Filosofia Politica vs. Ideologia
All’inizio del XX secolo viveva un filosofo della politica, oggi sarebbe chiamato politologo, di nome Leo Strauss (1899-1973) che sosteneva la tesi che la filosofia politica fosse stata sostituita nel XX secolo dall’ideologia. Questo può essere definito con il criterio secondo il quale con l’uso della ragione si costruisce un sistema di idee che nasconde la volontà di potenza di un gruppo, di un settore o di una classe sociale. L’idea di mascherare la volontà ideologica fu osservata prima di chiunque altro da Friedrich Nietzsche nel lontano 1900.
Naturalmente Strauss osservò la persecuzione come conseguenza dell’ideologia nazista in Germania al tempo di Hitler, sebbene fosse già andato in Inghilterra nel 1932 aiutato da Carl Schmitt per una borsa di studio. Poi si trasferì negli Stati Uniti, alla maniera di tutti gli intelligenti intellettuali ebrei dell’epoca (Marcuse, Arendt, Adorno, Horkheimer e tutti li fiocci [1]), dove scoprì che la sovrapposizione tra libero mercato, scienza e discorso democratico era diventata un’ideologia inconfutabile.
Il pensatore reagì, perché era naturalmente buono, e denunciò il primato dell’ideologia sulla filosofia politica. Gli sciocchi che non mancano mai e sono anche tanti, stulturourm infinitus est numerus, lo accusavano di essere un reazionario aristotelico quando si era limitato a dichiarare questioni fattuali e indubitabili.
Oggi soffriamo di ideologia o peggio ancora di ideologismo, come visione bastarda dell’ideologia. È così che si uniscono alcune ideucce corrette, i soldini di qualche furbetto e la partecipazione di molti idioti e abbiamo già l’ideologia di un candidato politico adatto alle circostanze.
Per limitarci all’Argentina, ma potremmo benissimo estenderci a tutta l’Ibero-America, non ci sono più “progetti nazionali” alla maniera di Perón con il suo “Argentina potencia” o di Getulio Vargas e il suo “Estado Novo”, oggi quello che abbiamo sono ambiziosi amministratori degli affari pubblici che cercano di perpetuarsi al potere e nient’altro. Oggi l’idea di un progetto nazionale si limita a affermazioni isolate e proposte non concatenate tra loro. Così, all’interno dello stesso progetto, difendiamo il pensionamento statale e il veto alla legge per la difesa delle foreste e dei ghiacciai. Abbiamo nazionalizzato alcune società e lasciato che l’estrazione dell’oro facesse ciò che voleva, distruggendo l’ambiente e uccidendo i nostri connazionali con un cancro collettivo.
Un progetto nazionale non è un accumulo di dichiarazioni spiritose ma la laboriosa elaborazione di un progetto che una nazione vuole darsi nella storia del mondo. Non è una barzelletta elettorale per ottenere più voti, è il rischio che un popolo si prende come progetto per esistere con le sue caratteristiche nella storia del mondo. È un insieme congruente e coerente in cui le parti tendono a un fine che è: la felicità del popolo e la grandezza della nazione.
E quell’insieme, come progetto nazionale, deve essere legato al suo passato e al suo presente. Con il suo passato che considera ciò che ha realizzato con successo e con il suo presente come ciò che può realizzare, non concedendogli capacità maggiori o minori di quelle che ha un popolo per non fallire nel futuro, che è l’estasi temporale per realizzare un progetto nazionale. Il termine stesso progetto significa “ciò che è proiettato, ciò che è proiettato in avanti”.
Come si vede, un progetto nazionale è qualcosa di serio, ponderato, equilibrato, non è un gioco da ragazzi che si può liquidare con due frasi fatte o con qualche occorrenza del momento o della circostanza politica.
L’idea di sovranità nazionale, ragion d’essere di qualsiasi progetto nazionale, è stata accantonata e messa da parte a favore dell’idea di beneficio personale per i leader di turno. Nessuno dei nostri leader ha la statura di rimandare i propri vantaggi personali per il bene comune generale.
Molti sindacalisti compiono atti ufficiali come una grande cosa nella foga dei vantaggi che ottengono, i vescovi dichiarano circostanze basate su quegli stessi vantaggi, gli uomini d’affari, per non parlare degli agenti sociali allo stesso modo. Come spezzare questo circolo vizioso? È un compito molto difficile, quasi impossibile. Ma vediamo, proviamoci.
La risposta dalla filosofia sarebbe: dobbiamo recuperare e lavorare politicamente a partire dalla filosofia politica e non dall’ideologia. Certo, questo suona come neutralità accademica, una mancanza di impegno, di impegno, ma non c’è altra possibilità in vista. Ed è anche molto difficile perché il luogo della filosofia politica non è per tutti.
Questa disciplina filosofica si basa su una premessa fondamentale, la ricerca del bene comune generale di ogni comunità politica al di là delle circostanze casuali, al di là della situazione quotidiana, al di là della contingenza.
E il bene comune generale dei popoli ispano-americani è di poter decidere da soli, con la propria testa, e per questo hanno bisogno di esercitare la sovranità politica, cosa che ci è stata vietata fin dall’inizio della nostra storia, poiché i nostri venti “Staterelli” diversamente dall’Europa non sono stati creati dall’unione di nazioni (Aragona e Castiglia nel caso della Spagna, per esempio) ma, al contrario, hanno rotto la grande nazione ispanoamericana di San Martín e Bolivar e sono nati dal nazionalismo campanilista delle oligarchie locali.
In Argentina lo Stato venne creato dalla nazione mitrista (Mitre) che ci ha lasciato anche il quotidiano Nación come tribuno della dottrina. In altre parole, siamo nati come Stato non sovrano e siamo stati veramente sovrani solo in pochissimi periodi della nostra storia, potrebbe essere sotto i governi di Saenz Peña, Irigoyen o Perón, per fare esempi del XX secolo.
