Di cosa è fatta l’intimità politica europea: un piccolo studio su idee, immagini e aspirazioni
I / tarantella intellettuale sull’imperialismo
La teoria leniniana sull’Imperialismo si basa su un assunto fondamentale, che spesso non viene adeguatamente evocato. La formula “Studio ultimo del capitalismo” infatti ha un senso specifico quando appunto si intelaia l’imperialismo dentro le fasi del Capitalismo, quindi pensando che esso (l’imperialismo) sviluppi o porti a termine processi già insiti nel capitalismo.
Perde, invece, qualsiasi significato quando la roboanza della locuzione “Fase suprema del capitalismo” viene intesa solo come un indicatore che l’Imperialismo è un capitalismo incattivito, armato e prevaricatore oltre i confini nazionali.
Per Lenin è importante che si capisca che il Capitalismo si rivolge fuori dai suoi alvei nazionali quando una quota di ciò che produce, o in termini di capitali o in termini di merci, non può rendere dentro una cornice impostata. Se non rendono le merci è perchè rimangono invendute, e allora l’Imperialismo si deve incaricare di trovare mercati dove smerciarle. Se non rendono i capitali l’imperialismo deve trovare luoghi dove questi possano rendere – ed è già più difficile.
Se si parte da questi assunti si capisce meglio come mai Lenin consideri l’Imperialismo ineluttabile; e, di concerto, anche la genesi di quella famosa frase “L’unità d’Europa o non sarà o sarà reazionaria [cioè imperialista, n.d.r.]”. Il capitalismo si sviluppa ma prima di vedersi crollare addosso le sue contraddizioni prova ad esportarle.
Questa tesi è, come molte altre tesi marxiste e leniniane storicamente inquadrate, molto stimolante ma non molto acuta. La sua falsificazione partì da una analisi molto semplice: gli Imperi coloniali, dati alla mano, esportavano pochino nei rispettivi mercati coloniali. Esportavano poche merci (in proporzione a quante ne producevano, ovviamente) ed esportavano pochi capitali. Il che contrastava con l’assunto Leniniano – che ricordo fu scritto nel 1916, quindi quando il Colonialismo e l’Imperialismo erano al proprio apice, e, anzi, già decadenti – di una spinta economicistica al dominio estero.
Per le merci era di gran lunga sufficiente l’esplosione demografica internazionale o la semplice esportazione mercantilistica: i panni inglesi venivano sì venduti in India, ma in proporzione non eccezionale e non molto superiore ai mercati italiano, tedesco, americano, sudamericano, ecc. Tutti mercati che non necessitavano di complessi sistemi di controllo imperiale, peraltro costosissimi.
Più complicato era osservare l’esportazione di capitali. Ma rimane che il grosso dei capitali industriali francesi, o inglesi, o tedeschi non si rivolsero alla piana del Tet, alla Nigeria o alle Isole Bismarck, quanto al Triangolo Industriale, al bacino del Rio delle Amazzoni o alle nascenti fonderie russe.
L’idea di una spinta economicistica all’Imperialismo fu salvata dalle riflessioni successive, e in particolare nella teoria dei mercati concentrici proposta dai neomarxisti come Immanuel Wallerstein. Una teoria che aveva l’arguzia di separare il piano politico da quello economico-sociale, introducendo l’idea (ad avviso di chi scrive davvero marxista) che l’economico-sociale produce realtà politiche a prescindere e molto prima che il politico lo segui armi in mano.
II / “I tedeschi si son comprati perfino la Skoda: la Fabbrica!”
Com’è noto nel 2004 l’Unione si allargò a una serie di paesi che rientravano fino al 1989/1991 nel blocco sovietico. Insieme a loro ci furono alcuni paesi che, pur non essendo ancora entrati nell’Unione Europea, cominciarono a vedere gli effetti della loro sosta nell’orbita europea.
Questi paesi com’è noto avevano alcune caratteristiche che facevano molta gola all’Europa. Erano paesi tradizionalmente e culturalmente europei quindi avrebbero posto molto meno problemi di integrazione – si credeva. Erano paesi culturalmente avanzati ma economicamente un po’ arretrati. Avevano una popolazione giovane, con un sistema scolastico di tutto rispetto e con una tradizione operaio-industriale di livello.
