Al Buti, il sunnita che morì nel nome della Siria di Assad
Il 21 marzo cade la ricorrenza della morte di Sheikh Mohammad Said Ramadan al Buti Saied, una delle massime autorità religiose della Siria che ha guidato i fedeli sunniti a partire dall’inizio della sua attività accademica. Viene considerato un’icona per il popolo siriano sia dal punto di vista religioso sia dal punto di vista umano.
Sin dall’inizio della crisi siriana, cominciata nel marzo 2011, al Buti etichettò i ribelli antigovernativi come un manipolo di mercenari e rese onore all’Esercito Arabo Siriano come garante della salvezza della Siria contro i nemici del presidente Assad. Ogni tipo di opposizione venne definita dallo studioso come “feccia” e esortò più volte il popolo ad arruolarsi nell’esercito per aiutare il governo a sconfiggere le forze ribelli. È questo il motivo che gli è costato la vita a seguito di un attacco suicida il 21 marzo 2013, durante una predica nella moschea di Iman nel quartiere Mazraa di Damasco. Insieme a lui morì il figlio Ahmad e altre 52 persone, più di 80 i feriti. Bashar al Assad commentò così la notizia della morte di al Buti: “Condanno questo attacco e giuro che ripulirò la Siria da ogni forma di estremismo. Porgo le mie condoglianze a tutto il popolo siriano per il martirio di al Buti, una grande figura per la Siria e per tutto il mondo islamico”.
Al momento della morte aveva 84 anni e durante il corso della sua vita aveva scritto circa 60 libri riguardanti le leggi sociali dell’Islam e la filosofia della religione di Maometto, aveva ricevuto molti premi onorari e fu uno dei massimi promotori del dialogo tra Islam e cristianesimo. Incoraggiò una visione Sufi dell’Islam, focalizzata sul rito piuttosto che sull’egemonia politica sulla religione, nell’ottica di una visione moderata della religione islamica proposta da Hafez al Assad, padre dell’attuale presidente della Siria. A partire dagli anni 90, ha condotto un programma presso la TV di stato che andava in onda due volte a settimana e le sue lezioni erano seguite da migliaia di persone.
La notizia della sua morte non ha avuto una forte eco tra i media occidentali: la ragione è che sarebbe stato difficile giustificare l’uccisione di un sunnita da parte delle forze “ribelli”, sarebbe stato complesso ammettere che in Siria non è in corso una guerra civile tantomeno una guerra di religione tra sunniti e sciiti, sarebbe stato complicato dichiarare che prima dell’inizio della crisi ogni credo religioso viveva nel rispetto reciproco e nella tolleranza tipica di un contesto in cui il dialogo interreligioso rappresentava una ricchezza culturale. Il 21 marzo, giorno in cui nei paesi arabi viene festeggiata la maternità, i siriani da tre anni ricordano così lo Sheikh al Buti: “Nel giorno della grande madre, abbiamo perso un nostro grandissimo padre”.
Ada Oppedisano e Ayala Shbeeb (corrispondente da Damasco)
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