Per più di un millennio la comunità alauita ha vissuto ai margini della Umma islamica costretta alla pratica della taqiyya (dissimulazione) sia per istinto di autoconservazione sia per la volontà di mantenere la più assoluta riservatezza sulla sua dottrina. Fino al 1970, anno della salita al potere di Hafiz al-Asad, gli studi sulla comunità alauita in Siria (all’incirca il 12% della popolazione) sono stati scarsi (per lo più opera di missionari cristiani che spesso ne hanno travisato l’essenza) e limitati dalla relativa impenetrabilità della dottrina. Tuttavia, con l’avvento al potere di questa minoranza, tali studi si sono moltiplicati, anche se spesso ristretti ai soli aspetti esteriori del potere rappresentati dalla élite di governo. Comprendere la natura di tale dottrina risulta indispensabile per intuire le ragioni di fondo dell’odierno scontro settario e geopolitico nel Levante, nonché le ragioni della brutalità con la quale i mercenari gihadisti, al soldo sionista e wahhabita, si oppongono al legittimo governo di Damasco.
Di fronte alle reiterate accuse di eresia e miscredenza che vengono mosse nei confronti degli alauiti, basterebbe ricordare che ben prima della fatwa di Musa al-Sadr del 1973, che riconobbe gli alauiti come “veri musulmani” appartenenti ad un ramo dello sciismo imamita, un’altra opinione giuridica, forse ancor più influente, venne emessa al riguardo da un capo religioso sunnita. Si tratta della fatwa emessa nel 1936 dal Gran Muftì di Gerusalemme Hajj Amin al-Husayni (una delle personalità più affascinanti della storia islamica e della Palestina del XX secolo)[1] che riconosceva gli alauiti come autentici musulmani, oltre alla necessità di collaborazione tra tutti i musulmani per il bene della Umma sottoposta all’invasione sionista. Tale fatwa rovesciava di fatto quella emessa dal teologo medievale hanbalita Ibn Taymiyya (riferimento ideologico degli odierni teorici del salafismo-gihadista), che sollecitava lo sterminio degli alauiti in quanto “più eretici degli ebrei e dei cristiani” e dunque “più dannosi degli stessi infedeli”[2]. Va da sé che il teologo hanbalita mostrò una sostanziale ignoranza nei confronti della dottrina della dottrina alauita, associandola erroneamente all’ismailismo. Tuttavia, la sua violenza verbale è comprensibile se si tiene conto che la scuola giuridica hanbalita, a partire dal suo stesso fondatore Ibn Hanbal, si è sempre strenuamente opposta a forme di sincretismo culturale che, nella loro prospettiva, avrebbero potuto inquinare l’Islam, da loro peraltro limitato alla mera interpretazione letterale e morale dei dettami coranici. Ibn Hanbal fu infatti il più accanito oppositore del mutazilismo, la scuola teologica neoplatonica imposta come ideologia di Stato dal califfato abbaside. E non è un caso che lo stesso Muhammad ibn Abd al-Wahhab, il riformatore che nel Najd del XVIII secolo diede origine alla deriva wahhabita dell’Islam, fosse un hanbalita.
Sembra dunque abbastanza evidente che ciò che Henry Corbin (grande iranista e traduttore di Heidegger dal tedesco al francese) chiamò “l’ostentata ignoranza sunnita per tutto ciò che concerne lo sciismo”[3] abbia causato non poche incomprensioni e, ad oggi, sia ancora alla base della brutale violenza con la quale i militanti gihadisti (strumento geopolitico di sionismo e wahhabismo) attaccano la popolazione sciita, e non solo, è la più evidente dimostrazione. Un’alleanza, quella tra sionismo e wahhabismo, che dà ulteriore credito alla prospettiva nasseriana secondo cui la fine del Regno saudita sarebbe la chiave di volta per la successiva liberazione di Gerusalemme.
