“ACCORDO SUL CLIMA” DI PARIGI: COSA C'È DIETRO LE BELLE PAROLE
Durante l'ultima sessione delle Nazioni Unite dedicata alle tematiche ambientali, 31 Paesi hanno aderito ufficialmente all'”accordo sul clima” di Parigi. Così il numero totale di Paesi che hanno ratificato l'accordo ha raggiunto il numero di 60.
Il Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, che quando ha assunto l'incarico ha dichiarato che la lotta contro il cambiamento climatico sarebbe stata la sua priorità assoluta, ha ringraziato i 60 Paesi e ha invitato il mondo a seguire il loro esempio.
Il Segretario generale dell'ONU ha detto che di aver già ricevuto i documenti sulla ratifica imminente da parte di altri 14 Paesi, tra cui l'Unione Europea. Essi promettono di soddisfare le condizioni del contratto prima della fine dell'anno.
Punti critici
Inizialmente i tentativi fatti da alcuni Paesi per limitare le emissioni di anidride carbonica sono stati criticati dai Paesi in via di sviluppo.
Una giusta posizione al rigurado potrebbe essere quella della Bolivia, che ha sottolineato il grave abuso perpetrato dai Paesi capitalisti sviluppati sull'ambiente durante tutto il 20° secolo. Secondo il leader boliviano Evo Morales, ora alcuni Paesi del Primo Mondo vogliono semplicemente limitare l’ulteriore sviluppo tecnologico di altre potenze (precedentemente gli iniziatori degli accordi hanno obbligato i Paesi in via di sviluppo a pagare quote per compensare le proprie eccessive emissioni di anidride carbonica).
Un po’ di clima e tanti soldi
Il ruolo delle multinazionali rimane ancora poco chiaro. Fin dagli anni '90, molte aziende hanno spostato la loro produzione (specialmente quelle più inquinanti) nei Paesi dell'Asia e dell'America Latina, lasciando il loro quartier generale negli Stati Uniti (e un po’ meno in Europa). Tuttavia, sembra logico obbligare le società ad implementare le tecnologie "verdi" e obbligarle a pagare le compensazioni necessarie dovute al surplus dei profitti, ma questo non è menzionato dagli accordi.
C’è in ballo molto, molto denaro
Tuttavia, pensare che le società più ricche subiranno delle penalizzazioni dopo la ratifica del contratto non vale la pena. Non è un caso che gli Stati Uniti di recente, durante il vertice del G20 in Cina, abbiano esortato tutti i Paesi a ratificare il trattato. Poi, all'inizio di questo mese, Barack Obama è riuscito a convincere il leader cinese Xi Jinping, dopo di che anche il Giappone ha manifestato il suo impegno a preoccuparsi dell’ambiente.
In una dichiarazione del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti pubblicato in relazione alla ratifica, si dice che "negli ultimi anni gli Stati Uniti e la Cina hanno coperato nel settore dei cambiamenti climatici e questo costituisce un pilastro nelle loro relazioni bilaterali". Tuttavia ciò non è dovuto alla preoccupazione di Obama verso le sorti del pianeta, come è stato rappresentato dai media americani, ma al fatto che tali importanti cambiamenti nel mercato del carbone portano vantaggio in primo luogo agli Stati Uniti e all'Australia, che non ne hanno abbastanza per competere con l'Indonesia, che è il principale fornitore invece di carbone a buon mercato.
Al fine di ottenere la necessaria riduzione delle emissioni di anidride carbonica, i Paesi firmatari dell’accordo dovranno rivedere l'elenco dei fornitori. Se la Cina ha usato finora il carbone indonesiano a buon mercato, allora sarà necessario spostare le sue richieste di fornitura agli Stati Uniti o rimodellare completamente il sistema energetico, ad esempio - guardacaso - optando per la costruzione e l’uso di una centrale nucleare che ancora una volta gli Stati Uniti si propongono di costruire. La Cina, tuttavia, ha già accettato di costruire una centrale nucleare in partnership con la Turchia, fatto che ha suscitato grande sorpresa a Washington.
Un'innovazione mal riuscita
La ratifica dell'accordo di Parigi, in Giappone, ha avuto luogo sullo sfondo della sessione parlamentare chiamata a decidere il destino dell’innovativo reattore Monju. È stato riferito che il nuovo reattore dovrà molto probabilmente essere demolito perché il suo mantenimento è troppo costoso.
Costruito nel 1995, il reattore sperimentale, che utilizza come combustibile plutonio e uranio a basso arricchimento, non ha quasi funzionato. Mantenerlo in uno stato “dormiente” costa al Governo qualcosa come 200 milioni di dollari all'anno, e le prospettive di trovare un nuovo operatore che si occupi della cosa è molto limitata.
Il problema principale risiede nel fatto che la demolizione del reattore può portare ad una brusca svolta nel programma energetico giapponese, mentre il programma precedente mirava a creare un sistema in cui il reattore “Monju” doveva giocare un ruolo centrale. Il rifiuto completo del reattore porterà ad un arresto nello sviluppo di questo settore e, di conseguenza, a preparare un nuovo programma energetico.
Dopo l'incidente accaduto alla centrale nucleare di "Fukushima-1", molti dei piani del Governo giapponese in questo settore sono stati rivisti e l'uso di energia nucleare sulle isole soggette a frequenti terremoti non è stato approvato.
Di conseguenza, un nuovo programma energetico giapponese molto probabilmente sarà vantaggioso per i grandi fornitori di carbone e, come nel caso della Cina, gli Stati Uniti sperano di diventare il loro futuro partner in questo settore.
E tuttavia...
L'”accordo di Parigi” non prevede alcuna sanzione o azione da intraprendere se gli obiettivi non saranno soddisfatti. Inoltre, nel diritto internazionale non è previsto alcun obbligo di riduzione delle emissioni di anidride carbonica.
È molto probabile pertanto che la ratifica dell’accordo sarà per molti Paesi non più di un modo per migliorare la propria immagine a livello internazionale. Molto probabilmente questo discorso riguarda anche la Cina. Ci sono seri dubbi infatti che Pechino stia per interrompere la produzione e l'uso del dannoso e costoso carbone americano.