Dipendenza ed ecologia nell’America Latina contemporanea, Parte I: la colonizzazione della coltivazione della soia paraguaiana da parte del business brasiliano
Sebbene la sua influenza sia andata scemando negli ultimi decenni, la teoria della dipendenza rimane un prisma indispensabile attraverso il quale considerare lo sviluppo biforcuto, o polarizzato, delle economie nazionali all’interno del sistema mondiale capitalista. Questo quadro, in cui la persistenza di uno sviluppo ineguale è attribuibile all’interrelazione tra il nucleo centrale industrializzato e la periferia sottosviluppata, ammette sia la portata geografica che storica per affrontare adeguatamente i difficili problemi dell’economia politica e per tracciare con precisione le catene di dipendenza che inibiscono le economie periferiche. Attraverso due blog post, desidero esplorare come la teoria della dipendenza possa aiutarci a comprendere varie ecologie della dipendenza in America Latina, tra cui l’agrobusiness brasiliano nella soia paraguaiana (questo blog post) e il ruolo della domanda industriale cinese nel limitare l’autonomia subimperiale brasiliana nella coltivazione della soia (nel secondo blog post). In questo post, la colonizzazione della coltivazione della soia paraguaiana da parte dell’agrobusiness brasiliano viene utilizzata per dimostrare che le potenze sub-imperialiste possono ottenere una relativa autonomia all’interno della periferia rendendo dipendenti gli Stati più deboli nelle loro vicinanze.
Dalle nazioni dipendenti alle ecologie periferiche
Una preoccupazione fondamentale della teoria della dipendenza è la misura in cui gli Stati periferici sono padroni del proprio destino economico, o quanto concretamente sono in grado di esercitare l’autonomia all’interno del sistema capitalistico globale. Dos Santos ha fornito forse la definizione più comunemente citata di dipendenza all’interno del cannone della teoria della dipendenza, descrivendo la situazione come una situazione “in cui l’economia di alcuni Paesi è condizionata dallo sviluppo e dall’espansione di un’altra economia a cui la prima è soggetta” (Dos Santos, 1970: 231). In breve, si potrebbe in qualche modo caratterizzare con precisione la teoria della dipendenza come un quadro di autonomia relativa, con la capacità di autodeterminazione economica delle economie periferiche attivamente limitata dalla loro relazione subordinata con quelle del nucleo industrializzato. È importante notare che l’autonomia, in questa concezione, non è semplicemente relativa ma condizionata, con l’autonomia delle economie centrali che è il prodotto diretto della dipendenza periferica. Secondo questa concezione, lo sviluppo ineguale delle nazioni centrali e periferiche può essere attribuito, in parte, alla dipendenza delle seconde da parte delle prime e alla conseguente perdita di autonomia delle seconde.
Tuttavia, per quanto questo quadro sia rivelatore dell’ordinamento gerarchico delle economie nazionali, enfatizzando il contrasto tra le economie nazionali del nucleo e della periferia, l’analisi centrata sullo Stato-nazione di alcuni teorici tradizionali della dipendenza (Prebisch, 1962; Dos Santos, 1970; Cardoso & Faletto, 2021) potenzialmente oscura le modalità oppositive che si propagano a livello nazionale e subnazionale. In altre parole, l’interazione relativa tra autonomia e dipendenza su scala globale è in qualche modo offuscata da un approccio analitico che tratta gli Stati nazionali come unità coerenti e che promulga una divisione semplicistica tra nazioni centrali e periferiche, o quelle del Nord e del Sud, senza riconoscere la miriade di nuclei e periferie che trascendono e sovvertono i rigidi confini nazionali. In altre parole, nuclei e periferie esistono sia all’interno che tra le cosiddette nazioni core e periferiche, con relazioni di autonomia e dipendenza che si manifestano sia su scala subnazionale che internazionale.