Così, al di là delle lobby, dei gruppi di pressione, dei gruppi di interesse politico, della questione, la questione consiste nel risolvere l’indipendenza delle decisioni politiche. Questa è la madre di tutte le battaglie, il resto è episodico.
Abbiamo subito un caso emblematico con il Ministro degli Esteri Caputo che già nel 1984 sosteneva che: l’idea di sovranità nazionale è superata. Niente potrebbe essere più erroneo per chi intende dedicarsi alla politica, eppure questa è un’idea valida in chi fa politica oggi, perché ha cessato di essere un’attività “agonistica” (di lotta) per diventare un’attività “affaristica”, che implica una buona opportunità di lavoro. Nella società odierna del non-lavoro, la politica è un’attività redditizia e lucrosa.
Sovrano è colui che ha il potere di decidere senza riceverlo da un altro e, politicamente, è il potere assoluto e perpetuo di un regime politico, sia esso una repubblica o una monarchia. In modo tale che senza sovranità non può esserci attività politica propriamente detta, ciò che esiste, allora, è solo amministrazione degli affari pubblici. Ecco perché oggi i governi delle società dipendenti non risolvono i conflitti ma li gestiscono, lasciando la loro risoluzione a una specie di forza che li sgonfia e li modera.
Il potere di qualsiasi Stato si trasforma nel potere vicario o delegato di un altro che gli sta al di sopra. Questo sta accadendo oggi sotto gli occhi del mondo con il potere dei gruppi di pressione, dei poteri indiretti, dei grandi gruppi concentrati di capitali che hanno ed esercitano un potere maggiore di molti degli stessi Stati nazione.
Se una democrazia non può assicurare ai suoi membri un minimo vitale (lavoro, salute, giustizia ed educazione) significa che è una falsa democrazia, più proclamata che realizzata, più formale che reale, più deliberativa che efficace. Ed è che la formalità democratica con cui oggi quasi tutti i governi così proclamati adempiono ha sostituito il carattere dell’essere efficace, del fare, del creare, dell’essere agonale che l’attività politica deve avere per essere tale. La democrazia procedurale con i mille sotterfugi della formalità giuridica ha finito per soffocare l’attività politica. Oggi la lotta è integrare le liste degli elettori o dei candidati, si discute se possano esserlo o meno, per vedere chi è più democratico, o meglio ancora, per mostrare chi si attiene meglio alle formalità democratiche (in questo i radicali argentini la fanno da padrone), compete per mostrare chi è maggiormente vittima, ma in nessun momento si fa menzione dei due elementi che costituiscono il bene comune generale della comunità politica: il raggiungimento dell’armonia interna attraverso un minimo di prosperità e di sicurezza esterna. Come nel film di Mastroianni Di questo non si parla.
Stiamo approfondendo sempre più la polarizzazione delle opinioni in un gioco che, finalmente, finisce per avvantaggiare le terze parti interessate. Dal partito al governo si lancia l’idea che chi non lo vota è contrario al progetto nazionale e dall’opposizione il partito al governo viene accusato di essere al servizio dei gruppi concentrati del capitale e, come se non bastasse, da entrambe le posizioni invocano il peronismo. E così Heller, il primo deputato della Capitale Federale, un grande gorilla ed ex PC, apparteneva ai peronisti, e Narváez, il primo deputato della provincia di Buenos Aires, un grande mercante liberale e milionario. Notiamo come aneddoto che i due hanno qualcos’altro in comune: l’yiddish come lingua madre.
In realtà in entrambe le liste – ufficialità e opposizione – gli ultimi sono i candidati peronisti, ci sono quelli del partito comunista, della democrazia cristiana, della socialdemocrazia, dei conservatori, dei liberali, ecc., ma i peronisti brillano per la loro assenza. Ancora una volta sono stati come il prosciutto nel panino, incastrati tra Tiri e Troiani [2], tra gorilla a sinistra e gorilla a destra.
Il motto dovrebbe essere, e lo abbiamo già detto più volte, quello della spada di Cesare Borgia: Aut Caesar aut nihil = Aut Perón, aut nihil (O Perón, o niente) ma per questo bisogna fare una rivoluzione, cambiare quest’ordine tra l’altro, ma la parola rivoluzione e i suoi sostenitori sono stati demonizzati dal pensiero politicamente corretto del progressismo democratico. E bisognerebbe anche vedere se l’autentico peronismo ha le forze rimaste per una tale lotta.
Note:
[1] “E tutti li fiocci” anche scritto “e tutti li fiocchi”; Argentinismo di indubbia origine italiana per indicare “e chi più ne ha più ne metta”. [N.d.T.]
[2] Tiri e Troiani è un cliché letterario che si riferisce a due nemici o avversari inconciliabili. Principalmente utilizzata nella lingua spagnola (tirios y troyanos), l’espressione trova la sua origine ipoteticamente nella narrazione che l’Eneide di Virgilio fa dell’incontro di Enea e Didone. Qui i Tiri sarebbero da identificare con i Cartaginesi, fenici, originari della città di Tiro. L’inconciliabilità tra i due gruppi è resa dal fatto che pur avendo progettato di costruire una città insieme, nella quale non ci sarebbero state rivalità tra le due fazioni, il fato volle che Enea e i Troiani salpassero per volere degli dèi, abbandonando per sempre Cartagine. Quando Didone lo venne a scoprire, prima di suicidarsi lanciò una maledizione, supplicando i Tiri di vendicarsi contro i Troiani e i loro discendenti. [N.d.T.]
Traduzione di Alessandro Napoli