Archeofuturismo vs Mondialismo

08.07.2018

Nell’antichità nessuna civiltà emergente sentiva la necessità di preservare la benché minima traccia di quella che l’aveva preceduta. La civiltà nascente radeva tutto al suolo, tutto seppelliva e sulle rovine andava ad edificare la nuova pòlis. Men che meno la civiltà precedente veniva evocata come fonte di una qualche ispirazione sapienziale capace di dare la linea ai nuovi “codici giuridici”. La stessa Roma, rinnovandosi (per esempio passando dalla monarchia, alla repubblica e da questa all’impero) distruggeva e riedificava secondo i parametri della nuova concezione, elaborando passo passo il diritto e la ragion d’essere.

La nostalgia di ciò che era stato obliato comincia con il Rinascimento, nel corso del quale in filosofia, arte, letteratura e architettura ci si ispira alla classicità perduta. Ma è solo in tempi relativamente recenti che l’ossessione non solo per vestigia significative, ma anche per frammentarie frattaglie del passato (cioè per le cose morte e di per sé irrilevanti) ha assunto forme ipertrofiche: tant’è che si arriva al punto che un microscopico frammento di un orinatoio del romano impero ha diritto di cittadinanza al museo.


È un caso che la più grande potenza mondiale in costante espansione economica, finanziaria, geopolitica, militare, non abbia tale necessità — il culto dei ruderi — e risulti vincente proprio perché nella prassi si comporta come le antiche civiltà? È un caso che vinca perché non condizionata da un pensiero tradizionale, da antiche radici, da arcaici modelli di sviluppo ed edificazione del sociale, e proceda invece a forgiarne di nuovi senza soluzione di continuità? Che dunque avanzi, a livello mondiale, estirpando e distruggendo ogni riferimento all’originario per imporre i propri parametri culturali e “politici”?
Se ci si pone in questa prospettiva anche sulla scorta degli ultimi accadimenti che hanno preso l’abbrivio con la presidenza Trump, si può rilevare l’essenza dello scontro in corso tra  i propugnatori di una concezione unipolare e i sostenitori del multipolarismo – questi ultimi auspicando un mondo che veda la coesistenza di una molteplicità di gangli geopolitici da contrapporre all’idea di un governo unico planetario. La proposta multipolare è tanto più vigorosa quanto più chi la formula può mettere sul piatto radici plurisecolari che hanno portato alla germinazione di intere civiltà.

Su questo piano, se da una parte abbiamo gli USA che effettivamente portano avanti la propria “civilizzazione planetaria” senza alcun richiamo a radici originarie e avendo come mira il far tabula rasa di tutto ciò che è arcaico, dall’altra abbiamo in prima posizione la Russia ben tallonata da altri stati come Cina, India e Iran.
Nel mezzo l’Europa con i suoi Stati, preda al loro interno e trasversalmente di una sorta di  “guerra civile” che vede quanti assecondano la civilizzazione di matrice americana contrapposti a chi vi si oppone.