Ora, per ciò che concerne l’alauismo, il primo problema che bisogna affrontare è di natura essenzialmente terminologica. Stefan Winter, in uno degli studi più recenti sulla storia della comunità alauita, ha sottolineato la mancanza di un univoco termine storico che la definisca in senso compiuto[4]. Di fatto, si utilizzano con una certa libertà, e spesso in modo indifferente, i termini nusayri o nusairiti (facenti riferimento al fondatore della setta Abu Shu’ayb Muhammad Ibn Nusayr al-Abdi al-Bakri al-Numairy), il termine numiriyya (riferito all’affiliazione tribale di Ibn Nusayr), i termini ansairy o ansaireeh (derivanti dall’anglicizzazione della parola araba declinata al plurale an-Nusayriyya), o semplicemente alawi (italianizzato in “alauiti”: termine che trae origine dalla parola “alawiyya” che sottolinea il carattere predominante rivestito dalla figura di Ali, cugino e genero del Profeta, nella dottrina teologica della setta).
Il reverendo anglicano Samuel Lyde, vissuto per diversi anni a stretto contatto con la comunità alauita intorno alla metà del XIX secolo, ed autore dell’opera The Asian Mystery Illustrated in the History, Religion and the Present State of the Ansaireeh or Nusairis of Syria, decise di utilizzare il termine nusayri qualora faceva riferimento più propriamente alla dottrina religiosa; ed il termine alauiti in riferimento alla comunità, più in generale, abitante la fascia costiera e montagnosa della Siria che si affaccia sul Mar Mediterraneo ed il cui centro più importante è Latakia (Laodicea)[5]. Tale difficoltà terminologica deriva essenzialmente dalla sostanziale impenetrabilità di una comunità che, per secoli sottoposta a persecuzione e isolamento, ha preservato nella più totale segretezza la sua dottrina religiosa, patrimonio iniziatico dei soli adepti, ed i suoi costumi ed usanze. Un’impenetrabilità che è stata all’origine di non poche incomprensioni se non di vere e proprie leggende e mistificazioni. Va da sé che, secondo le prime fonti nusayri, i membri originari della setta, raggruppatisi attorno alla figura di Ibn Nusayr, chiamavano se stessi come muwahhidun o ahl al-tawhid (monoteisti) perché ritenevano, in linea con la dottrina sciita, che solo combinando l’essoterico (zahir) e l’esoterico (batin) del messaggio coranico si potesse raggiungere una completa forma monoteistica di adorazione del divino[6].
Henri Laoust nel suo studio sugli scismi nell’Islam ha sottolineato come l’eresiografia medievale islamica, tanto quella sunnita quanto quella imamita, classifichi i nusayri nella categoria delle sette estremiste (Ghulat)[7].
Di fatto, la dottrina nusayri si è sviluppata lungo un percorso spirituale, non poco travagliato, durato all’incirca due secoli all’interno di una dimensione geografico-spaziale in cui l’Islam, il cristianesimo, la cultura iranica e l’ellenismo vivevano a stretto contatto e, sotto molti aspetti, si influenzavano reciprocamente producendo un sostrato culturale sincretico di cui la suddetta dottrina è evidente esito. Il reverendo Lyde, che basò il suo studio sul Kitab al-Mashyaka (una sorta di catechismo per Shaikh nusayri andato successivamente perduto), non a torto, sostenne apertamente la tesi secondo la quale la gnosi nusayri fosse apertamente influenzata da quella cristiana. Mentre l’orientalista ed archeologo francese Renè Dussaud sottolineò la presenza di evidenti elementi pagani che lo portarono a presupporre addirittura una pre-esistenza della setta rispetto all’Islam che, pur convertendosi allo sciismo, preservò importanti elementi fenici ed ellenici[8].
Louis Massignon fu il primo a menzionare diverse fonti sulla setta dei nusayri. Ma sono stati alcuni studiosi tedeschi, come Rudolf Strothmann ed Heinz Halm, a dare un contributo essenziale nella definizione del sistema religioso nusayri.