Siccome gli industriali tedeschi sanno il fatto loro, sapevano bene che la differenza tra installare una fabbrica in Lesotho e una a Varsavia non stava solo nel prezzo del lavoro, ma nell’ambiente attorno. Ambiente antropologico, culturale, motivazionale. I Capitali tedeschi poterono esercitare la loro potenza di fuoco in modo sontuoso perchè ogni cosa concorreva a facilitarli. Polacchi, ungheresi, cechi e baltici erano fascinati dalla Germania da molto tempo e offrivano un tessuto antropologico e industriale già bell’è pronto.
Se Lenin avesse avuto del tutto ragione l’Europa, allora già condominio attorno all’intesa francotedesca, avrebbe dovuto gettarsi a capofitto in questa impresa. Non fu così: l’allargamento fu ritardato, anche questo fatto è noto, dalle ritrosie francesi inglesi italiane, che puntavano all’approfondimento delle istituzioni europee. Era un comportamento economicamente insensato: perchè Parigi Roma e gli altri non volevano mercati su cui scorrazzare?
Era evidente che non si trattava di scrupoli economici né di mancanza di interessi. Il Regno Unito era già allora il secondo partner europeo della Polonia. Il punto era che il motore delle espansioni politiche e di grandi investimenti politici e di reputazione si fa non su calcoli biologici (afferenti alla biologia economica, cioè al mero funzionamento intestinale dei mercati) ma su ben più ampi progetti.
Il punto infatti è che il capitalismo politico, cioè quella forza che plasma le azioni politiche dei paesi NON ATTORNO alle esigenze spurie del capitale ma proprio attorno al Capitalismo come fatto di civiltà, non aveva disperato bisogno di liberare i magazzini tedeschi. Aveva bisogno, o riteneva d’aver bisogno in quel momento, di puntellare il mercato per stabilizzarlo con aggiunte orizzontali.
Ma che vuol dire “Mercato”?
III / I sogni dei mercanti
Quando l’Unione Europea parla di “Mercato Unico” non parla di una realtà contabile. O non solo di una realtà contabile. “Mercato Unico” è anche una realtà di civiltà, un sogno condiviso, un modo di intendere i rapporti sociali, un sapore culturale, una matrice antropologica. È la vera credenza che la vita quotidiana europea debba rassomigliare a ciò che i liberali europei modernizzati pensarono dovesse diventare la vita dei comuni europei negli anni ’70 e ’80. Un posto dove acquistare la cara vecchia Europa con lo stile d’acquisto americano, dove avere una tecnologia distinta ma non roboante, dove avere distretti finanziari senza tanti grattacieli e molti parchi, con il mecenatismo, i musei profumati, distinte famiglie immigrate che si pensavano austriache o francesi grazie alla combo impiego statale femminile + impiego privato maschile.
I mercanti hanno sempre sognato, ma fino al 1945 non poterono compiutamente sognare con le mani sui posti importanti. Perchè prima avevano lasciato le armi e le cancellerie ai nobili e ai conservatori veri, e poi avevano lasciato che la società di massa scorrazzasse. Finita la ridda, negli anni ’70, sistemate alcune cose (riacquisizione di una fiducia contro l’URSS, inizio del declino demografico, prime immigrazioni, riflusso politico, ecc) essi poterono plasmare una civiltà (o una iterazione di quella che essi credevano fosse la civiltà europea) in libertà.
Gli strumenti di cui l’Eurocrazia ha fatto uso fino ad oggi – austerità, indirizzo economico tramite fondi Europei, legislazioni-quadro, ecc – non sono solo risposte momentanee ad elementi contestuali. Sono, anche, parte di un progetto antropologico di civiltà.
L’austerità doveva creare lo spazio per un mercato europeo di vere aziende responsabili che coniugassero la spinta americana e il naturale “grigiore” europeo, fatto di rapporti politici intensi ma non espliciti con il potere politico. La politica dei Fondi europei era volta alla costruzione di un tessuto antropologico che normalizasse la presenza immigrata (necessaria) e che rafforzasse le identità locali o regionali contro quelle nazionali. Le legislazioni-quadro creavano interdipendenza tra società e Stato Europeo, perchè ciò che gli americani volevano ottenere con l’animal spirit noi lo volevamo ottenere con l’esprit de Lois.