Le élite progressiste — di fatto  allineate alla “civilizzazione” statunitense se non addirittura loro diretta espressione — non riescono a capire il perché dello spostamento di massa, istintivo e per certi versi reazionario verso le istanze populiste e sovraniste. Eppure è molto semplice da capire. Il modello di sviluppo, la “civilizzazione” statunitense determina una sorta di vertigine nella misura in cui procede a recidere le radici arcaiche a cui inconsciamente i popoli sono attaccati. E se a livello, diciamo così, elitario c’è consapevolezza di questo sradicamento in atto, a livello di massa si è sul piano viscerale del sentimento, dell'istinto primario: il processo di cancellazione di quelle radici causa un disagio anche psicologico, e di qui nasce la tendenza a valorizzare anche il minimo frammento delle civiltà del passato, avvertite come antagoniste rispetto a quella che avanza.
In altre parole, le civiltà che si sono susseguite nell’Europa continentale e mediterranea hanno sì proceduto a fare tabula rasa dell'involucro, della struttura fisica, ad abbattere simboli e riferimenti materiali, ma non hanno interrotto la catena di trasmissione di principi e valori, il modo di essere, la mentalità e i meccanismi sociali attraverso cui relazionarsi, per esempio con una certa idea del mattone di base che è la famiglia tradizionalmente intesa. Accade, nelle masse, quello che a livello individuale accade per il culto dei morti: lo spirito e il senso di vita di chi ci è caro, ci ha preceduto e ci ha generato viene introiettato attraverso il ricordo e la memoria; ma questo accade anche attraverso i resti mortali allocati nel recinto cimiteriale, al cospetto dei quali svolgiamo i nostri riti che rivivificano e danno vigore a quanto di quei morti noi preserviamo. Insomma, c’è un meccanismo umano che relaziona la traccia fisica (i resti mortali) con lo spirito di chi era vivo.
A livello di massa, davanti all’orrore e allo schifo che avanzano prende corpo la nostalgia del passato, di ciò che era e non c’è più e questo va, politicamente, a dar corpo ai populismi e ai sovranismi. 
Ma, come osservato in apertura a questo scritto, storicamente risulterebbe vincente chi si liberasse del fardello dell’antecedente, del passato; ovvero li cancellasse rimodulando progetti di potere e politica su basi rinnovate, senza particolari evocazioni del passato. In realtà, all'inizio di questo scritto si è  omesso di dire che una cosa restava ferma come stella polare, immutabile asse portante attorno al quale procedeva il rinnovamento: il Mito e il suo linguaggio, di cui il Simbolo altro non è che l’alfabeto. Nel Mito e nel Simbolo sta la forza dei principi, per loro essenza immutabili, e quella dei valori, che invece si accordano con il procedere dei tempi. Così se un tempio o una statua dedicati ad un dio potevano essere abbattuti e su di essi si erigeva il nuovo, quel che aveva ispirato la costruzione di quel tempio o di quella statua era preservato e fungeva da matrice per i nuovi involucri, per le nuove plastiche proposizioni politiche. È essenzialmente in questo che consiste la tradizione: nella oggettività del principio trascendente che è immutabile e dà forma al politico, allo sviluppo della Civiltà che si rinnova e ripropone sì anche attraverso radicali distruzioni, ma che mai viene meno nel rapporto con i principi che la trascendono.


Nella “civilizzazione americana” tale complesso di principi trascendenti è totalmente assente.

Si tratta di una “civiltà” che edifica in assenza di principi ma che produce valori soggettivi in costante rimodulazione benché tutti orientati verso la decadenza, la sottrazione e l'esaltazione di quanto sta sotto, in basso. Basti pensare al già citato esempio della famiglia, per cui oggi ha valore una “famiglia” sempre più allargata fino al punto di essere ormai priva di argini e confini.
Cosa sono dunque i populismi se non un effettivo moto di rigetto verso questa “civiltà mondiale”, fondata su valori soggettivi in continua e veloce rimodulazione? Oggi i popoli, essendo privati delle élite (cloroformizzate e soffocate dal dominio mediatico totalmente asservito al Grande Fratello), rispondono specularmente al fermento mondialista. Come il mondialismo è entrato in una fase per cui si autoriproduce attraverso la contaminazione delle coscienze che vengono orientate verso valori privi di radice, allo stesso modo il populismo è una reazione a questa contaminazione; e senza particolare induzione, istintivamente, passa attraverso il recupero anche delle frattaglie, dei ruderi di un passato agganciandosi più ad essi che non allo spirito che quelle frattaglie e quei ruderi, prima ancora che fossero tali, aveva già abbandonato per andare oltre. Ma, così come il mondialismo genera i suoi “imperatori” e i suoi generali, anche il populismo, inteso come fenomeno spontaneo stimolato nella sua crescita e affermazione da alcune lucide menti, finirà — se già non ha iniziato a farlo, e qui dipende dai punti di vista — con il generare i suoi “imperatori” e generali, magneti capaci di attrarre il materiale ferroso disperso nella palude. E dunque la sintesi che fatalmente andrà a contrapporsi alla prassi mondialista sarà quella che con felice espressione  Guillaume Faye ha chiamato Archeofuturismo: recupero delle radici essenziali che vanno a far germogliare rami che si protendono nel futuro.