Il nusairismo/alauismo è una versione mistica dello sciismo, nella quale il sincretismo è originato dal fatto che ogni nuovo adepto/convertito importava le sue credenze precedenti all’interno della “nuova religione”. Ed il nusairismo ha preservato e sviluppato la dottrina dei Mukhammisa (i seguaci dei Cinque: ovvero i cinque “Compagni del Mantello”, Ashab al–Kesa, identificati con il Profeta Muhammad, la figlia Fatima, Ali e i due piccoli Imam bambini Hasan e Husayn). Tale culto deriva da un versetto coranico (sura Al-Azhab 33,33), la cui virtualità esegetica rappresenta uno dei fondamenti scritturali dello sciismo. Scrive Henry Corbin: “Si tratta della scena in cui il Profeta, avendo dispiegato il mantello sui membri della casa, chiede a Dio di immunizzarli da ogni impurità (tathir). Sono i cinque “Compagni del Mantello”, epifanie terrestri delle cinque persone pre-eterne del mistero divino (ashkhas azaliyun) […] Allora l’Angelo Gabriele si manifesta e proclama “di Voi cinque io sono il sesto” – vuole dire l’unità personale distinta che è anche la totalità – dopodiché rivela loro il versetto”[9]. Non si può tralasciare che anche l’Angelo Gabriele, nella prospettiva teologica sciita, riceverà la sua “tipificazione o teofania terrestre” (mazhar) nella persona di Salman il Persiano; il compagno che inizierà il Profeta alla sua vocazione.
Il culto di dulia nei confronti di Ali e della sua discendenza è la caratteristica fondamentale della dottrina nusayri. Tuttavia, non si tratta di una incarnazione divina (holul) ma di una epifania divina. Gli Imam sono epifanie divine. Dunque, se l’imamologia si è trovata di fronte agli stessi problemi della cristologia, essa è stata più incline a soluzioni che, respinte dal cristianesimo ufficiale, si avvicinavano alle concezioni gnostiche del docetismo. Ovvero: la divinità appare in forma umana ma non è un essere umano. Essa si manifesta alle sue emanazioni inferiori ed alle creature umane come illusione. Una dottrina che ha il suo fondamento nell’interpretazione allegorica del cosiddetto “versetto della Luce” (Corano 24,35): “Allah è la luce dei cieli e della terra. La Sua luce è come quella di una nicchia in cui si trova una lampada, la lampada è in un cristallo, il cristallo è come un astro brillante; il suo combustibile viene da un albero benedetto, un olivo né orientale, né occidentale, il cui olio sembra illuminare, senza neppure essere toccato dal fuoco. Luce su luce. Allah guida verso la Sua luce chi vuole Lui e propone agli uomini metafore. Allah è onnisciente”. Il docetismo, a sua volta, ha una delle sue fonti principali negli Atti di Giovanni: un apocrifo del Nuovo Testamento secondo il quale Cristo, la sera del Venerdì Santo, attirò l’apostolo Giovanni sul Monte degli Ulivi mostrandogli il mistero della “Croce di Luce” mentre la moltitudine a Gerusalemme assisteva alla sua crocifissione. Tale apocrifo spiegherebbe anche il “docetismo” del versetto coranico 4,156 sulla crocifissione: “No! Non l’hanno ucciso, non l’hanno crocifisso; sono caduti nella trappola dell’assimilazione (tashbih) imputabile a loro”. L’assimilazione è, nella prospettiva della teosofia esoterica, il grande peccato dei teologi della lettera che, negando l’esoterismo, trasformano la religione in mera codificazione di norme e principi morali e legalitari.
Il monoteismo, nonostante le accuse di idolatria pagana da parte dei teologi sunniti, rimane alla base del sistema religioso nusayri. Il concetto della divinità, influenzato da elementi neoplatonici contenuti anche nella dottrina ismailita, è basato sull’idea dell’emanazione. La divinità non può essere definita da caratteristiche umane e spesso viene indicata dal termine al-Ghayb (l’assenza)[10] che esprime un’essenza puramente spirituale, senza limiti ed increata. Le fonti nusayri parlano espressamente di tre distinti aspetti della divinità; una Triade comunque ben diversa dalla Trinità cristiana. Questa Triade è rappresentata da Dio (ma’na) e dalle sue prime due emanazioni Ism e Bab[11]. Ma’na è l’essenza e significato del divino: l’unica entità increata e fonte delle emanazioni successive. Le altre due parti ism (prima emanazione, creata dalla Luce divina, il cui ruolo è stato quello di definire il suo creatore, identificato anche come hijab – velo – in quanto il suo secondo ruolo è stato quello di mantenere il creatore velato e nascosto) e bab (la Soglia o Porta: è l’entità creata dall’ism che lega la divinità con i suoi adepti). Queste due emanazioni sono altrettanto eterne, come la loro fonte, ma non pre-esistenti. Secondo la dottrina nusayri Dio si è manifestato sette volte all’umanità (in sette diversi cicli) nel corso della storia. Di questa sette manifestazioni Ali è quella più alta e perfetta. E dopo Ali, la divinità si è manifestata tramite gli Imam suoi diretti discendenti, ognuno con il suo bab, fino all’occultamento dell’ultimo Imam, Muhammad al-Mahdi[12]. Di fatto in quest’ultimo ciclo storico la Triade divina si è manifestata all’umanità nella forma di Ali (ma’na), Muhammad (ism) e Salman (bab). Una Triade che si può esprimere anche attraverso le lettere Ayn – Min – Sin. L’autorità di Ibn Nusayr, fondatore della setta, deriverebbe dalla sua rivendicazione di essere stato bab dell’undicesimo Imam Hasan al-Askari e, di conseguenza, l’unico ad essere autorizzato a trasmetterne e spiegarne le parole. Una presunzione che, tra le altre cose, gli valse la scomunica del wakil (delegato o mandatario ufficiale dell’Imam)[13] Abu Jafar Muhammad Ibn Othman.
