Carl Schmitt e il concetto di politico
Carl Schmitt [1] è tra gli autori e i teorici della destra tedesca il cui atteggiamento nei confronti del Nazionalsocialismo è stato, come minimo, sottile. Nella sua opera ormai classica intitolata Die konservative Revolution in Deutschland, 1918-32 (Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1974), che ha dedicato alle varie correnti nazionalistiche tedesche del periodo interbellico, il dottor Armin Mohler [2] cita Schmitt come una delle figure principali della “rivoluzione conservatrice”, insieme ad altri cinque “outsider”: Ernst Jünger e suo fratello Friedrich Georg, Hans Blüher, Oswald Spengler e Thomas Mann.
Contenuti
- L’errore della “depoliticizzazione” e le sue conseguenze
- Amico e nemico
- La teoria partigiana
Con la sua fronte ampia, le labbra sottili e le rughe ostinate agli angoli esterni degli occhi, Carl Schmitt, oggi ottantanovenne, sfugge a qualsiasi categorizzazione.
Quest’uomo della Westfalia è originario della regione di Treviri e ha alcuni legami familiari aggiuntivi con la zona della Lorena. In passato è stato discepolo del sociologo Max Weber e ha insegnato all’università di Greifswald, Bonn e Berlino. Inoltre, ha partecipato alla vita politica degli anni Trenta. Nel 1936, dopo essere stato criticato da alcune fazioni del movimento nazionalsocialista, rinunciò a qualsiasi attività non professorale.
Nel 1945, fu preso di mira come capro espiatorio da alcuni accademici compromessi e arrestato dagli Alleati. Il suo caso fu tuttavia archiviato. Oggi conduce una vita ritirata nella sua città natale, Plettenberg, e continua a pubblicare.
Le sue prime opere erano di natura legale. Tuttavia, a partire dal 1918-1920, divenne gradualmente noto come specialista del pensiero politico. Proprio come Max Weber, Schmitt si oppose apertamente alla Repubblica di Weimar e criticò aspramente il Trattato di Versailles. Tradotto in francese con un ritardo di oltre quarant’anni, Der Begriff des Politischen (“Il concetto di politico”) è un testo che risale proprio a questo periodo. Poco dopo la sua pubblicazione nel 1927, ha dato luogo a intense controversie che hanno coinvolto personalità di spicco, come Leo Strauss, Martin Buber e Karl Löwith, e da allora è rimasta una delle opere fondamentali della scienza politica tedesca.
Schmitt rimprovera alla Costituzione di Weimar di essere “quasi troppo perfetta giuridicamente e contemporaneamente troppo magnifica per rimanere politica”. Questa critica riassume l’essenza della sua argomentazione, un’argomentazione che si basa sulla distinzione tra il concetto di “statale” e quello di “politico”.
Le due concezioni sono state per lungo tempo indistinguibili: “C’è stata un’epoca in cui l’identificazione delle nozioni “statali” e “politiche” era giustificata”, motivo per cui l’analisi del fenomeno politico è stata per lo più ridotta a una teoria generale dello Stato (la allgemeine Staatstheorie). Tuttavia, dice Schmitt, “la nozione di Stato presuppone un concetto di politico”. Perché la politica non è semplicemente una conseguenza dello Stato. La sua esistenza, infatti, precede quella di quest’ultimo. Poiché l’uomo conduce una vita sociale, ogni società è necessariamente caratterizzata da un’organizzazione politica. Per quanto riguarda lo Stato stesso, non è che uno dei mezzi per raggiungere tale organizzazione. Lo Stato non è quindi una necessità storica senza tempo, ma uno specifico “mezzo di esistenza” (uno Stato). L’attività politica potrebbe effettivamente svolgersi al di fuori del quadro statale e, allo stesso modo, la politica potrebbe durare anche se lo Stato dovesse scomparire.
L’errore della “depoliticizzazione” e le sue conseguenze
Nella prefazione che ha scritto per questo libro, Julien Freund [3], che lavora come professore all’Università di Strasburgo ed è autore di un libro intitolato L’essence du politique [4] (Sirey, 1965), spiega come uno Stato possa cessare di essere politico: “È impossibile esprimere una volontà genuinamente politica se si è rinunciato in anticipo all’uso dei normali mezzi politici, ossia il potere, la costrizione e, in casi eccezionali, la violenza. Agire politicamente significa esercitare l’autorità e manifestare il potere. Altrimenti, si corre il rischio di essere eliminati da un potere rivale che intende, al contrario, agire in modo pienamente politico”.