Nell’interesse di una migliore mappatura di questa dinamica, questo post in due parti incoraggia una comprensione ecologica della dipendenza, in cui la dipendenza relativa di una nazione, di una regione o di una risorsa non è indicizzata ai rispettivi deficit commerciali, alle capacità industriali o alle abitudini di consumo degli Stati centrali e periferici, ma alle specifiche richieste imposte al mondo naturale dal capitale transnazionale industrializzato. In altre parole, potremmo comprendere meglio le dimensioni della dipendenza analizzando la subordinazione delle ecologie periferiche (che potrebbero esistere al di fuori, all’interno o persino tra Stati nazionali centrali e periferici) all’impresa di accumulazione del capitale, piuttosto che limitarci a considerare la subordinazione di vari gruppi e strutture all’interno dell’economia brasiliana alla domanda industriale cinese. Questo ci libera dalla rigidità analitica di un approccio incentrato sullo Stato-nazione e permette agli analisti di comprendere l’autonomia e la dipendenza in un contesto globalizzato in cui le preoccupazioni ecologiche dominano i discorsi pubblici e accademici. Per illustrare questo punto, questo post esplora la relativa autonomia e dipendenza degli Stati latinoamericani, la musa tradizionale della teoria della dipendenza, da tre punti di vista analitici sequenziali, utilizzando la catena di approvvigionamento della soia come prisma attraverso il quale comprendere il funzionamento della dipendenza nel contesto contemporaneo.
Paraguay, Brasile e la colonizzazione della soia
Dall’inizio del millennio, la crescente domanda cinese ha stimolato una massiccia crescita delle superfici coltivate a soia in tutta l’America Latina (North & Grinspun, 2016). Questa tendenza è indicativa del più ampio fenomeno della “riprimitizzazione”, ovvero della marcata espansione di settori come quello minerario e agricolo che dipendono principalmente dall’estrazione e dall’esportazione di risorse primarie (Cooney, 2016). L’integrazione della Soia nelle catene di approvvigionamento internazionali la rende un utile prisma attraverso il quale esaminare le relazioni di dipendenza tra unità economiche nazionali. Se, come suggerisce questo blog post, la dipendenza si manifesta come un complesso intreccio di estrazione e sfruttamento attraverso i confini, allora la catena di approvvigionamento della soia funge da filone distinto che attraversa la miriade di strati che si sovrappongono, consentendo una visione più completa e più coerente della sua struttura altrimenti labirintica. Di conseguenza, l’argomento iniziale qui presentato riguarda il modo in cui la colonizzazione dell’agricoltura paraguaiana da parte dell’agrobusiness brasiliano dimostra la funzione intra-continentale di dipendenza e autonomia.
Negli ultimi decenni, le imprese agroalimentari brasiliane hanno ampliato la loro ricerca di territori di accumulazione del capitale nella loro periferia sottocapitalizzata (Luxemburg, 2015), con una crescita annuale degli investimenti brasiliani in America Latina di 6 miliardi di dollari solo nel periodo 2004-2010 (Misoczky & Imasato, 2014). Anche prima di quest’ultima ondata di colonizzazione agricola, Marini (1977: 208) descriveva in modo influente il Brasile come una potenza “subimperialista”, in grado di esercitare l’autonomia a livello internazionale attraverso il perseguimento di “una politica espansionistica relativamente autonoma”. In sostanza, le nazioni “subimperialiste” come il Brasile sono in grado di esercitare un’influenza sugli Stati più deboli della loro periferia, ottenendo così un maggior grado di autonomia su scala internazionale come condizione dell’intensificazione della dipendenza di questi Stati periferici. In particolare, Marini (1977) ha sostenuto che questo sviluppo non libera il Brasile dalla dipendenza strutturale dal nucleo centrale industrializzato, ma che il ruolo di egemone regionale del Brasile gli garantisce un’autonomia limitata rispetto agli Stati periferici costretti a una condizione di dipendenza nei confronti del capitalismo brasiliano.
Questa espansione del “subimperialismo” brasiliano ha ricevuto un significativo sostegno da parte dello Stato sia sotto i governi di sinistra che sotto quelli conservatori, con la banca nazionale di sviluppo che ha finanziato progetti infrastrutturali in Bolivia per consentire un’ulteriore integrazione tra le due economie (Friedman-Rudovsky, 2012) e il governo del PT che ha facilitato l’acquisto di vaste aree coltivabili in Mozambico da parte di società brasiliane (Clements & Fernandes, 2013). Investimenti di questo tipo nei Paesi periferici aprono nuove strade per l’espansione della frontiera agricola, e quindi per l’accumulazione di capitale, in regioni in cui la protezione dell’ambiente è lassista, i salari sono bassi e l’espropriazione spesso violenta dei piccoli proprietari è ignorata, o addirittura aiutata, dalle autorità locali (Clements & Fernandes, 2013).
