Aristotele e l’Anima
Il De Anima di Aristotele è considerato alla stregua di uno dei testi filosofici più importanti e influenti della storia del pensiero, il concetto di anima del celebre filosofo perdurerà, con i dovuti aggiustamenti, per i secoli a venire.
Composto nel IV secolo a.C., questo trattato, articolato in tre libri, affronta la complessa questione della natura dell’anima umana secondo Aristotele. In considerazione dell’influenza del contesto sociale, politico e soprattutto storico si ritiene, prima di tratteggiare i dettagli del De Anima, utile far menzione al contesto storico e filosofico in cui lo Stagirita ha scritto questo trattato. Si accennerà all’influenza di Platone e altri pensatori contemporanei che hanno contribuito al dibattito filosofico sull’anima. Aristotele compose il testo in un periodo di fervore intellettuale e cambiamenti politici nell’antica Grecia. Questa epoca è nota generalmente come il periodo classico, connotato da un significativo sviluppo della filosofia ma anche della politica e delle arti. Il contesto storico e filosofico in cui Aristotele scrisse l’opera è inevitabilmente influenzato dalle idee dei pensatori precedenti, in particolare dal suo maestro, Platone.
Il contesto politico invece era segnato dalla fine della Guerra del Peloponneso e dall’ascesa della Macedonia sotto Filippo II. Aristotele, macedone di nascita, divenne successivamente precettore di Alessandro Magno, contribuendo significativamente alla diffusione delle idee greche in tutto il mondo mediterraneo.
La “Scuola di Atene” fu un centro di apprendimento e discussione filosofica che ha svolto un ruolo cruciale nello sviluppo di tutto il pensiero classico, in questa atmosfera accademica Aristotele spese vent’anni della sua vita e fu fortemente influenzato dalle teorie di Platone, sebbene in seguito sviluppò idee originali e anche critiche nei confronti del suo maestro. Proprio il De Anima ne caratterizzerà una delle sue prese di posizioni più radicali rispetto al maestro; se Platone riteneva che le idee fossero entità reali, separabili dal mondo materiale, Aristotele sviluppò un approccio più centrato sull’osservazione empirica. Platone nel suo celebre dialogo Fedone, introduce il concetto di dualismo e di immortalità dell’anima, sostenendo che l’anima è eterna e preesistente al corpo. Aristotele prese una posizione diversa concentrandosi sull’analisi empirica e sull’osservazione della natura, cercando di comprendere l’anima attraverso l’indagine scientifica e filosofica. Aristotele è, infatti, noto per la sua enfasi sull’osservazione empirica e sulla raccolta di dati attraverso i sensi, un approccio che ritrova i suoi aspetti essenziali nel De Anima, dove la comprensione della natura dell’anima passa attraverso le lenti scientifiche della biologia e psicologia. Questa prospettiva empirica anticipa l’approccio scientifico che sarebbe stato successivamente adottato durante il Rinascimento e l’età moderna; Aristotele ha avuto modo di parlare di “sapere rigoroso”, ossia di quel sapere ottenibile tramite determinate catene di ragionamenti (sillogismi) e se il motore della ricerca per l’uomo saggio era la meraviglia, pochi sono i temi più affascinanti dello studio dell’anima.
Leggere dentro l’anima
Se la fisica era, per gli antichi, lo studio della natura, del movimento (mutamento) e dei suoi aspetti materiali, per Aristotele la psicologia (psychè/anima), ossia lo studio dell’anima, rientra nella pertinenza dell’ambito della stessa fisica. Il De Anima è quindi un’indagine sulla natura dell’anima: “Ci prefiggiamo di considerare e conoscere la sua [dell’anima] natura e essenza e, poi, tutte le caratteristiche che le competono.”
Una forma incorporata della materia: “l’atto primo di un corpo che ha la vita in potenza” è la celebre definizione dell’anima da parte di Aristotele dalla quale si evince che è l’anima stessa a dare vita (animare) al corpo. L’anima, utilizzando i concetti di “atto” e “potenza”, attualizza la vita nel corpo. È celebre il paragone di Aristotele tra la vista e l’atto del vedere: il corpo è l’occhio e l’anima è l’atto del vedere. In altri termini l’anima è la forma e il corpo e la materia, la loro unione è, alla stregua del sinolo, indissolubile. Una simile legame tra le parti lo si ritrova curiosamente nel frammento eracliteo in cui l’anima è paragonata a una ragnatela: “come il ragno stando al centro della tela non appena una mosca ne rompa un qualche filo se ne accorge e svelto vi accorre come se sentisse male per la rottura del filo, così l’anima dell’uomo, quando una parte del corpo è ferita, rapida vi si reca come se non sopportasse la lesione del corpo a cui è congiunta stabilmente e secondo un determinato rapporto. Allo stesso modo dunque che i carboni accostandosi al fuoco diventano incandescenti per mutazione e una volta lontani dal fuoco si spengono, così quella parte del mondo circostante raccolta nei nostri corpi, distaccandosi dal resto, diviene quasi incapace di intendere, mentre ricongiungendosi naturalmente attraverso il maggior numero di pori diventa omogenea al tutto.[1]”
Abbiamo già accennato al distanziamento filosofico rispetto a Platone e non si può non considerare un distaccamento anche dalla concezione pitagorica in cui l’anima viveva imprigionata dietro a sbarre di carne, in un dualismo probabilmente ancora più marcato rispetto a quello platonico. Anche gli atomisti come Democrito (e in seguito Epicuro) avevano una considerazione diversa dell’anima, considerata come incorporea e chiaramente destinata a perire col corpo.