Ogni politica, in altre parole, implica il potere e costituisce uno degli imperativi di quest’ultimo. Di conseguenza, l’atto di escludere l’esercizio del potere fin dall’inizio, riducendo un governo, ad esempio, a un mero luogo di incontro o a un mero organo arbitrale che rispecchia la funzione di un tribunale civile, è sinonimo di agire contro la legge stessa della politica. La logica stessa del potere richiede che sia potente e non impotente. E poiché la politica richiede essenzialmente il potere, qualsiasi politica che rinunci a quest’ultimo per debolezza o legalismo cessa di essere veramente politica: non svolge più la sua funzione normale, essendo diventata incapace di proteggere i membri della collettività che le sono stati affidati. Il problema non è quindi che un determinato Paese abbia una Costituzione giuridicamente impeccabile, né che cerchi una forma ideale di democrazia, ma che si conceda un regime capace di rispondere a difficoltà specifiche e di mantenere l’ordine, generando al contempo un consenso che rimanga favorevole a tutte le innovazioni con il potenziale di risolvere i conflitti che inevitabilmente emergono in ogni società”.
Questo approccio equivale a distinguere l’autorità politica dalla sostanza politica. La decadenza dello Stato liberale durante il XIX secolo e l’ascesa della tecnocrazia e della “politica di gestione” hanno entrambi accelerato il processo. Quando lo Stato cessa di essere politico, la sua autorità svanisce. La sua sostanza, tuttavia, permane.
Questa sostanza quindi galleggia, priva di qualsiasi supporto istituzionale. Diventa la preda e il fulcro di gruppi di pressione ideologici in competizione tra loro, che si sostituiscono allo Stato per prendere decisioni realmente politiche, cercando di assumere il controllo dei mezzi statali per attuare queste decisioni imponendo le proprie organizzazioni. Di conseguenza, i domini finora ritenuti neutrali (religione, cultura, arti, istruzione ed economia) “perdono la loro neutralità nella misura in cui questa parola è sinonimo di assenza di legami sia con lo Stato che con la politica”. Sono questi domini metapolitici che successivamente incarnano l’ambito ideale dell’azione politica. Ed è questo spostamento nel campo dell’azione politica che innesca l’illusione della “de-politicizzazione”.
Questa è infatti la situazione che caratterizza la nostra epoca, un’epoca in cui lo Stato si sta gradualmente esaurendo (in particolare sotto l’influenza delle concezioni americane di governance) e la convinzione che l’economia abbia d’ora in poi “sostituito” l’aspetto politico porta solo a far cadere il controllo e l’esercizio di un’autentica funzione politica nelle mani di poteri non statali (dal momento che la politica è vista come subordinata all’economia, proprio come quest’ultima è subordinata al dominio sociale, con conseguente inversione completa dell’ordine tradizionale che definisce queste tre funzioni).
Anche se sarebbe allettante definire la politica attraverso la sua sostanza, significherebbe cadere nell’approccio errato di Aristotele, che ha cercato di delineare la sua “essenza” metafisica. Lo scopo di Schmitt è allo stesso tempo più modesto e più ambizioso. L’obiettivo, scrive Freund, è quello di “determinare il criterium, cioè il segno, che ci permette di riconoscere se una questione è di natura politica o meno, permettendoci così di discernere ciò che è puramente politico, indipendentemente da qualsiasi altra connessione”.
Amico e nemico
Questa connessione fondamentale, questo criterio identificativo relativo a ogni dinamica strettamente politica, risiede, secondo Schmitt, nell’attitudine a distinguere l’amico dal nemico (la Teoria del Freund-Feind). In campo politico, questa distinzione è fondamentale come quella tra il bello e l’antiestetico in estetica, il bene e il male in ambito morale, e così via. “Tutto sommato, il criterio politico sta nella possibilità di far evolvere qualsiasi opposizione verso un conflitto estremo in cui i nemici si affrontano”, scrive Freund. L’archetipo della decisione politica è quindi quello di designare il proprio “nemico pubblico” (hostis, ossia qualcuno che, per ragioni che non hanno a che fare con la morale o la legalità, agisce come nemico di tutti, e non deve essere confuso con il proprio nemico privato, inimicus). Per quanto riguarda la vera autorità politica, è quella che possiede i mezzi per attaccare questo nemico o per difendersi da lui.
Il fatto che il nemico sia minaccioso o meno ha poca importanza. “In termini di definizione, è sufficiente che sia qualcuno caratterizzato da un’alterità e da un’estraneità particolarmente pronunciate, che definiscono entrambe la sua stessa esistenza, e che i potenziali conflitti con lui siano perfettamente concepibili nel peggiore dei casi, conflitti che non potrebbero essere risolti né attraverso un insieme di norme generali prestabilite, né attraverso il giudizio pronunciato da una terza parte riconosciuta come non coinvolta e imparziale”. La proposta di Clausewitz [5], secondo la quale “la guerra non è altro che l’estensione della politica, ma con la selezione di mezzi diversi” (come affermato in Vom Kriege [6]), si trova quindi invertita.
