Stati Uniti e Arabia Saudita: c’eravamo tanto amati

06.06.2016

Luglio 1974. L’intero Medio Oriente è una polveriera pronta ad esplodere. Sono passati appena nove mesi dalla Guerra del Kippur, mossa da Egitto e Siria, supportati da una coalizione di Paesi Arabi, contro Israele.

Il quale, seppure colto di sorpresa ed in difficoltà nelle fasi iniziali, riesce infine ad avere la meglio sui suoi nemici, grazie anche al supporto militare ed economico degli Stati Uniti.

Ed è proprio il sostegno determinante degli Stati Uniti ad Israele ad indurre i Paesi arabi appartenenti all’OPEC a ridurre sensibilmente le esportazioni di petrolio verso gli Stati occidentali e ad imporre l’embargo verso Stati Uniti e Paesi Bassi.

L’immediata conseguenza di questa decisione sarà la crescita vertiginosa del prezzo del greggio sui mercati internazionali, passata alla storia come primo shock petrolifero.

L’impennata dell’inflazione, lo schianto dei mercati azionari, la crisi economica ed il vitale bisogno di petrolio spingono gli Stati Uniti ad elaborare un piano per uscire dall’impasse.

Così, nel luglio del 1974, il segretario del tesoro americano William Simon ed il suo vice Gerry Parsky si recano in Arabia Saudita per «neutralizzare il greggio come arma economica e trovare la maniera di convincere il regno ostile a finanziare il deficit con la sua ricchezza in petrodollari di recente scoperta».

A scriverlo, esattamente in questi termini, è niente di meno che Bloomberg, una delle principali multinazionali nel settore dei mass media, specializzata in campo finanziario, in un articolo a firma di Andrea Wong dal titolo «The untold story behind Saudi Arabia’s 41-Year U. S. debt secret».

In buona sostanza l’accordo, firmato in gran segreto, è il seguente: l’Arabia Saudita si impegna a sostenere l’economia americana sia vendendole petrolio in dollari, il che rafforza il ruolo egemone del biglietto verde rispetto alle altre valute, sia acquistando, con i proventi della vendita del greggio, ingenti quantità di titoli del tesoro americano, finanziando il deficit federale statunitense.

In cambio gli Stati Uniti forniscono ai sauditi supporto all’intelligence e armamenti militari. È probabile che l’accordo fosse stato adeguatamente preparato dalla visita, avvenuta un mese prima, di Richard Nixon ed Henry Kissinger, allora rispettivamente Presidente degli Stati Uniti e Segretario di Stato, al Re Faisal dell’Arabia Saudita.

Ciò che è certo è che il patto esiste per davvero ed è in piedi da oltre quarant’anni, come rivelato dal ministero del tesoro americano in risposta alla richiesta presentata da Bloomberg News in nome del Freedom Of Information Act.

Peraltro i 117 miliardi di dollari in titoli del tesoro statunitensi ufficialmente detenuti dai sauditi, sarebbero solo una parte del totale: il grosso si troverebbe occultato in fondi off-shore.

Più che la rivelazione in sé di questi “oscuri retroscena”, è il momento della sua divulgazione, oltre all’autorevolezza della fonte, a destare particolare interesse; gli Stati Uniti stanno infatti pianificando di ridurre la propria dipendenza dalle importazioni di greggio, sostituendo quest’ultimo con lo shale oil, un petrolio non convenzionale prodotto dai frammenti di rocce di scisto bituminoso, del quale sono ricchissimi in patria.

Inoltre la caduta del prezzo del petrolio, attualmente sotto i 50 dollari al barile, rappresenta un serio problema per l’Arabia Saudita, le cui entrate statali dipendono in larghissima parte dai profitti derivanti dalla vendita di oro nero.

Così i sauditi stanno considerando di rimpatriare la loro quota di titoli del tesoro americani e di altri beni negli Stati Uniti, per ridare ossigeno alle sofferenti finanze pubbliche.

A marzo, per bocca del ministro degli Esteri, hanno paventato di venderne per un ammontare pari a circa 750 miliardi di dollari.

La “minaccia” è stata sferrata per dissuadere il Congresso degli Stati Uniti dall’approvare una legge che declassificherebbe le ultime 28 pagine del rapporto sugli attentati dell’11 settembre 2001, rimaste sinora segrete, le quali proverebbero il coinvolgimento dell’Arabia Saudita.

Come se ciò non bastasse gli Stati Uniti hanno recentemente bloccato la fornitura delle micidiali bombe a grappolo, peraltro formalmente vietate da una convenzione Onu, alla monarchia saudita, impegnata da più di un anno nella finora infruttuosa guerra nello Yemen contro le forze degli Huthi, sostenuti dall’Iran.

Insomma, i vantaggi reciproci e le condizioni per il prosieguo della storica e cruciale alleanza economica, militare e diplomatica tra americani e sauditi sembrano essere venuti meno; una definitiva rottura, non così improbabile nei mesi a venire, avrebbe inevitabili e profonde ripercussioni in tutto il Medio Oriente e sconvolgerebbe pertanto l’intero quadro geopolitico mondiale.