Multilateralismo senza egemonia
2018: un editoriale del Financial Times, dal titolo “Multilateralismo senza leadership americana”, offriva un’interessante valutazione sui cambiamenti dell’ordine mondiale alla luce del declino relativo degli Usa.
In verità, l’idea dell’emergere di un sistema multilaterale senza egemonia americana era già stata avanzata da Giovanni Arrighi, che, nel 2005 (quasi 20 anni fa), riferendosi alle nuove campagne militari statunitensi in Medioriente, parlava di “dominio senza egemonia”. Accelerazioni in questa direzione si sono poi verificate con la crisi finanziaria del 2007-2008 e la pandemia del 2020, mostrando a tutto il mondo i limiti strutturali del cosiddetto “neoliberalismo” a guida statunitense.
L’inadeguatezza e l’insostenibilità di una governance globale centrata su un solo paese è stata sempre ricondotta ad una effettiva sotto-rappresentazione istituzionale dell’ordine mondiale tripolare post-Seconda guerra mondiale – formato da Occidente capitalistico, Unione Sovietica e paesi non allineati.
Pochi paesi (dapprima riuniti nel G10 e poi nel G7) prendevano decisioni chiave per tutti, mentre un solo paese (gli Usa) forniva la valuta per il mondo intero. Inoltre, dopo alcuni tentativi di riforme nel corso degli anni Settanta, al fine di rispondere alle critiche dei paesi del terzo mondo (come gli Special Drawing Rights e la difesa della finanza per lo sviluppo), l’asse Usa-UK-Europa promuoveva quella “controrivoluzione monetarista” che apriva la stagione di gravi e frequenti crisi finanziarie e socioeconomiche in tutto il mondo: dapprima nei paesi periferici e poi nei paesi emergenti e in transizione, fino a giungere alla crisi finanziaria globale “made in US e EU”.
Consolidamento e difesa del predominio finanziario di un ristretto gruppo di paesi, unito all’uso diffuso della guerra, determinavano pertanto la progressiva perdita di legittimazione internazionale dei suoi promotori (almeno agli occhi del resto del mondo) e, conseguentemente, l’erosione della leadership statunitense.
Dagli anni Ottanta ad oggi abbiamo registrato più di 130 crisi finanziarie, che hanno coinvolto ogni continente. È da questo contesto storico che è emersa la necessità di formare il G20, nel 1999, subito dopo le crisi asiatiche (conseguenti a repentine liberalizzazioni dei movimenti di capitale), e di trasformare il Financial Stability Forum in un più ampio Financial Stability Board (2009).
La nascita del G20 ha rappresentato, in verità, solo uno dei tasselli di un puzzle di cambiamento costante e graduale nella governance economica globale: negli ultimi anni abbiamo visto la nascita dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, di nuove banche multilaterali (la New Development Bank dei BRICS e soprattutto l’Asian Infrastructure Investment Bank), della Belt and Road Initiative e di molti altri processi guidati da Cina e Russia. Tutte queste iniziative hanno rappresentato e rappresentano le risposte istituzionali a numerose crisi regionali e globali, dando vita ad un processo di contro-bilanciamento a sostegno di un autentico multilateralismo.
In una certa misura, i vari progetti guidati da paesi non occidentali hanno rappresentato una risposta necessaria al fallimento dell’ordine mondiale neoliberale, tradizionalmente sostenuto dall’egemonia militare, economica e monetaria statunitense (e resa possibile, a sua volta, dal gold-dollar exchange standard fino agli anni Settanta ed in seguito dal sistema dei petrodollari).
Torniamo per un momento all’editoriale del FTs con cui abbiamo aperto questo commento: dopo aver riconosciuto il declino relativo dell’egemonia Usa e del gruppo del G7, l’editoriale poneva una domanda che, a nostro avviso, risulta fuorviante: chi sarà il nuovo egemone?
Questa domanda è frutto di una prospettiva etnocentrica propria dell’esperienza di dominio occidentale, che implica la necessaria sostituzione di un centro di potere con un altro. Diversamente, domande più appropriate potrebbero essere le seguenti: abbiamo davvero bisogno di un nuovo egemone? È possibile riorganizzare le relazioni internazionali in modo diverso, in senso più multipolare?