Aristotele non condivide il concetto di anima incarcerata nel corpo e non considera l’anima come incorporea ma piuttosto innervata nello stesso corpo, da essa animato. Per Aristotele, l’anima è il principio di vita di un organismo e, attraverso il movimento, svolge un ruolo cruciale nel determinare la natura e le funzioni di un essere vivente.
La struttura dell’opera
Il primo dei tre libri del De Anima passa in rassegna le già accennate posizioni dei filosofi precedenti, con dovizia di particolari e senza trattenersi dal criticarne gli aspetti considerati più opinabili. Nel secondo libro si arriva a definire il concetto di anima per Aristotele e a indicarne le principali funzioni che si ritrovano in tutti gli enti dotati di anima: vegetativa, sensitiva e intellettiva.
Aristotele propone quindi quella che è nota come “struttura tricotomica” dell’anima. Ciascuna di queste funzioni svolge ruoli specifici nella vita e nell’esperienza di ogni ente vivente.
“L’anima nutritiva”: è associata alle funzioni corporee di base, come la nutrizione e la riproduzione, un aspetto solitamente associato a tutti gli esseri viventi dall’uomo, agli animali e alle piante.
“L’anima sensitiva”: responsabile delle facoltà sensoriali della percezione del mondo esterno e del movimento, solitamente associata agli uomini e agli animali ma non delle piante. I sensi influenzano la nostra comprensione del mondo e, come detto, l’anima percettiva si collega all’anima nutritiva.
Infine, “l’anima intellettiva”, che distingue gli esseri umani dagli altri esseri viventi. L’anima intellettiva consiste nella capacità di pensare ed è una funzione esclusiva dell’uomo, relegandolo a una posizione privilegiata rispetto agli altri esseri viventi.
Oltre ai classici cinque sensi, Aristotele fa menzione di quello che definisce “senso comune”, ossia di quella funzione che permette di prendere coscienza delle stesse sensazioni. Il senso comune permette di percepire sensazioni comuni a più sensi.
Anima e conoscenza
Aristotele sviluppa una teoria dell’intelletto e dell’intellettualità, sottolineando il ruolo dell’anima intellettiva nella conoscenza e nella comprensione.
L’anima, ottenendo i dati attraverso i sensi, ricopre un ruolo fondamentale in merito alla teoria della conoscenza aristotelica, tornano, per l’occasione, i concetti di atto e potenza: per Aristotele l’oggetto da conoscere è la potenza e la sensazione è l’atto. È la conoscenza ad attualizzare la sensazione, facendo entrare poi in gioco il pensiero e, nello specifico, l’immaginazione che si distingue dalla sensazione per l’autonomia rispetto agli oggetti esterni.
L’immaginazione, grazie all’induzione, forma delle immagini generali, tenendo presente quanto in comune tra gli oggetti e giunge, attraverso quel processo intellettivo noto come “astrazione” dal quale si ottengono le forme e le sostanze delle cose e, quindi, alla formazione dei concetti universali (il concetto di uomo, di cane ecc.).
Quello che, dalla prospettiva di Tommaso d’Aquino, sarà ascrivibile a una complessità di funzionamento, per formare i concetti generali delle cose.
Infine, se l’oggetto che si vuole conoscere è di per sé potenzialmente conoscibile, il nostro intelletto che lo va a conoscere è come se fosse una tabula rasa e, in base a questa condizione, è predisposto a conoscere: entrano quindi in gioco due potenzialità (doppia potenzialità) quello dell’oggetto che è conoscibile e quello dell’intelletto che può conoscere. Questa doppia potenzialità deve passare all’attuazione: l’oggetto deve essere conosciuto e l’intelletto deve conoscere. In questo processo l’immaginazione, phantasia, ricopre l’importante ruolo di mediazione dalla sensazione all’intelletto stesso producendo phantasmata, ossia immagini. Al termine di questo processo interviene la facoltà decisiva dell’anima intellettiva, l’intelletto definito “attivo” (o attuale), ossia quello che porta in atto le potenzialità, ciò che corrisponde al lato attivo della nostra ragione, esso contiene in atto tutti gli intelligibili. Illuminando le potenziali conoscenze.
L’intelletto attivo (o attuale) è immortale e sopravvive all’anima. I commentatori medievali si divideranno perché non è del tutto chiaro cosa sia con certezza questo intelletto attivo. Può essere qualcosa di divino e proprio del divino, ascrivibile al concetto di spirito?
[1] Eraclito, frammento 67a