Entrambe le parti della regione vedono ora la “grande guerra” come possibile
Gli eventi in Medio Oriente si sono mossi velocemente. Un “decennio di cambiamenti” è stato compresso in pochi mesi: Putin e Xi Jinping hanno siglato un'intesa di portata mondiale; la Cina ha mediato un accordo tra Iran e Arabia Saudita. Il presidente Raisi incontrerà il re Salman dopo l'Eid; nello Yemen sono iniziati seri colloqui per il cessate il fuoco. La Cina e la Russia hanno convinto Turchia e Arabia Saudita a riabilitare il Presidente Assad; il Ministro della Difesa siriano ha visitato Riyadh. L'Arabia Saudita si è spostata verso la Cina; l'OPEC+ ha ridotto le forniture di greggio. E ovunque, dal Sud globale al Medio Oriente, il dollaro USA come valuta commerciale viene abbandonato a favore delle valute nazionali.
Si sta consolidando un nuovo paradigma.
Sul piano geopolitico, l'egemonia occidentale nella regione è caduta dal muro e giace a terra in frantumi. Tutti gli “uomini del re” (neocon) non riusciranno a rimettere insieme i pezzi.
E, su un altro piano, un asse di voci in tutta la regione (nel giorno di Al-Quds) ha parlato in modo convincente, e con una sola voce, che l'“uovo” israeliano dovrebbe fare attenzione, per evitare che cada e si rompa anch'esso.
L'establishment della sicurezza israeliana - anche se in termini codificati - vede la prospettiva in modo altrettanto cupo. Moshe Yaalon, ex ministro della Difesa, ha recentemente affermato che i “radicali” all'interno del governo israeliano vogliono una “grande guerra” e quando “Israele” vuole una guerra, di solito la ottiene e questa guerra arriverà sulla base della questione palestinese, ha suggerito Yaalon. Per “coincidenza”, l'intelligence militare israeliana dice lo stesso: le probabilità di una “vera guerra” nel prossimo anno aumenteranno.
In parole povere, gli eventi in “Israele” non sono più sotto il “controllo” di una sola persona. Le forze “recentemente” potenziate dello zelo sionista dei coloni e della destra religiosa per realizzare “Israele” nella “Terra d'Israele” non stanno per “scomparire” dalla scena. Non stanno perseguendo un progetto geopolitico razionale e illuminista, ma la “volontà di Yahweh”. E questo costituisce una dinamica completamente diversa.
I radicali ebrei hanno aspettato decenni per raggiungere la carica. Ora hanno i numeri e non vogliono lasciarsi sfuggire questa opportunità.
Gli Stati Uniti stanno esercitando enormi pressioni sul premier Netanyahu affinché abbandoni la “Riforma” giudiziaria, che tuttavia costituisce la chiave di volta su cui poggia l'intero edificio della “Terra di Israele”: un progetto che si basa sul “riprendersi” tutta la Cisgiordania dalle “mani” palestinesi. Un'impresa che ha il potenziale di scuotere la regione nel profondo e di scatenare una guerra.
È un'impresa in cui la destra israeliana sospetta e la Corte Suprema potrebbe benissimo inserire una “chiave inglese”. E avrebbero ragione.
Il Presidente Biden, tuttavia, ha bisogno di un “conflitto” mediorientale oltre alla guerra in Ucraina, in questo momento, come di un “buco in testa”. L'ex premier Sharon è stato preveggente circa due decenni fa nel prevedere che il potere degli Stati Uniti nella regione sarebbe scemato e che gli Stati Uniti alla fine si sarebbero dimostrati impotenti a impedire a “Israele” di “impadronirsi” della biblica Terra di “Israele”. Questa intuizione si è probabilmente concretizzata in questo preciso “momento”.
È possibile, naturalmente, che Netanyahu cerchi di fare marcia indietro. Il premier ha spesso preferito la cautela. Ma, realisticamente, può ritirarsi?
È ostaggio dei suoi partner di coalizione - qualora volesse evitare il carcere - dai quali solo l'attuale formazione di governo può proteggerlo. In mancanza di questa protezione, è inevitabile che si arrivi a un procedimento giudiziario. Non c'è traccia di altri partner di coalizione disposti a collaborare con Netanyahu, quasi a qualsiasi prezzo.
Non è difficile comprendere le origini dell'intransigenza radicale dei Mizrahi nei confronti della Corte Suprema. I fautori di uno Stato ebraico, piuttosto che di uno Stato (laico) equilibrato e “democratico”, hanno i numeri. Li hanno avuti nel ciclo elettorale del 2019. Gli Haredim, i nazional-religiosi e i Mizrahim avrebbero dovuto avere abbastanza voti per assicurarsi 61 seggi alla Knesset (una maggioranza).
Ma nel corso di quattro campagne elettorali, la “destra” non è riuscita a concretizzare la sua maggioranza, poiché i membri arabi palestinesi della Knesset sono entrati nel gioco della formazione della coalizione per impedire alla destra (che include i Mizrahim) di capitalizzare la loro superiorità numerica.
Il ministro Smotrich scrisse all'epoca in un post su Facebook che se questa situazione dovesse persistere, la destra rimarrebbe per sempre una minoranza.
È il desiderio di garantire che la maggioranza raggiunga il potere che sta alla base del programma di castrare la Corte Suprema e di espellere i partiti arabi dalla Knesset. Allora - e solo allora - l'establishment laico-liberale ashkenazita potrà essere superato (in questa prospettiva) e si potrà istituire uno Stato ebraico nella biblica Terra di “Israele”.
Se questo Stato dovesse essere anche “democratico”, va bene - ma qualsiasi attributo democratico sarebbe del tutto secondario rispetto alla sua “ebraicità”.
Articolo originale di Alastair Crooke
Traduzione di Costantino Ceoldo