Dal punto di vista di molti paesi emergenti non c’è bisogno di un nuovo egemone, così come concepito finora. Secondo molti avremmo bisogno invece di poteri in grado di riformare la governance globale secondo metodi cooperativi e democratici, capaci per questa via di realizzare una pacifica convivenza tra paesi. Questo è il valore aggiunto promosso dall’ascesa cinese: costruire un mondo multipolare dove nessuna area del pianeta possa essere esclusa dai potenziali benefici di una crescente cooperazione internazionale.
L’approccio della Cina agli affari globali è incentrato su cinque principi derivanti dal concetto di rispetto reciproco (il cuore della politica estera cinese): non interferenza, non imposizione, rifiuto dell’uso della forza, cooperazione vantaggiosa per tutti e uguaglianza tra i paesi. Ciò necessita di forme di comunicazione e dialogo tra pari, del rifiuto del confronto militare, della promozione di partnership per aumentare lo scambio e l’apprendimento reciproco ed, infine, della rinuncia di ciascun paese ad aderire ad alleanze rigide di carattere militare. Questi ed altri riferimenti hanno un valore metodologico molto importante, in quanto sono necessari per superare la mentalità da guerra fredda che ancora affligge una buona parte dell’Occidente.
L’esperienza cinese dimostra chiaramente che il nazionalismo economico non è contrario alla cooperazione internazionale e che è possibile bilanciare entrambe le prospettive, sempre nel rispetto delle diversità e delle varie priorità nazionali (legate in ultima istanza ai diversi percorsi di sviluppo).
Perché un simile approccio diventi patrimonio della comunità internazionale, sarebbe necessaria una governance istituzionale più evoluta, rappresentativa ed efficiente, basata sui suddetti principi chiave per la gestione di una nuova forma di relazioni internazionali.
Da questo punto di vista l’Occidente può imparare molto dalla Cina e collaborare con essa per costruire una “comunità dal futuro condiviso per l’umanità”: un’espressione quest’ultima che racchiude senza ombra di dubbio il messaggio più avanzato che sia stato proposto al mondo nella contemporaneità.
Fuori da suprematismi ed egemonismi, che per definizione richiedono l’identificazione permanente di nemici e quindi uno stato permanente di conflitto, la Cina opera per la costruzione di “un modello non-imperialista dello sviluppo internazionale”.
Le più recenti involuzioni del sistema US-Nato sono confermate in modo lapalissiano dal continuo abuso di atti unilaterali, che generano ricadute negative sui flussi internazionali di investimenti e scambi commerciali. Da molti anni l’imposizione di sanzioni, divieti o dazi mirati caratterizza l’approccio di politica estera degli Stati Uniti (e in misura minore dell’Unione Europea), che così facendo violano quei principi che dovrebbero regolare l’economia mondiale, a partire dalla libera concorrenza e dalla parità di condizioni nell’accesso al mercato. Tra gli esempi più recenti c’è il CHIPS and Science Act, convertito in legge da Joe Biden lo scorso 9 agosto, che ha messo in campo circa 280 miliardi di dollari. Tra sussidi governativi e varie agevolazioni fiscali, il fine di questa legge è quello di stimolare artificialmente l’aumento della produzione di semiconduttori negli Stati Uniti, vietando al contempo alle aziende sovvenzionate la partecipazione a “qualsiasi significativa transazione che coinvolga l’espansione materiale della capacità produttiva dell’industria dei semiconduttori nella Repubblica Popolare Cinese”.
Possiamo pertanto concludere asserendo che la strada percorsa dagli Usa, ed i suoi più stretti alleati, stia danneggiando sempre di più la cooperazione tra i popoli. Non solo nei confronti di Cina e Russia, ma anche dei suoi principali alleati europei. Il quadro di agevolazioni fiscali per le aziende statunitensi, previsto dall’ultimo Inflaction Reduction Act, convertito in legge dal presidente Biden lo scorso 16 agosto, rischia di mettere le imprese europee in una posizione di svantaggio competitivo sul mercato. È questo il giudizio emerso lo scorso 22 novembre, durante una conferenza stampa congiunta, dalle parole dei ministri dell’Economia francese, Bruno Le Maire, e tedesco, Robert Habeck.
Gli ultimi vertici internazionali asiatici, così come il recente summit Cina-Stati Arabi, mostrano un mondo profondamente cambiato e, al contempo, sempre più indisponente verso le pratiche di dominio esercitate da quella minoranza della popolazione mondiale che va sotto il nome di “occidente”.
Qui il video in italiano con sottotitoli in inglese del presente discorso.