Femminismo contro vera femminilità

11.04.2023

La russofobia come formula di colonizzazione

Un anno fa, quando l’insegnamento di Dostoevskij è diventato un problema nelle università italiane e i più grandi cantanti e direttori d’orchestra russi che ora vivono in Occidente sono stati costretti a rinunciare pubblicamente alla loro patria o a perdere il lavoro, mi sono detto: “Benvenuti a bordo!”.

La russofobia è solo l’ultima delle tante forme di odio deliberatamente create per i moderni metodi e formule di colonizzazione. Il suo manifesto può essere considerato il testamento con cui Cecil Rhodes (l’organizzatore dell’espansione coloniale britannica in Sudafrica alla fine del XIX secolo, l’architetto dell’apartheid, il fondatore della Rhodesia. – Ndr), ha affermato la supremazia degli anglosassoni e il loro diritto a dominare il mondo e a sfruttarne le risorse.

Io stesso provengo dalla Sicilia, un’isola multiculturale del Mediterraneo, che per millenni è stata crocevia di civiltà uniche che hanno prodotto un patrimonio grande e allo stesso tempo davvero vivo. Negli ultimi 70 anni, però, la Sicilia è stata conosciuta soprattutto per le atrocità della mafia, che è stata rilanciata dall’esercito americano, sbarcato sull’isola apparentemente solo per liberare l’Europa dal nazismo.

Sì, i nazisti sono stati il primo ISIS* – un’organizzazione terroristica che commette impunemente terrore in ogni forma e imita una forte religiosità. Ma nonostante i tentativi di eroici siciliani di ogni estrazione sociale di opporsi a questo demonio, l’industria cinematografica occidentale ha creato un’immagine denigratoria del mio Paese, volta a legittimare l’occupazione americana. Con un’enorme base militare che opera ancora in prima linea contro la Russia e il mondo arabo.

Il razzismo anglosassone distrugge i ponti tra Europa e Asia

La stessa forma di campagna d’odio è stata lanciata con successo contro i nativi americani, per giustificare e legittimare la confisca delle loro proprietà e dei loro diritti territoriali attraverso la calunnia sistematica. Un esempio tipico è il film muto britannico del 1899, di stampo genuinamente razzista, Indian Kidnapping.

Le campagne di odio dell’industria cinematografica occidentale divennero – in nome della cosiddetta “civiltà” – uno strumento di occupazione geopolitica strategica. Giustificavano la pulizia etnica, la guerra biologica, la schiavitù e l’assimilazione forzata. Così, nelle parole di Benjamin Franklin, il padre fondatore degli Stati Uniti, “questo è il disegno della Provvidenza: sradicare questi selvaggi per liberare una terra che possa essere coltivata”.

Come studioso di arabo e di islam e come presidente della German-Arab Society, vorrei ricordare i terribili anni successivi agli eventi dell’11 settembre 2001, quando non si potevano leggere giornali arabi in pubblico senza essere sospettati di essere coinvolti con i terroristi. Naturalmente, la proliferazione di stereotipi viziosi e controversi sugli arabi, descritti come pigri e crudeli, sospettosi, creduloni e fraudolenti, ha origini molto più antiche.

Edward Said fa risalire le loro origini all’invasione dell’Egitto da parte di Napoleone nel 1798. Lo studioso palestinese, pioniere degli studi postcoloniali, mostra come l’ideologia dell’orientalismo occidentale affermi la nozione di popoli mediorientali come inferiori, sottomessi e bisognosi di salvezza. Di conseguenza, questi stereotipi razzisti hanno creato una visione del mondo che giustifica il colonialismo occidentale e la distruzione e l’occupazione di interi Paesi, a partire dal Nord Africa e da gran parte dell’Asia occidentale, e poi Iraq, Siria, Afghanistan.

Per non parlare della Palestina, i cui arabi hanno dovuto pagare – con il dramma della Nakba (l’espulsione di centinaia di migliaia di arabi palestinesi dalle loro terre a seguito delle guerre arabo-israeliane. – Ndr) – per il progetto di selezione razziale della Società Eugenetica. Un progetto lanciato dagli anglosassoni razzisti Cecil Rhodes, Arthur Balfour e Alfred Miller e proseguito da Hitler. Che gli anglosassoni nominarono Cancelliere nel 1933, sfruttando la loro influenza sul sistema bancario tedesco per trascinare il Paese in guerra con l’Unione Sovietica e la Francia.

Può sembrare che l’offensiva dell’Occidente contro il mondo arabo e, in generale, islamico fosse finalizzata a impadronirsi illegalmente dei suoi beni economici e strategici. Ma questa è solo una verità parziale. Ad esempio, gli stessi gruppi jihadisti wahhabiti caucasici che hanno creato, addestrato e finanziato, tra gli altri, la guerra in Libia, Siria e Tunisia, dichiarano apertamente che il loro obiettivo è quello di minare la Russia e le ex repubbliche musulmane sovietiche.