Nella cosmologia nusayri sono i cinque aytam (plurale della parola yatim – unico o orfano), a loro volta emanazioni della Triade, ad aver creato i due mondi; il mondo di luce ed il mondo materiale simbolo del male. Torna, dunque, il motivo del pentadismo nella cosmologia che accomuna i nusayri agli ismailiti. In quello che Henry Corbin ha definito come “libro proto-ismailita”, l’Omm al-Kitab, tale cosmologia è ben descritta. “Da tutta l’eternità cinque luci di cinque colori esistono nel mare della bianchezza (bahr al-bayza), Palazzo celeste del Limite dei Limiti. Queste luci sono le membra e le epifanie di un’identica Persona di luce”[14]. I cinque aytam, nella dottrina nusayri, si sono manifestati nei primi e più accaniti sostenitori di Ali che, a loro volta, rappresentano il grado più alto di una gerarchia suddivisa su due livelli di cui il secondo è diretta emanazione del primo ed appartiene completamente al mondo materiale. Questi due livelli sono: al-moratib al-alawiyya (costituito da muqaba – guide; nuqaba – nobili; mukhtassun – autorità; mukhlisun – fedeli; mumtahanun – gli iniziati); al-moratib al-sufliyya (costituito da muqarrabum – i ravvicinati; karubiyyun – gli angeli; ruhaniyyun – gli spirituali; muqadassun – i santi; sai’hun – viaggiatori; mustami’un – coloro che ascoltano; laqihun – seguaci)[15].
Dio, attraverso il Logos, ha creato il mondo. E Dio stesso ha messo alla prova le sue creature consapevole che esse avrebbero fallito. A seguito di questo fallimento il mondo ideale, deteriorato dal peccato, diviene un cosmo gerarchico diviso tra mondo ideale (un mondo di pura Luce) ed un mondo materiale rappresentazione del male e dell’oscurità. Un male che secondo l’insegnamento del sesto Imam Jafar è sempre causato dall’ignoranza. Il ruolo del Profeta è dunque quello di ricordare agli uomini che un tempo erano esseri di pura Luce.
La caduta dal mondo ideale al mondo materiale inferiore è centrale nella teologia nusayri ed è strettamente collegata alla dottrina della trasmigrazione delle anime (tanasukh). Tale dottrina, totalmente rifiutata dall’ortodossia sunnita e sciita in quanto in aperta contraddizione con la dottrina della resurrezione alla fine del tempo, era già sostenuta da altre ghulat e si basava sull’idea dell’esistenza di una stretta connessione tra il concetto di “Imam eterno” ed immortalità dell’anima[16].
La divinità passa da un Imam all’altro così come l’anima passa da un corpo all’altro. Appare evidente che tale dottrina possa essere il risultato sia di influenze occidentali (basti pensare alla metempsicosi platonica, alle teorie di Pitagora o al neoplatonismo plotiniano), sia di influenze orientali indiane penetrate attraverso la Persia ed il manicheismo.