Forse la manifestazione più significativa di questo “subimperialismo” brasiliano, almeno nello spazio agricolo, è la colonizzazione della produzione di soia paraguaiana da parte delle imprese agroalimentari brasiliane che, secondo le stime, controllano il 64% della superficie totale coltivata a soia (Guereña, 2013), pari a circa il 25% della terra arabile del Paraguay (Glauser, 2009). Con le imprese brasiliane che mantengono il controllo di maggioranza sulla coltivazione di una coltura che rappresenta il 40% delle esportazioni totali del Paraguay (Wesz, 2021) e con molte delle restanti piantagioni di soia controllate dalle imprese agroalimentari argentine (Ezquerro, 2016), la produzione di soia in Paraguay può essere descritta come una manifestazione dell’imperialismo agricolo e il Paraguay stesso è più una piantagione dipendente che uno Stato nazionale sovrano. La quintessenza del rapporto di dipendenza si realizza quindi nelle terre coltivate del Paraguay, con la direzione del settore agricolo ampiamente “condizionata” dallo sviluppo e dall’espansione dell’agrobusiness brasiliano e argentino.
Questa “stranierizzazione” (Galeano, 2012) dell’agricoltura paraguaiana ha compromesso in modo sostanziale l’autonomia nazionale, minacciando la sovranità alimentare. A seguito di una campagna nazionale di “accumulazione per spossessamento” (Harvey, 2003), migliaia di piccoli agricoltori sono stati sfollati dalle loro terre, con i loro appezzamenti appropriati dalle piantagioni di soia di proprietà brasiliana (Ezquerro-Cañete, 2016). Questo sfollamento è un’impresa prevalentemente coercitiva, con i piccoli agricoltori convinti ad abbandonare i loro appezzamenti ai baroni della soia brasiliani attraverso minacce di violenza e l’avvelenamento attivo delle comunità tramite lo spargimento intenzionale di pesticidi e altre sostanze chimiche nocive intorno alle famiglie e agli appezzamenti rurali (Ezquerro-Cañete, 2016). Questa coorte di piccoli agricoltori produceva tradizionalmente la maggior parte delle colture di base consumate nel Paese, mentre le piantagioni che le hanno sostituite producono la stragrande maggioranza dei raccolti di soia per il consumo estero, spesso come mangime ricco di proteine per il bestiame (Guerena, 2013). Di conseguenza, una nazione che, per quanto riguarda le colture di base, un tempo era ampiamente autosufficiente, ora necessita di costanti importazioni dall’Argentina e dal Brasile per nutrire la sua popolazione, aggravando ulteriormente la dipendenza del Paraguay dalle stesse potenze “subimperialiste” che hanno messo in atto questa trasformazione agricola (Elgert, 2016).
Qualsiasi concezione del Paraguay come Stato unificato e sovrano dovrebbe quindi essere messa in discussione, dato il privilegio del fabbisogno calorico del bestiame straniero rispetto a quello delle popolazioni rurali domestiche, attuato da questa globalizzazione dell’agricoltura e dalla colonizzazione della soia. Il Paraguay, quindi, non è tanto uno Stato autonomo quanto “un impianto di assemblaggio”, Guerena (2013: 19), per le imprese agroalimentari brasiliane, che forniscono la terra e la manodopera necessaria per la coltivazione prima di esportare gran parte del valore prodotto all’interno del settore agricolo nazionale al suo vicino subimperialista. In effetti, anche la manodopera richiesta per queste imprese è spesso più facilmente fornita da immigrati brasiliani (Correia, 2019), rendendo il Paraguay un terreno passivo di sosta per un’impresa completamente straniera, destinataria di diverse esternalità ambientali e sociali negative ma di pochissimi benefici.
