Siria 2019: l’opinione di Matteo Carnieletto

28.10.2019
Più volte minacciato, il diretto intervento turco nella guerra siriana si è concretizzato lo scorso 9 ottobre sotto il nome ingannevole di “Sorgente di Pace”, con lo scopo di colpire i curdi che, ostili ad Ankara, trovavano rifugio nella fascia frontaliera tra Siria e Turchia. 
 
E la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan non è mai stata estranea alle sofferenze del popolo siriano, essendone invero una delle cause principali in virtù dell’appoggio incondizionato offerto da Istanbul ai piani americani di distruzione della Repubblica Araba Siriana. È attraverso il confine turco-siriano che miliziani jihadisti, armi e supporto logistico si sono riversati in Siria e, dai territori siriani occupati, lungo una direzione inversa, se ne sono andati il petrolio siriano, le macchine utensili dei distretti industriali occupati, i prodotti agricoli e le opere d’arte appartenenti alla Storia del popolo siriano.
 
L’intervento russo ha posto fine a questa bonanza del saccheggio ma è stato solo dopo il fallito tentativo americano di colpo di Stato del 2016 che i rapporti tra Mosca ed Ankara hanno subito un primo timido riavvicinamento, permettendo così di sperare in una svolta, positiva seppur lontana, della tragedia siriana.
 
Secondo Thierry Meyssan [1], l’intervento turco tuttora in corso è stato concordato con tutte le parti in causa: siriani, russi, iraniani ma anche con l’America della presidenza Trump che cerca una via d’uscita dal pantano siriano.
 
All’indomani dell’elezione di Donald Trump ho intervistato Matteo Carnieletto di Occhi della Guerra / Inside Over [2], giornalista italiano ed esperto di geopolitica. Ritorno con lui, adesso, tre anni più tardi, per cercare una volta di più di capire la situazione siriana.
 
1) La nostra prima intervista risale al dicembre del 2016, poco dopo l’inizio dell’intervento russo in Siria. Può ricordare a chi ci segue in che condizioni si trovava allora la Siria?
 
R) Io sono stato in Siria proprio in quel periodo, per intervistare Bashar al Assad. In quel periodo, la situazione era profondamente diversa da quella che c’è oggi. Il regime non era ancora così certo di vincere, i ribelli, in particolare l’Esercito dell’Islam, occupavano ancora la Ghouta e l’Isis faceva ancora paura. In tre anni la situazione è cambiata radicalmente. Assad - grazie a russi, iraniani e Hezbollah - è riuscito a riprendersi gran parte della Siria. L’Isis è praticamente scomparso, così come il sogno di autonomia dei curdi.
 
2) Molti speravano che l’arrivo di Trump alla Casa Bianca avrebbe accelerato la fine sia della guerra che del piano americano per il Medio Oriente ma la realtà è stata diversa. Secondo lei per quali motivi?
 
R) Non sono d’accordo con questa lettura: credo infatti che quella di Trump sia una vera e propria svolta nella politica estera americana. Il presidente americano abbaia, ma non morde. Promette guerre, ma non ne fa. Anzi: se guardiamo ciò che è successo con la Corea del Nord o con la Turchia, Trump ha sempre avuto il ruolo di mediatore. Gli Usa non possono lasciare il Medio Oriente: sono una potenza e non possono abdicare al loro ruolo di punto in bianco. Un’azione simile rappresenterebbe un cambio di equilibri devastante.
 
3) Come è la situazione attuale sul campo, in Siria?
 
R) Ottima per Damasco, pessima per chi, in questi anni, ha fomentato la guerra. Il regime ha ormai vinto e i ribelli sono asserragliati nella provincia di Idlib, che viene ormai quotidianamente martellata dai caccia russi e siriani.
 
4) La questione curda risale alla fine dell’impero ottomano nel 1920, con le prime solenni promesse ai curdi di uno Stato indipendente. Non si è mai realizzato nulla di tutto questo: possiamo pensare che sia un problema senza soluzione?  
 
R) Uno Stato indipendente dei curdi è oggigiorno impossibile. Quello che i curdi possono sperare è di ottenere più autonomia, come è successo in Iraq, ma in Siria la strada è parecchio in salita...
 
5) Il presidente Trump ha scritto al suo omologo Erdoğan poco dopo l’inizio delle operazioni militari turche in Siria, una lettera ufficiale ma lontana dalla usuale prassi diplomatica. Che cosa cerca Erdoğan in Siria? 
 
R) Erdogan cerca di uscire da questo conflitto da vincitore e credo che alla fine ce la farà. Il Reìs in questi anni ha saputo riciclarsi più volte, prima favorendo i terroristi, poi avvicinandosi ai russi e, infine, utilizzando nuovamente i terroristi per fare il lavoro sporco in Siria e prendersi brandelli di questo Paese.  
 
6) Erdoğan sta forse facendo una parte del lavoro sporco per Trump, così da accelerare la fine della guerra ed ottenere una pur minima concessione territoriale? 
 
R) Non so se ci sia stato un vero e proprio accordo tra i due. Quel che è certo è che oggi sia Trump che Erdogan hanno raggiunto i propri obiettivi: il primo sta portando a casa i soldati americani come aveva promesso (anche se circa 200 uomini rimarranno a presidiare i pozzi petroliferi a est dell’Eufrate) ed Erdogan ha risolto il problema curdo e, a breve, rispedirà in Siria oltre 2 milioni di rifugiati. Accordo o no, i due oggi gongolano.  
 
7) I francesi hanno avuto cura di bombardare il grande cementificio Lafarge di Jalabiyeh, sotto il loro controllo fin dall’inizio della guerra. Parigi sta cancellando le tracce delle proprie responsabilità?
 
R) Su questo io lascio parlare monsignor Hindo, che in un’intervista di ormai tre o quattro anni fa, si lamentava del ministro degli Esteri francese che gli chiedeva consiglio e poi faceva tutt’altro. La Francia fin dall’inizio è stata dalla parte dei ribelli e, pur di portare avanti i propri interessi, avrebbe fatto affari anche con il Califfato, come dimostra il caso del cementificio Lafarge.
 
8) Quale futuro per le migliaia di jihadisti che escono sempre più sconfitti dal conflitto siriano?
 
R) Bisogna innanzitutto distinguere tra foreign fighter e jihadisti locali. Per questi ultimi il futuro è già segnato ed è parecchio buio. Per quanto riguarda i foreign fighter si pongono mille interrogativi: i Paesi natii li riprenderanno oppure lasceranno fare il lavoro sporco a curdi e governativi? Si dovranno pensare percorsi riabilitativi per loro? Che fare dei “cuccioli del Califfato”, ovvero dei bambini nati sotto lo Stato islamico? Queste domande sono essenziali perché - a seconda di come verranno trattati i terroristi - si plasmeranno gli scenari di domani.
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