E qui, ovviamente, se l’arcaico ha un senso originario, il richiamo al futurismo nulla ha anche vedere con quel che era l’avanguardia artistica del secolo scorso che, oggi come oggi, altro non è che passatismo.

Sorvolo qui su quella che è la proposta “archeofuturista” di Guillaume Faye, affrontata sulle pagine di questa rivista da Alfonso Piscitelli nel numero 9 (giugno 2018), sottolineando solo il fatto che l’idea di un archeofuturismo va ben oltre la teorizzazione di Faye.
Si può essere ottimisti sulla possibilità che un fronte archeofuturista possa prendere quota?

Che i populismi generino imperatori e generali? Io credo che tale domanda non ce la si debba neppure porre, perché se ci si mette a ragionare sulla scorta delle impressioni che si hanno qui e ora si resta fatalmente intrappolati.
Si faccia mente locale:

- 1914. L'Europa degli imperi. Sono bastati 3 colpi di pistola sparati a Sarajevo perché nel giro di 4 anni gli imperi si disintegrassero. Nel frattempo là dove era impossibile (secondo Marx & C.) in Russia si ha la Rivoluzione comunista.
- 1919. Si ipotizzava allora, dopo il 1917, che nel giro di qualche anno l'Europa sarebbe stata investita dalla rivoluzione bolscevica.
- 1922. Ma nel 1922 la rivoluzione fascista dilaga e negli anni '30 l'Europa è fascista e Nazionalsocialista.
- 1938. Fascismo e Nazionalsocialismo appaiono irreversibili, ma…
- 1945. Abbiamo l'Europa di Yalta.
- 1970. L'Europa pare destinata alla sovietizzazione con i grandi partiti comunisti in Italia e Francia, e con tutto quello che stava accadendo in Germania e Inghilterra. Ma…
- 1991. L'Unione Sovietica non c'è più.
- 2000. Gli USA pare ce la facciano ad imporre il loro modello unipolare ma…
- 2010 (o giù di lì). La Russia con Putin  risorge... e la ruota ha ricominciato a girare.
- 2018. In Italia vince il partito liquido di un comico che  in chiave populista andrà a fare sintesi con la Lega nazionalista nata per scissione del nord dal sud. 

Giusto Draghi può dire, per esempio, che l'euro è irreversibile (dopo che è crollato l'Egitto dei Faraoni, l'Impero di Roma, quello di Carlo Magno, quello austroungarico, quello zarista etc.). Tutto questo per dire che la storia si curva, prende accelerazioni e svolta quando meno te lo aspetti. Nessuno ha la forza di determinarla: gli audaci possono cavalcarla, gli uomini di fede possono farsi trovare pronti.
Cosa dunque accadrà a livello di macrostoria non possiamo dirlo. Possiamo solo dire, onestamente, che il Mondialismo ha prodotto una reazione, una crisi di rigetto oggi chiamata populismo, un movimento che magari ancora annaspa tra i ruderi di civiltà che sul piano fisico hanno fatto il loro corso e da tempo esaurito la propria spinta propulsiva. Ma lo spirito che le ha animate non è andato perduto e oggi soffia nel populismo come risposta istintiva, come crisi di rigetto ad un modello di sviluppo alienante e ributtante, disumano. Uno spirito che forse può plasmare una teoria archeofuturista in contrapposizione al Mondialismo.


Primato Nazionale