L’inclusione dei paesi orientali fu una scelta anche immaginifica. Solo la Mitteleuropa poteva riscattare lo Slavorum; bisognava germanizzare i polacchi, i cechi e i baltici. Il sogno dei Mercanti pensava alle città come Varsavia, Riga, Tallin, Budapest, ecc come a luoghi di fabbriche tedesche e di retrovia europea. Polacchi, cechi baltici et alia dovevano finire il loro Esodo nel grande sogno delle Berkeley europee come il Politecnico di Zurigo o l’Ecole des Hauted Etudes a Parigi. Non so se si capisce: il Sogno dei Mercanti è anche un sogno territorializzato.
Diviene allora comprensibile come mai allargamento e approfondimento nel 2000-2004 furono avversari. Non solo perchè propalati da due poli alternativi, ma perchè rispondevano a idee di civiltà diverse. Una Unione più piccola ma approfondita avrebbe avuto: istituzioni partecipate, dibattito serrato e disciplinato, francocentrismo nella cultura e condominio anglo-tedesco in economia, voglia di strutture comuni vere (polizia, ente dei trasporti): replicazione del modello di Stato ad un livello interstatale. Cosa che lasciava intravedere la Costituzione Europea.
Una unione più grande, ariosa, anche orientale si sarebbe soffermata sui fattori culturali, non volitivi ma immaginativi di essere europei. Abbiamo avuto: disciplinamento indotto in modo indiretto e non strutture riconosciute. Dibattito politico assente ma culturalmente dinamico. Ansia da dissolvimento. Ricatto politico – sempre segno di ansia da dissolvimento. Unità idoelogica ricercata nella sovrastruttura (diritti, immigrazione, ecc) e non sui fondamenti della civiltà europea. Economicismo. Non integrazione politica ma pianificazione sociologica tramite le agenzie europee.
IV – Le anfizionie non reclutavano Legioni
Questo tipo di civiltà emersa da una delle due varianti del “Sogno dei Mercanti” (Ipotesi di lavoro: che abbia vinto perchè metteva insieme gli yuppie di centrodestra e i barricaderos alla Barroso di Centrosinistra?) si costituisce quindi come Anfizionia della società europea. A questa si appella. Continuamente mina i poteri statali rifacendosi a istituzioni locali. Dialoga con la società europea CONTRO gli stati europei. Gioca le maggioranze parlamentari una contro l’altra invece di rappresentarle.
A Bruxelles pensano davvero di rappresentare non una Unione di Stati Europei, bensì di interpretare la pancia segreta dell’Europa, il suo spirito interno, che si manifesta nella società civile. Hanno un’idea quasi ecclesiologica di sé: sono il “Corpo mistico” della società civile europea.
Le anfizionie, com’è noto, non reclutavano Legioni. Cioè: non creavano corpi riconoscibili a loro servizio. Le anfizionie non reclutavano bensì mobilitavano. Mobilitavano per scopi che, esattamente come quelli eurocratici, sono solo in parte condivisi. Essi vengono usualmente tratti dalla coscienza europea (o quella che si ritiene esser tale) e vengono poi suggeriti per ricatto ai singoli paesi. Certo, c’è sempre un tornaconto geopolitico, ma esso è un emolliente, non un carburante.
Lo scopo di una anfizionia che si basi su una idea generale e che si fonda sull’autocoscienza di essere rappresentante di una società in eterna gestazione ha una tendenza naturalmente protistica: la mobilitazione, infatti, è uno stato di agitazione che si può allargare senza progettualità, perchè non ha dietro uno spessore politico che lo debba sostenere, ma un fuoco in ebollizione verso cui si hanno poche responsabilità.
V – Non fasi ma tappe
Qual è il limite del telaio delle anfizionie? Non la rottura o l’implosione, ma la dissolvenza. Le anfizionie vere si rompono quando ci si rende conto che non si ha nulla da fare assieme o ciò che si sta facendo ha poco senso. La mobilitazione per l’Ucraina come fatto autonomo dell’anfizionia eurocratica finirà in dissolvenza, non certo con un botto.
