Il grande imbroglio della "femminista" Hillary Clinton
A margine dell'eclatante vittoria di Trump emergono alcune importanti indicazioni di carattere sociologico e comunicativo. Tutta la campagna di Hillary Clinton è stata incentrata sulla retorica del voto femminista - cioè sulla la convinzione che il sesso biologico dovrebbe essere un fattore predeterminante - sulla questione dei diritti civili, sulla pace, sull'ambiente e altri temi di facile consenso, il tutto condito da un'aurea femministo-politically correct e dall'enfasi di sentirsi migliore dell'avversario.
Tralasciando in questa sede le gravissime contraddizioni, come il fatto che la Clinton parli di tematiche ambientaliste finanziata dai petrolieri e che la "nota pacifista" abbia in realtà sostenuto guerre in Iraq, in Afghanistan e in Libia con tutte le tragiche conseguenze che conosciamo, non si possono non evidenziare quelle gigantesche sulla questione dei diritti delle donne, di cui la stessa viene considerata e si considera una grande portavoce.
Hillary Clinton è stata sostenuta fin dall’inizio da Lena Dunham, attrice e regista femminista molto famosa tra le giovani femministe, ha ottenuto l’appoggio di Planned Parenthood, l’insieme di organizzazioni che difende il diritto all’aborto e anche di Naral Pro-Choice America, la prima e più importante organizzazione a favore dell’interruzione di gravidanza e della libera scelta delle donne.
Come già detto la signora Hillary Rhodam si professa femminista: peccato che si sia presentata al giudizio degli elettori col cognome di suo marito e che la "paladina" dei diritti degli ispanici e della fasce disagiate della popolazione, della parità politica, sociale ed economica tra i sessi, ritenendo che le donne siano state e siano tuttora, in varie misure, discriminate rispetto agli uomini sia in realtà una multimilionaria che fa gli interessi delle grandi corporation e del mondo della finanza.
Su questo punto è interessante il fatto che tra i maggiori finanziatori della Fondazione Clinton della sua campagna elettorale spuntino paesi come Arabia Saudita, Qatar, Oman ed Emirati Arabi Uniti, ovvero regimi tirannici dove i diritti delle donne (oltre a quelli umani e civili in generale, a prescindere dal genere) vengono quotidianamente violati. Tanto per fare un esempio le donne in Arabia Saudita non possono nemmeno guidare l'auto e la situazione umanitaria è pari a quella dei territori conquistati dall'Isis.
Insomma, a quanto sembra, per la Clinton e il suo entourage valgono solamente i diritti delle donne statunitensi.
Una donna spregiudicata, una calcolatrice disposta a sacrificare sull'altare del potere anche la propria dignità di donna tradita pubblicamente che i media mistificatori della realtà hanno fatto passare come un'eroina post moderna, emblema del "girl power".
Lo stesso "girl power" sbandierato da numerose artiste che da sempre strizzano l'occhio al femminismo come Lady Gaga, Madonna, Katy Perry e Beyoncé e che nel corso della campagna elettorale si sono apertamente e attivamente schierate dalla parte della signora Rhodam Clinton; come del resto quasi tutti i volti noti dello star system, della musica, dello sport e della cultura.
Quale sarebbe dovuto essere il ruolo di questi endorsement? Trasferire la credibilità ottenuta nel proprio campo a quello politico. Evidentemente non ha funzionato. Curioso poi, che proprio il mondo di Hollywood e dello show business, regni di scandali sessuali e promiscuità, si sia tanto scandalizzato del presunto sessismo di Donald Trump.
Yoko Ono che si produce in un urlo liberatorio di 20 secondi per mostrare la propria indignazione dopo l'elezione di Donald Trump, la modella che mostra il seno per protestare contro l'ascesa alla Casa Bianca del "diavolo", Madonna che prometteva fellatio a tutti purché votassero Hillary: ognuna - a suo modo - ha cercato di conquistarsi visibilità cavalcando l'onda. Oltre al fatto che contrastare Trump sia quasi divenuto un obbligo per i radical chic di tutto il mondo, per giornalisti prezzolati e per i cosiddetti "intellettuali", depositari della verità e profeti del politically correct.
Potevano mancare anche in Italia imbarazzanti ed ipocrite manifestazioni di disagio esistenziale? Giammai. Ed ecco che la stilista Donatella Versace prontamente dichiara a Repubblica: «Il mondo sta tornando indietro. E non solo negli Stati Uniti dove ha vinto Donald Trump. Ho passato la notte delle elezioni americane con gli occhi sbarrati». Non stentiamo a crederlo, uno degli effetti collaterali del botox sono proprio gli occhi sbarrati...
E poteva esimersi dal pronunciarsi la sacerdotessa dell'ossessione sessista, alias Laura Boldrini? Ovviamente no. Su twitter la presidentA della Camera scrive: «Molte donne inviate da Tv italiane a elezioni Usa. Ma perché nei sottopancia abbiamo letto “dal nostro corrispondente, dal nostro inviato”»? Come se il termine “corrispondente”, che è un participio, fosse declinabile al femminile.
La battaglia pseudo femminista della presidentA si fa sempre più ridicola. Ma questa non è una novità. E che la sconfitta di Hillary Clinton sia una sconfitta per tutte le donne è ancor più grottesco: è una mistificazione della realtà inaccettabile. Non è il sessismo, ma la generalizzazione a essere un pericolo sempre presente: il sillogismo secondo cui "Hillary è una donna e dunque rispecchia il pensiero di tutte le donne" ovviamente non sta in piedi. Chi lo ha deciso che le donne, in quanto tali debbano essere sempre perfetti esempi e per questo motivo accettate e seguite da tutte le altre donne? Se vogliamo vincere una battaglia contro il sessismo è l'ora di ammettere di essere tutte diverse, dalle diverse opinioni e sensibilità. E che quella con gli uomini non deve essere una battaglia. Forse è questo l’unico obiettivo che una donna, femminista o meno, dovrebbe avere.