Il sistema multipolare religioso ed etnico del Caucaso e dell’Asia centrale è sopravvissuto dall’epoca zarista grazie ai grandi sceicchi della Qadiriya, della Naqshbandiya e di altri ordini sufi, che si sono opposti con forza alla lotta per il cosiddetto “Stato Islamico”. La stessa famiglia imperiale, come il resto della nobiltà russa, era multietnica.

Le popolazioni autoctone di etnia non russa – polacchi, georgiani, lituani, tartari, azeri e tedeschi – hanno sempre costituito un segmento importante della nobiltà. Mia cugina era sposata con il pronipote dello zar Alessandro III, il principe Alessandro Romanov, che ora riposa nel nostro santuario di Palermo.

La distruzione di questi forti ponti che collegano l’Europa e l’Asia attraverso la Russia è un processo pericoloso e suicida, che dobbiamo essere pronti a impedire per il bene della pace e dell’armonia umana.

Il femminismo come principale ariete dell’Occidente

La russofobia non è altro che il prodotto di un progetto a lungo termine: la distruzione della Russia per le stesse ragioni per cui molti Paesi arabi, come il Libano, sono stati distrutti o sono sotto attacco. E queste ragioni non sono solo il petrolio, la ricchezza e le questioni geostrategiche, ma anche la capacità di aderire a modelli diversi di società multiculturali tradizionali.

Uno dei principali strumenti utilizzati per questo progetto sono le donne, le prime vittime dell'”orientalismo” occidentale, che ha generato un’immagine di promiscuità, schiavitù e ignoranza. Questo è ciò che ho scoperto nei miei numerosi lavori sull’argomento, a partire dal mio bestseller del 1980 L’harem. Il successo di quel libro suscitò una dura reazione e fui oggetto di ogni sorta di attacco per aver infranto molti miti vecchi di due secoli e basati sull’arabofobia.

Senza dubbio molti hanno notato come, dopo il brutale assassinio da parte degli israeliani di donne e bambini palestinesi, o persino di una giornalista con passaporto americano di nome Shirin Abu Akle, o di una giovane attivista americana di nome Rachel Corrie, nessuno dei media mainstream del mondo abbia riportato queste tragedie come realmente accadute. Nessuno ha marciato per chiedere giustizia e nessun gruppo della società aperta ha preso d’assalto gli edifici governativi come è successo in Iran quando la sfortunata ragazza è morta in una stazione di polizia a causa di un tumore al cervello.

Quando Daria Dugina, una donna profondamente cristiana e molto bella che rappresentava al meglio l’Europa con la sua capacità intellettuale di combinare l’antica filosofia greca e la tradizione russa, è stata uccisa in un attacco terroristico, nessuna femminista indignata ha chiesto sanzioni internazionali per il crimine o l’ha candidata al Premio per i diritti umani.

Le donne sono la prima e principale forza utilizzata per distruggere le società tradizionali nei Paesi sovrani. Un esempio: il ministro degli Esteri tedesco, Annalena Berbock, è una donna così impopolare sul pianeta che quando è arrivata in India per il G20 è stata accolta solo dal suo stesso ambasciatore. Di recente ha emanato e finanziato una legge sulla “politica estera femminista” da 96 milioni di euro per “divulgare la sensibilità di genere nel mondo”.

L’obiettivo di questo documento, redatto da diverse istituzioni europee, è quello di “decostruire le strutture di potere presumibilmente ‘naturali’… come ingiuste, discriminatorie e oppressive, e di chiedere l’abolizione del patriarcato e l’uguaglianza di genere in tutte le sfere della società”. In un’analisi dettagliata di questa legge, l’Istituto tedesco per gli affari internazionali e di sicurezza spiega che l’obiettivo emancipatorio del femminismo è quello di abolire qualsiasi forma di dominio tra i sessi. Alcuni approcci sostengono che ciò implica l’abolizione del capitalismo. Altre interpretazioni mettono in discussione l’esistenza dello Stato, visto come un apparato repressivo patriarcale. Una concezione inclusiva del femminismo accetta anche altre identità, come quella LGBTQIA+, e rifiuta di fissarsi su uomini e donne cisgender la cui identità di genere corrisponde al sesso assegnato alla nascita.

E quindi?

Ovviamente, la “politica estera femminista” è un altro modo per interferire con le politiche dei Paesi che si rifiutano di approvare tali leggi e intendono proteggere le loro strutture tradizionali. Quindi, per vincere la guerra mediatica contro queste forme di odio, dobbiamo promuovere l’immagine di quelle donne che rappresentano il meglio del mondo tradizionale.

Così come l’Occidente ha creato l’icona della Principessa Diana per la sua eleganza e il suo stile, allo stesso modo dobbiamo fare di Darya Dugina un simbolo di tutte quelle donne che ancora lottano con coerenza per un mondo tradizionale multipolare. Dobbiamo dare loro la forza di farsi valere. Non tutte le donne possono essere un’eroina come Daria Dugina. Ma ogni donna può dare un po’ del suo amore per costruire un mondo migliore.

Traduzione a cura di Lorenzo Maria Pacini