Un mondo in cui la contingenza di una lotta autentica sia stata completamente eliminata e bandita, un pianeta pacificato una volta per tutte, sarebbe un mondo privo di qualsiasi differenziazione tra amici e nemici, e quindi un mondo senza politica". Sarebbe un mondo i cui apprezzamenti non hanno più alcun valore o significato, un mondo incapace di evolversi ulteriormente, privo di tensioni creative e condannato a ripetersi all’infinito e a “ruminare” sempre lo stesso momento. Un mondo del genere sarebbe svuotato di tutta la storia.
La prospettiva inquietante della “storia in uscita” alimentò la generazione tedesca del 1914-1918, la stessa che si interrogava sulla propria posizione nell’universo e leggeva le opere di Spengler e Rathenau [7]. La sua angoscia di fronte a una tecnologia quantificante in ascesa e senz’anima era giustificata, “perché si nutriva di un sentimento oscuro che derivava dalla logica stessa del processo di neutralizzazione”, dichiara Carl Schmitt.
Nel 1927, tuttavia, Schmitt espresse la sua convinzione che questo processo fosse prossimo alla fine, proprio perché alla fine riuscì a raggiungere la tecnologia. “È solo in modo temporaneo che si può considerare questo secolo come un secolo di tecnologia, in conformità con lo stato d’animo che lo pervade. Il giudizio finale sarà emesso solo quando si sarà determinato quale tipo di politica è abbastanza potente da piegare il mondo moderno alla sua volontà e quale raduno effettivo di amici e nemici ha avuto luogo in questo nuovo dominio”, ha scritto Schmitt.
Abbiamo raggiunto un’epoca caratterizzata dalla totale ignoranza delle distinzioni classiche tra guerra, pace e neutralità, tra politica ed economia, personale militare e civili, combattenti e non combattenti; l’unica eccezione è la differenza tra amico e nemico, la cui logica presiede alla sua nascita e determina la sua stessa natura.
Le conseguenze sono spaventose. La nozione stessa che circonda l’esistenza di “organismi internazionali” la cui autorità supera la sovranità degli Stati e che sono responsabili di “interpretare la legge” implica la necessità di “dimostrare” a tutti che è il nemico ad essere effettivamente in torto. Nell’ambito di questa prospettiva universalistica, l’avversario deve essere dichiarato fuorilegge, ossia letteralmente inumano. Pertanto, non può più essere rispettato mentre si lotta contro di lui; al contrario, può solo essere odiato, perché è diventato l’incarnazione del male. Al potere illimitato che comportano i vari mezzi di distruzione fa eco la totale svalutazione del nemico, il cui sterminio è “giustificato” una volta stabilita la sua assoluta inutilità. Allo stesso modo, le differenze fondamentali tra guerra e pace e tra dominio civile e militare non sono più valide. Tutte le guerre sono di natura globale e possono essere intraprese in qualsiasi momento. E mentre il politico viene invaso dal morale, l’ora del partigiano è improvvisamente arrivata.
La Teoria del Partigiano
Nella sua Teoria del Partigiano, una conferenza tenuta in Spagna nel 1962, Schmitt dimostrò che l’aspetto del “combattente rivoluzionario” corrispondeva perfettamente a ciò che lui stesso aveva previsto. Infatti, un partigiano non è semplicemente una persona caratterizzata dai metodi che sceglie di utilizzare. Incarna anche la funzione politica che le istituzioni regolari non svolgono più. “Si impegna nel combattimento allineandosi con una certa politica, ed è proprio l’aspetto politico della sua azione che evidenzia il significato originale del termine partigiano”. Mentre i soldati combattono perché il loro dovere è fare la guerra (indipendentemente dalle loro convinzioni personali), i partigiani combattono perché credono che la loro lotta sia giustificata. La consapevolezza rivoluzionaria di un partigiano si esprime attraverso la “requisizione completa”. Che Guevara [8] ha detto: “Il partigiano è il gesuita della guerra”.
Un altro tratto specifico che caratterizza la nostra epoca è il fatto che lo Stato, che dispone di tutti i mezzi di potere necessari, non è più una vera autorità politica, mentre il partigiano, che agisce come incarnazione della sostanza politica, cerca di appropriarsi dei mezzi che gli mancano attraverso le proprie azioni.
L’impatto che Carl Schmitt ha avuto nell’arco di mezzo secolo è stato notevole. È stato una fonte di ispirazione per molti uomini di destra (tra cui Armin Mohler), di sinistra (come Kirchheimer) e persino per il maoista Schickel.
