La rivoluzione è già finita
L'inesistente copertura mediatica per le oceaniche (queste sì) manifestazioni di sostegno alla Repubblica islamica avvenute nei giorni scorsi in Iran la dice lungo sul carattere servile e “partigiano” dei principali mezzi di informazione occidentali.
Avidi di sangue e desiderosi di veder compiersi una nuova “rivoluzione colorata” contro un sistema politico, religioso e filosofico che continuano a non conoscere e a non comprendere, i media cosiddetti mainstream hanno prodotto in serie delle analisi in cui odio ideologico, ignoranza e malafede si sono fusi con una narrazione dei fatti volta a presentare delle proteste originariamente di natura economico-sociale come vera e propria rivolta e come manifestazione di un prossimo collasso politico del paese.
Nello specifico, analisti e pseudo intellettuali sempre più allineati ai dettami neocon e sionisti sono arrivati a parlare di un'improbabile rivolta contro l'obbligo del velo e di scellerato appoggio dell'Iran al terrorismo internazionale (sic!). Taluni hanno confuso Hezbollah con Pasdaran e parlato di divisioni tribali, settarie ed etniche (già sfregandosi le mani per una possibile disgregazione del paese) forse ignorando che la stessa minoranza sunnita della regione sudorientale del Sistan e Baluchistan fosse già scesa in strada in sostegno della Repubblica.
Le proteste antigovernative, iniziate il 28 dicembre scorso, sono state molto diverse tra loro ed hanno riguardato essenzialmente alcuni aspetti legati alla politica economica del presidente Rouhani e del suo gabinetto. Si è protestato per il carovita, per la corruzione, per la disoccupazione giovanile e per gli aiuti alle popolazioni terremotate che tardano ad arrivare così come i presunti benefici dell'accordo sul nucleare (JCPOA).
Ora, nessuno può negare il fatto che l'Iran abbia dei problemi di natura economica. Esiste un problema di sottoccupazione più che di disoccupazione perché vi è un eccesso di laureati costretti a svolgere ruoli e mansioni non propriamente in conformità con quello che è stato il loro percorso di studi. Tuttavia, al contrario di ciò che si pensa in Occidente, l'economia iraniana è ben più forte e diversificata di quanto si pensi, ed è legata solo per il 20% al settore degli idrocarburi. Esiste altresì un problema di contrasto al fenomeno corruttivo. Cosa che comunque accomuna l'Iran a qualsiasi altro paese al mondo.
E nessuno può negare che il JCPOA non abbia prodotto gli esiti sperati. L'amministrazione Trump nella sua furia sionista iranofoba, desiderosa di avere tutto e subito, ha apertamente condannato l'accordo non comprendendo il fatto che questo fosse stato costruito scientemente dall'amministrazione Obama come un cavallo di Troia. Ovvero, come un sistema di lenta ma progressiva penetrazione dell'imperialismo nordamericano in Iran attraverso la sua apertura economica. Un processo che a lungo andare avrebbe inevitabilmente prodotto il tanto sperato soft evolutionary regime change. Se è vero che il JCPOA è un pessimo accordo, come sostenuto dai neocon nordamericani, è altrettanto vero che questo sarebbe stato enormemente più utile agli obiettivi geopolitici di lungo periodo degli Stati Uniti rispetto a quelli dell'Iran o più in generale del blocco eurasiatico. Di fatto, un regime change in Iran impedirebbe il tanto agognato sbocco alla Russia nei mari caldi e rafforzerebbe il controllo talassocratico statunitense sul rimland.
Ciò che in ogni caso appare evidente è che il sionismo, non potendo permettersi un confronto militare diretto contro l'Iran, troppo potente sul piano militare e demografico, cerchi comunque di favorire e cavalcare ogni manifestazione di dissenso e opposizione interna sfruttando i servizi di agitatori professionisti, agenti infiltrati e di gruppi terroristici come i Mujahedin-e Khalq; ennesima espressione di quell'americanismo di sinistra che ha fatto danni incalcolabili ovunque si sia palesato.
Nessun dubbio inoltre sul fatto che l'amministrazione Rouhani non si sia dimostrata all'altezza della situazione. E paradossalmente è stata proprio la sprovveduta strategia del “tutto e subito” attuata dagli Stati Uniti a rendere evidente l'infiltrazione occidentale e sionista nelle proteste facendo in modo che questa venisse facilmente individuata e contrastata dalle forze di sicurezza senza ricorrere, al momento, all'aiuto delle Guardie rivoluzionarie.
L'errore del presidente Rouhani, inoltre, è stato quello di aver firmato un accordo, fidandosi dei partner occidentali e nella prospettiva di vantaggi economici immediati, che in ogni caso avrebbe messo a rischio la stabilità e la tenuta del sistema iraniano.
Un errore che ha la sua origine nel non aver tenuto a mente l'insegnamento di Jalal Al-e Ahmad: colui che rese celebre il concetto di gharbzadegi (intossicazione da Occidente) coniato da Ahmad Fardid nella metà degli anni Cinquanta del XX secolo. Infatti, consapevole di non poter tornare indietro ad un passato pre-tecnologico, Jalal Al-e Ahmad, profondo estimatore di Junger e Heidegger, si proponeva come obiettivo la distruzione degli effetti tossici della modernità occidentale attraverso la sua trasfigurazione e usando la sua tecnologia subordinandola (e non acquisendola acriticamente) al servizio di uno Stato sciita rivitalizzato ed al potere dell'autentica cultura iranica tradizionale.