentativo che ha i propri germi già dalla “politica della porta aperta” delineata nella seconda metà dell’Ottocento) nonché, a contrario dell’Unione Sovietica, di aprirsi al sistema di interdipendenza occidentale senza collassare, ha tradotto il proprio arricchimento in influenza politica ed economica, riuscendo così anche ad offrire un tipo di globalizzazione alternativa a quella occidentale per il tramite della proprio macroprogetto geoeconomico della Nuova Via della Seta.
Come rileva il generale cinese Qiao Liang, alla pressione statunitense che vien dal mare, la Cina, fedele alla strategia di non affrontare direttamente un avversario più forte, ma di “stemperarne gli attacchi” e di “usare la dolcezza per vincere la forza”, si gira verso l’entroterra, dalla parte opposta rispetto alla pressione dell’avversario, e offre agli altri paesi eurasiatici (e in parte latinoamericani) la possibilità di unirsi alla costruzione di un più o meno retorico “futuro condiviso”.
Ciò è precisamente quanto fatto dalla Russia dopo che l’Unione Europea, con la quale aveva innanzitutto cercato di creare una Grande Europa da Lisbona a Vladivostok, si rivelò essere non già una possibilità di costruire un nuovo paradigma di sicurezza paneuropeo, ma un cavallo di troia del mondo atlantico, giacché “dopo il collasso dell’Unione Sovietica le politiche dell’Occidente misero Mosca con le spalle al muro: o si sottometteva completamente agli obiettivi geopolitici degli Stati Uniti e dei loro alleati […] o si allontanava dalla politica filoccidentale”. Effettivamente, Cina e Russia hanno reso compatibili e quindi armonizzabili i rispettivi progetti di integrazione eurasiatica, laddove invece sia l’Unione Europea che i trattati transatlantici e transpacifici sul commercio e gli investimenti promossi dagli Stati Uniti sono stati resi mutualmente escludenti, e perciò conflittuali, con i progetti di integrazione russi e cinesi. Imperocché questi ultimi si sono recentemente rivelati, insieme alle alternative culturali alla globalizzazione americanocentrica che offrono, più dinamici ed attraenti rispetto a quelli occidentali, sicché sempre più paesi diventano sensibili ai richiami di tessitura sino-russi. Ormai, a questi richiami potrebbe tosto lasciarsi affascinare anche l’Europa.
Et pour cause. L’Europa, che geograficamente è la penisola occidentale della massa terrestre eurasiatica, aderendovi transiterebbe “da cuore di un mondo occidentale-centrico che predica l’universalismo liberal-democratico a una civiltà distinta alla periferia occidentale interna della Grande Eurasia”. Essa, oltre a ricostruirsi istituzionalmente, potrebbe persino ritrovare la propria anima, ovvero quello spirito che vivifica e identifica ogni attore che non sia puramente tecnocratico o tecno-mercantile, dall’incontro con le altre culture eurasiatiche che ancora resistono all’assalto dei titani.
Questo confronto, ça vans san dire, non può darsi con gli Stati Uniti d’America, giacché “a differenza di ogni altra nazione, gli Stati Uniti non sono il prodotto della propria territorialità o etnicità, ma invece il risultato della loro ideologia. […] Su questa diversità sostanziale, genetica e di formazione, s’innesta il significato di quella ‘lontananza’ culturale che impedisce agli Americani di comprendere Eurasia […] È una ‘lontananza’ che sovrappone spazi diversi, incomunicabili e non sovrapponibili. Sulla base di queste considerazioni si può allora sostenere che la distanza spaziale fra l’America e l’Eurasia è di gran lunga più grande di quella strettamente geografica. […] L’Europa ha un Geist diverso da quello degli Stati Uniti”. E ciò naturalmente senza tener conto del fatto che “Tutta la cultura politica degli Stati Uniti, fin dalle origini […] è sostanzialmente antieuropea”.
Ma tale incontro è esattamente ciò che teme Washington, giacché un’eventuale autonomizzazione, che è un passaggio obbligatorio per ogni ricostruzione, dell’Europa comporterebbe la perdita della più preziosa perla del suo impero transoceanico. Ed è per questa ragione che si assiste, da parte delle forze politiche euro-atlantiste, alla promozione del disaccoppiamento dell’Europa dalla Russia e dalle altre potenze eurasiatiche, che nei fatti si traduce dell’isolamento dell’Europa e finanche in una sua nuova distruzione al fine di riaffermarne la condizione di cattività nei confronti del gigante d’oltreoceano; gigante, questo, che già una volta, per estendere completamente le proprie ali, dovette passare per la distruzione dell’Europa. Detto altrimenti, l’Europa si trova davanti ad un bivio, ad un aut-aut, ad una scelta che non riguarda solamente la politica estera, ma anche il piano istituzionale, politico, economico, culturale e finanche spirituale. Essa deve decidere da che parte stare (unipolarismo o multipolarismo, Occidente o Oriente, Oceania o Eurasia, crematistica o pluriverso), e la scelta atlantica comporterebbe “la ricaduta nel suicidio storico dell’Europa novecentesca”, oltre ad essere “la fine storica, sociale, e filosofica dell’Europa”.
Il libro di Savin si dimostra perciò utile al lettore italiano, poiché fornisce un’ampia disamina delle numerose immagini dello spazio, delle grammatiche ideologiche nonché delle strategie entro le quali si muovono gli attori mondiali, rompendo così l’incantesimo omogeneizzante col quale si è tentato di annebbiare la mente europea e fornendo inoltre dei possibili indirizzi per una politica di liberazione personale, nazionale, continentale.