Nonostante la critica dell’Islam ortodosso, la dottrina nusayri non rileva nessuna contraddizione fra trasmigrazione delle anime e giorno del giudizio/resurrezione. Essa offre semplicemente una soluzione al paradosso esistenziale della sofferenza dei giusti. Abu Abdallah al-Husayn ibn Hamdan al-Khasibi, colui che sviluppò compiutamente la dottrina nusayri, nella sua opera Risala al-Rastbashiyya cristallizzò la dottrina della trasmigrazione delle anime. Tanasukh è l’opposto di ma’rifa (inteso come gnosi – conoscenza esoterica). La gnosi è l’unico modo per fuggire alla trasmigrazione e ricongiungersi col mondo ideale di pura Luce. La trasmigrazione delle anime può avvenire su cinque diversi livelli e più severi sono i peccati, più inferiori sono le creature in cui l’anima trasmigra[17]. In questa dottrina è centrale il tema della “fontana della vita” (ayn al-hayat). Dopo la morte l’anima viene catturata dagli angeli e purificata nella fontana che al-Khasibi identifica ancora una volta in Salman: personificazione dell’acqua che estingue il fuoco (Iblis), a sua volta simbolo del male. Ogni nusayri dall’anima purificata, dopo diverse trasmigrazioni e nuovi passaggi attraverso il mondo materiale, diventa una stella (un essere di pura Luce nel mondo ideale)[18]. Le anime sono dunque parte dell’essenza divina e le stelle sono anime perfette.
La gnosi, intesa come elevazione mistica e conoscenza del cuore, è la chiave per liberarsi dal mondo materiale. Questa conoscenza va dunque intesa come un’epifania il cui organo di percezione è il cuore stesso. Il cuore ha per disposizione intrinseca la capacità di accogliere la realtà spirituale nella sua forma di ilham (ispirazione). É dunque palese il contrasto tra una scienza “ufficiale” acquisita dall’esterno, per mezzo dello sforzo umano (l’essoterismo della scienza giuridica delle scuole sunnite) ed una “vera conoscenza” ricevuta per eredità spirituale che è, allo stesso tempo, l’etica del “cavaliere spirituale” (javanmard)[19]. Il quinto Imam Muhammad al-Baqir dichiarò: “la Luce dell’Imam nel cuore dei credenti è più splendente del sole che irradia la luce del giorno”[20]. E l’Imam per la comunità spirituale rappresenta ciò che il cuore è per l’organismo umano. Mentre l’Imam nascosto è presente fino al giorno della resurrezione nel cuore degli adepti.
Una prospettiva non dissimile da quella presentata da René Guenon nella sua opera Simboli della Scienza Sacra in cui la conoscenza tramite il cuore appare come l’unica capace di inglobare le facoltà razionali e sovra-razionali. Scrive Guenon: “Il cuore permette all’uomo di essere pensiero vivente rimanendo unito al suo Dio […] Il cuore è il conservatore della vita cosmica. Lo sapevano le religioni che hanno fatto del cuore il simbolo sacro, e i costruttori di cattedrali che hanno eretto il luogo santo nel cuore del Tempio”[21]. Questo parallelismo del tempio e del cuore è fondamentale se si considera che, soprattutto per ciò che concerne la gnosi ismailita (fonte di ispirazione per quella nusayri), ogni Imam, cuore della propria comunità spirituale, che si succede in ciascun periodo del ciclo della profezia ha il suo proprio “Tempio di Luce”. E tutti gli Imam insieme formano il “Sublime Tempio di Luce”che è in un certo modo la cupola (qubba) del Tempio di Luce. Non è un caso che le sette manifestazioni divine siano avvenute in sette cicli diversi a cui la dottrina nusayri dà il nome di qibab (cupole): termine che, in questo contesto, riflette un processo ciclico all’interno di uno spazio chiuso e limitato da Dio. La concezione della storia nella dottrina nusayri è dunque ciclica (o meglio a “spirale” in quanto mantiene gli aspetti lineari di Origine e Ritorno/Resurrezione escatologica), e suddivisa tra grandi cicli (akwar – eoni) e piccoli cicli (adwar – ere) la cui durata varia a seconda delle tradizioni.