La subordinazione politica ed economica del Paraguay agli interessi brasiliani è stata categoricamente dimostrata nel 2008, quando il neoeletto presidente di sinistra Fernando Lugo ha tentato di imporre una tariffa del 6% sulle esportazioni di soia e di attuare misure preliminari di riforma agraria per alleviare le sofferenze dei piccoli proprietari diseredati (Galeano, 2012). Il governo brasiliano ha rapidamente emanato un decreto che minacciava rappresaglie militari in caso di esproprio da parte del Paraguay di aziende agricole di proprietà brasiliana (Turzi, 2016). Tale minaccia deve essere compresa nel contesto della guerra paraguaiana del 1864-1870, in cui una coalizione militare guidata dal Brasile uccise il capo di Stato paraguaiano, insediò un governo favorevole al Brasile e costrinse la nazione sconfitta a concedere gran parte del suo territorio al vicino settentrionale (Whigham & Potthast, 2002). Fino al 60% della popolazione paraguaiana morì durante il conflitto, lasciando profonde ferite nel panorama politico paraguaiano e radicando in modo permanente la dipendenza della nazione dal “subimperialismo” brasiliano (Leuchars, 2002). L’azione militare brasiliana correttiva dovrebbe quindi essere intesa come una minaccia disciplinare plausibile che compromette effettivamente l’autonomia di uno Stato paraguaiano mal equipaggiato per resistere alle predazioni marziali del suo vicino settentrionale. Alla fine, è stato adottato un approccio più sottile al problema di Lugo, con le imprese agroalimentari brasiliane che hanno collaborato con la “Lumpenbourgeoisie” (Frank 1974) del partito Colorado del Paraguay per organizzare l’impeachment del Presidente (Correia, 2019). Questa “cattura dello Stato” guidata dall’agrobusiness (Grzymala-Busse, 2008) è stata seguita dall’allentamento di tutte le restrizioni sulla produzione di soia transgenica e da un invito letterale del nuovo presidente a una platea di investitori brasiliani a “usare e abusare del Paraguay” (Martin, 2016).
Per concludere
Attraverso l’erosione della sovranità alimentare, le minacce di azioni militari e i sotterfugi politici, la colonizzazione brasiliana della produzione di soia paraguaiana ha in gran parte dissolto l’autonomia dello Stato. Alla luce della definizione di dipendenza data da Dos Santos (1970), è chiaro che l’economia del Paraguay è significativamente “condizionata” dall’espansione di un consorzio di imprese agroalimentari straniere guidato dal Brasile. Il Paraguay, quindi, dipende in larga misura dal Brasile che, in quanto potenza “subimperialista”, è stato in grado di esercitare un certo grado di autonomia attraverso la sottomissione del suo vicino meridionale.
Tuttavia, pur essendo in grado di esercitare una significativa autonomia rispetto al Paraguay, al Mozambico o alla Bolivia, il Brasile non è affatto una potenza imperialista a pieno titolo e assume un ruolo di dipendenza rispetto al nucleo industrializzato. A questo punto dobbiamo ascoltare l’avvertimento di Marini (1997) di non sopravvalutare l’autonomia delle potenze “subimperialiste” e considerare invece l’esatto posizionamento del Brasile nella catena gerarchica della dipendenza. La seconda parte di questa analisi esplora il modo in cui la domanda industriale cinese limita l’autonomia subimperiale brasiliana, prima di complicare questa comprensione gerarchico-statale della dipendenza esplorando le basi ecologiche dell’interrelazione economica tra Paraguay, Brasile e Cina.
Spero che questo post (e il prossimo) servano a illustrare il difetto delle analisi stato-centriche nell’oscurare la fluida funzione transnazionale della dipendenza. Nella misura in cui il capitale, nella sua fase espansiva, presta poca attenzione ai confini nazionali, nemmeno la nostra analisi dovrebbe farlo. Piuttosto, dovrebbe essere adattata di conseguenza per catalogare meglio l’interazione dinamica tra capitale ed ecologia. Quindi, mentre alcuni Stati possono essere più autonomi o dipendenti, o più appartenenti al nucleo economico o alla periferia, di altri in termini relativi, nessuno Stato può essere classificato come autonomo o dipendente nella sua interezza a causa delle contraddizioni interne che definiscono tutte le economie capitalistiche.
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Traduzione di Costantino Ceoldo