Obama avvelena i pozzi

30.12.2016

Se avesse vinto Hillary saremmo già in guerra con la Russia, ho sentito dire.

Probabilmente è vero, a giudicare dalle recenti azioni intraprese dalle truppe di Obama in ritirata. Come nella peggiore tradizione delle milizie settarie in fuga, Kerry e i suoi stanno minando il percorso di Trump prima del suo insediamento, che avverrà il 20 gennaio. Un proseguimento domestico della dottrina democrat del “governare il caos” che prevede, come abbiamo visto in Ucraina, in Iraq, Siria e in Europa con il “bombardamento umanitario” della cosiddetta emergenza profughi, la fase della “semina del caos”.

Ovviamente il segnale più evidente di questa tattica è l’espulsione dei 35 diplomatici russi accusati, più o meno, di essere degli hacker che hanno usato l’informatica per influenzare le elezioni presidenziali e far vincere il loro beniamino Donald Trump. Il quale sarà comunque il presidente di tutti gli statunitensi tra tre settimane e dovrà farsi carico della soluzione del problema.

L’espulsione è avvenuta, per una casualità, contemporaneamente all’annuncio, da parte del presidente Putin, dell’avvenuta ratifica di una tregua tra le truppe regolari del governo Assad e alcune milizie ribelli siriane, tregua propedeutica al riavvio di trattative per una possibile soluzione politica del conflitto, mentre Kerry ha passato le ultime settimane ad alimentare una campagna mediatica contro la Russia, accusandola di un sistematico massacro di civili in Siria e chiedendo un ritiro dell’appoggio di Putin al governo di Damasco.

L’accordo, a detta di Putin, è stato possibile grazie all’intervento del presidente turco Erdogan il quale, vale la pena di ricordare, si è avvicinato alla Russia solo di recente e dopo la soluzione di un misterioso incidente di confine che aveva comportato l’abbattimento di un aereo russo da parte di un jet militare turco, incidente che aveva portato le due potenze sull’orlo di una guerra.

Le cose sono radicalmente cambiate in seguito al recente tentativo di colpo di Stato in Turchia che avrebbe dovuto abbattere la democrazia di Erdogan e instaurare una dittatura militare. Il governo turco ha accusato senza mezzi termini l’amministrazione Kerry-Obama di essere dietro il tentativo di rovesciamento violento e il fatto che a bombardare da un aereo il Parlamento di Ankara sia stato lo stesso pilota responsabile dell’incidente che aveva portato a uno stato di pre-guerra con la Russia ha fatto ovviamente riflettere.

Con l’accordo di Vienna Kerry aveva ritenuto di dover mettere fine all’isolamento aggressivo nei confronti dell’Iran, che le sanzioni non erano riuscite a mettere in ginocchio costringendolo altresì a stabilire per reazione legami forti con competitor degli Usa come Russia e Cina. Ma ormai è troppo tardi e un consolidamento dell'asse politico ed economico tra Iran, Turchia e Russia sembra inarrestabile.

Non è sfuggito ai media il voto di astensione che il rappresentante Usa all’Onu ha espresso, per ordine di Kerry, sulla condanna dei nuovi insediamenti di colonie israeliane nei territori assegnati ai palestinesi dagli accordi internazionali.

Su questo voto si è fatto un grande clamore, perché ci si è abituati al fatto che gli Usa da sempre utilizzino il loro diritto di veto per difendere Israele da qualunque critica. Va però ricordato che lo Stato ebraico ha collezionato centinaia di risoluzioni di condanna delle Nazioni Unite senza mai modificare il proprio atteggiamento, quindi una più una meno non cambia nulla. Può essere legittimo immaginare quindi che anche questo voto possa essere archiviato come un sassolino nell’ingranaggio del neo-eletto presidente, un sassolino che nella minore delle ipotesi comprometterà la sua possibilità di scelta nelle relazioni con Israele, provocando invece, come già avvenuto, un rilancio da parte della sua amministrazione di una difesa senza se e senza ma dell’operato di Tel-Aviv. E questo inciderà sulle relazioni con l’Iran, con tutto il mondo arabo, nonché con la stessa assemblea delle Nazioni Unite.