Questo fatto, tuttavia, non lo ha messo al riparo dalle critiche. Maurice Duverger [9] che, almeno secondo Freund, probabilmente non ha mai letto nessuna opera di Schmitt, ha scelto di trattarlo con disprezzo. Altri gli hanno rimproverato di dare al nemico la precedenza sugli amici (o “compagni”), un’accusa alla quale Schmitt ha risposto come segue: “Questa obiezione non tiene conto del fatto che, come risultato della necessità dialettica, lo sviluppo di qualsiasi concetto giudiziario deriva dalla sua negazione. La radice dell’azione penale e del diritto penale non risiede nei fatti, ma nei misfatti. Eppure, qualcuno parlerebbe mai di una concezione positiva di tali misfatti, o del primato del crimine?”.
Come tutti sanno bene, il principio principale di un atteggiamento “machiavellico” è quello di manifestare in modo chiassoso la propria disapprovazione nei confronti di Machiavelli. Carl Schmitt fa la seguente osservazione ragionevole, includendola come nota a piè di pagina nel suo libro: Se Machiavelli fosse stato veramente machiavellico, avrebbe scritto un’opera letteraria istruttiva al posto del suo Principe, idealmente un’opera anti-machiavellica”.
Riferimenti
“Il concetto di politico”, seguito da “La teoria del partigiano”, opere di Carl Schmitt, Calmann-Lévy, 331 pagine.
Originariamente pubblicato nella rivista Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik (vol. LVIII, 1927), “Il concetto di politico” era già stato parzialmente tradotto in francese nel 1942, con il titolo “Considérations Politiques” [10] (Librairie générale de droit et de jurisprudence). Nella stessa Germania, è stato rieditato nella sua versione del 1932 dopo la guerra (“Der Begriff des Politischen”, Duncker u. Humblot, Berlino, 1963).
Altre opere di Carl Schmitt sono state pubblicate (o ripubblicate) molto recentemente: “Politische Romantik”, (Duncker u. Humblot, Berlino, 1968), “Legalität und Legitimität” (Duncker u. Humblot, Berlino, 1968), “Gesetz und Urteil” (C. H. Beck, Monaco, 1969), “Der Hüter der Verfassung”, (Duncker u. Humblot, Berlino, 1969), “Die Geistesgeschichliche Lage des heutigen Parlamentarismus”, (Duncker u. Humblot, Berlino, 1969), “Politische Theologie II” (Duncker u. Humblot, Berlino, 1970), “Verfassungslehre” (Duncker u. Humblot, Berlino, 1970), “Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum” (Duncker u. Humblot, Berlino, 1974).
[1] Carl Schmitt (11 luglio 1888-7 aprile 1985) è stato un giurista e teorico politico tedesco conservatore, il cui pensiero ruotava intorno all'esercizio efficace del potere politico. Il suo lavoro è stato fonte di grande influenza sulla teoria politica successiva, sulla teoria giuridica, sulla filosofia continentale e sulla teologia politica. Nonostante il suo impatto, i suoi pensieri sono considerati controversi a causa della sua presunta stretta collaborazione e del suo sostegno politico-giuridico al nazismo; a causa di ciò, viene spesso definito come il “giurista della corona del Terzo Reich”.
[2] Armin Mohler (12 aprile 1920-4 luglio 2003) è stato un autore politico e filosofo di destra di origine svizzera, associato al movimento Neue Rechte (Nuova Destra).
[3] Julien Freund (8 gennaio 1921-10 settembre 1993) è stato un filosofo e sociologo francese. È stato definito da Pierre-André Taguieff un “liberal-conservatore insoddisfatto”; il suo lavoro come sociologo e teorico politico è un'estensione di quello di Carl Schmitt.
[4] “Il concetto di politico”
[5] Carl Philipp Gottfried (o Gottlieb) von Clausewitz (1 giugno 1780-16 novembre 1831) fu un generale prussiano e teorico militare che enfatizzò gli aspetti “morali” (cioè, in termini moderni, psicologici) e politici della guerra.
[6] “Sulla guerra”
[7] Walther Rathenau (29 settembre 1867-24 giugno 1922) è stato uno statista tedesco che ha ricoperto il ruolo di Ministro degli Esteri durante la Repubblica di Weimar.
[8] Ernesto 'Che' Guevara (14 giugno 1928-9 ottobre 1967) è stato un rivoluzionario marxista argentino, medico, autore, leader della guerriglia, diplomatico e teorico militare.
[9] Maurice Duverger (5 giugno 1917-16 dicembre 2014) è stato un giurista, sociologo e politico francese.
[10] “Considerazioni politiche”
Traduzione di Costantino Ceoldo