Il progetto eurocratico che non si è voluto approfondire ha voluto rimanere Mercato/anfizionia/Aspirazione morale. E di fronte alla doppia crisi Covid-Ucraina si è trovato senza strumenti; ha dovuto, quindi, assumere alcuni strumenti da “Unione Approfondita” senza averne dimestichezza. Ad oggi le società europee, proprio in virtù del loro antistatalismo, hanno reagito positivamente. Gli Stati nazionali sono sempre più deboli come enti autonomi e quindi si sottomettono volentieri a questo inturgidimento istituzionale europeo. Ma questo può durare o fino a quando l’Europa mantiene un regime di mobilitazione finalistico continuo o fino a quando dura il sostegno esterno a che ciò accada.
Strutturalmente, quindi, l’Europa è questa idea di Mercato che si fa, che si produce come fatto auspicabilmente antropologico, politico, culturale, ecc. La Deutsche Bank, l’Eurotower, ecc sono di certo attori, ma recitano sotto le luci di questo grande progetto di un “Post-mondo all’Europa”, una gigantesca città-paese a metà tra Buffalo, l’Ile de France prossimo a Parigi e i parchi viennesi. Di famiglie scarse e servizi onnipresenti. Di competitività dissimulata e di armonia messa in piedi.
È sempre stata molto forte questa idea super-politica, super-economica, immaginifica. Per fare quella Europea era necessario creare la base geo-storica necessaria (quindi necessità di allargamento ad Est) e far lavorare la Pianificazione Sociologica. Far diventare l’Europa un orizzonte ineluttabile per almeno tre generazioni è l’obbiettivo fondamentale. Il punto di non ritorno.
Cos’ha a che fare questo con Lenin? L’analisi dura dell’Europa, come organismo imperialistico che ha attirato a sé l’Ucraina per inglobarne il mercato non regge: non è per avere il lavoro delle badanti ucraine che l’Europa si espone in Ucraina. E nemmeno solo perchè sottostare a dei diktat americani: degli americani, in questa crisi, abbiamo assorbito i ritmi e le frasi altisonanti, ma teniamo un nostro stile.
L’Eurocrazia (che è ovviamente soggetto diverso dai governi europei, e vive anche di vita propria) ha visto nell’Ucraina una condizione ottima per mettere alla prova della storia questa idea di civiltà europea che si erano fatti. Vedere sul campo la forza della mobilitazione delle coscienze e del dominio delle “parole chiave” Democrazia/diritti che essi stessi hanno richiamato, come certi demoni che non tornano più nel grimorio. Vogliono sentire l’aria, avvertire come potrebbe essere l’Europa dei distretti industriali e delle piste ciclabili olandesi di fronte alla Storia. Ci credono fino in fondo. Che tipo di uomini e donne sono le prime generazioni venute su col latte di Ventotene?
Lenin però può tornarci ancora utile. Egli ricordava che l’Imperialismo, esattamente come il capitalismo, poneva dei problemi nuovi che innescavano l’impossibilità di tornare indietro. La “Fase suprema” non era una “fase” da cui si rescinde, ma una tappa in un viaggio di sola andata.
L’Eurocrazia “politicizzerà” sempre di più la propria Anfizionia e la propria mobilitazione. Userà sempre di più lo strumento ricattatorio mentre prepara i primi strumenti giuridici. Lo farà prima in ambito economico – vedi lo scudo antispread per l’Italia, che richiama necessariamente una politica fiscale comune – e poi in quello giuridico: forse si darà più potere al Parlamento Europeo.
Ciò che dobbiamo tenere di conto è che le “visioni poetiche” del mondo, quella che ho provato a inserire nell’equazione come motore (insieme ad altri) dei movimenti europei, si nutrono di sé stesse. Fantasticano. Non esporterà capitali, ma non potrà più rientrare in una fase individualistica e isolazionista.
Urge, assieme all’azione politica, anche provare a sintetizzare una visione alternativa, immaginifica, futura ma molto concreta di Europa. C’è (anche) una battaglia di narrazioni e di cornici situate da fare.