L’elevazione mistica degli adepti è un processo graduale che si compie all’interno del circolo iniziatico della setta. Ogni iniziato, camminando attraverso il “sentiero di Dio” (sirat – ponte tra il mondo materiale e quello ideale della Luce), deve affrontare sette ostacoli del cosmo materiale che coincidono essenzialmente col superamento del dubbio nei confronti della Verità eterna del tawhid. Dubbi che sono la principale ragione del ritardo nel progresso della sua elevazione. Quando l’iniziato raggiunge il più alto grado di conoscenza è liberato dal cosmo materiale e dalla punizione della trasmigrazione dell’anima. Questo è il ritorno all’Universo della Luce, l’Oriente mistico sovrasensibile di Sohravardi: il Polo celeste che corrisponde, nella geografia sacra dell’Iran, alla montagna cosmica di Qaf, là dove inizia il mondo di Hurqalya che è illuminato dal sole di mezzanotte, luogo dell’Origine e del Ritorno[22].
Il sigillo degli iniziati consiste nel compiere in se stessi e per se stessi la parusia dell’Imam. Tale parusia dipende dalla fedeltà degli adepti e dalla loro determinazione nella ricerca dell’Imam. Conoscere l’Imam significa conoscere il proprio Dio.
Il grande tradizionalista Ananda K. Coomaraswamy riporta come il Rg Veda, pervaso di terminologia simbolica, sia incentrato sulla caccia/inseguimento dell’uomo nei confronti del divino, la Luce nascosta, il Sole occulto o Agni, che talvolta è detto occultarsi nel suo rifugio. E solo trovando questa Luce segreta l’uomo ritrova la liberazione[23]. Appare evidente come questa ricerca del divino sia del tutto simile alla “cerca dell’Imam” attraverso la preparazione della sua Manifestazione. Gli sciiti sono soliti interpretare i versetti coranici della sura 16 al-Nahl (Le api, 67-88) come il simbolo della propria comunità. I veri credenti sono come le api in cerca dei fiori migliori. Esse, allo stesso tempo, tengono gli uccelli (i sunniti in apparenza più forti di loro) lontano dal miele. Il miele è il cibo più dolce e salutare per il corpo come la conoscenza che l’Imam condivide con la sua comunità. E proprio i nusayri attribuiscono ad Ali il titolo di amir al-nahl (comandante dello sciame di api).
La religiosità nusayri/alauita è fortemente pervasa di simbolismo e spiritualità. E gli stessi cinque pilastri dell’Islam vengono interpretati in senso allegorico. La Shahada (professione di fede) si trasforma in la ilaha illa Ali, ovvero: “non c’è altro Dio all’infuori di Ali. Oppure amir al-nahl la ilaha illa huwa: “il comandante dello sciame di api, non c’è altro Dio all’infuori di Lui”. La zakat viene intesa nel senso spirituale di trasmissione della conoscenza. L’hajj si trasforma in un processo/viaggio di avanzamento nel campo della gnosi lungo tre diversi stadi riportati da al-Khasibi: taqsir – nessuna conoscenza esoterica; tafwid – consapevolezza che Dio si sia manifestato tramite l’Imam ed abbia delegato il suo potere ai diversi bab; tawhid – comprensione assoluta di Dio e del suo messaggio esoterico[24].
La Ka’aba fisica è dunque sostituita da una Ka’aba mistica e spirituale anch’essa axis mundi, ovvero simbolo di congiunzione tra cielo e terra. A ciò si aggiunge un’interpretazione del concetto di gihad limitato alla sua accezione di gihad maggiore e dunque inteso come sforzo spirituale volto alla purificazione dell’anima ed al superamento della condizione terrena.
Il sincretismo culturale della gnosi nusayri/alauita è il risultato di un complesso di speculazioni cosmiche tramandate attraverso i secoli nel ricordo tradizionale di una gnosi antichissima. E come tale si pone in aperto contrasto con la coscienza religiosa di certe scuole sunnite incentrata su un passato profetico che percepisce nella Rivelazione e nel Libro solo un codice di vita morale e sociale.
L’influenza del cristianesimo è altrettanto evidente. Samuel Lyde notò come la liturgia nusayri, incentrata su forme di consacrazione del pane e del vino, fosse del tutto simile con quella cristiana[25]. Al-Khasibi, al termine della misteriosa fuga che lo portò dalle carceri irachene degli abbasidi ad Aleppo sotto la protezione di Saif al-Dawla, affermò che fu Gesù stesso a liberarlo dalle catene.
Ma è con la cristologia gnostica che la dottrina nusayri dimostra di avere i maggiori punti di contatto. Tale contatto si mostra nella rivendicazione del mistero dell’epifania divina (mazhar) contrapposto a quello dell’incarnazione (holul). Una concezione che rifiuta la violenza perpetrata contro tale mistero dall’idea che Dio abbia potuto subire la morte. Così come Gesù non morì sulla croce, gli Imam non vennero assassinati, ma la loro forma umana, al momento del martirio, venne rimpiazzata da quella di uno dei loro diretti nemici[26].
Ed è curioso notare, come afferma Henry Corbin, che la teologia di un cristianesimo scomparso dalla scena storica possa essere il punto di incontro con l’Oriente e, allo stesso tempo, possa contrastare con vigore il declino della metafisica occidentale espresso dalla frase nietzschiana “Dio è morto”. La voce di questo cristianesimo scomparso è dunque una protesta è una risposta allo stesso tempo. “La risposta di coloro che conoscono il mistero della Croce di Luce e che rispondono al “Dio è morto” con la protesta enunciata dal versetto coranico: “No, non l’hanno ucciso, non l’hanno crocifisso! Sono stati presi nella trappola dell’assimilazione compiuta da loro stessi”[27].
[1] Si veda a tal proposito S. Fabei, Una vita per la Palestina. Storia di Hajj Amin al-Husayni, Ugo Mursia Editore, Milano 2003; S. Fabei, Guerra santa nel Golfo, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1990.
[2] Y. Friedman, The Nusairy – Alawis. An introduction to the religion, history and identity of the leading minority in Syria, BRILL, Boston 2010, p.189.
[3] H. Corbin, Storia della filosofia islamica, Adelphi Edizioni, Milano 1991, p. 39.
[4] S. Winter, A history of the Alawis. From medieval Aleppo to the Turkish Republic, Princeton University Press, Princeton 2016, p. 6.
[5] S. Lyde, The Asian mystery illustreted in the history, religion and present state of the Ansaireeh or Nusairis of Syria, Longman and Roberts, Londra 1860, p. 5.
[6] Y. Friedman, op. cit., p. 11.
[7] H. Laoust, Gli scismi nell’Islam, ECIG, Genova 1990, p. 145.
[8] Y. Friedman, op. cit., p. 89.
[9] H. Corbin, Tempo ciclico e gnosi ismailita, Edizioni Mimesis, Milano-Udine 2013, p. 97.
[10] Y. Friedman, op. cit., p. 72.
[11] Ibidem, p. 73.
[12] S. Lyde, op. cit., p. 112.
[13] H. Corbin, L’Imam nascosto, Edizioni SE, Milano 2008. p. 62.
[14] H. Corbin, Tempo ciclico e gnosi ismailita, op. cit., p. 204.
[15] Y. Friedman, op. cit., p. 92.
[16] La dottrina della trasmigrazione delle anime ha avuto seguito anche in certe correnti del sufismo. Alcune guide spirituali come Hallaj o Rumi vennero accusate di insegnare tale dottrina.
[17] Y. Friedman, op. cit., p. 105.
[18] S. Lyde, op. cit., p. 148.
[19] H. Corbin, Storia della filosofia islamica, op. cit., p. 84.
[20] Ibidem, p. 75.
[21] R. Guénon, Simboli della scienza sacra, Adelphi Edizioni, Milano 1975, p. 361.
[22] H. Corbin, L’uomo di luce nel sufismo iraniano, in C. Mutti, Esploratori del continente. L’unità dell’Eurasia nello specchio della filosofia, dell’orientalistica e della storia delle religioni, Effepi, Genova 2011, p. 92.
[23] A. K. Coomaraswamy, La filosofia dell’arte cristiana e orientale, Abscondita, Milano 2005, p. 140.
[24] Y. Friedman, op. cit., p. 131.
[25] S. Lyde, op. cit., p. 155.
[26] Y. Friedman, op. cit., p. 83.
[27] H. Corbin, Tempo ciclico e gnosi ismailita, op. cit., p. 180.
Fonte: eurasia-rivista