Usurocrazia e sovranità monetaria - parte IV

23.04.2015

Corsi e ricorsi storici

Dopo le cosiddette “intese” che, come abbiamo visto nella terza parte del nostro articolo, furono stipulate nella cittadina nordamericana del New Hampshire, nuova tappa cruciale per l’assoluto e incontrastato dominio della finanza apolide sulle economie nazionali sarà la fine del conio tradizionale della moneta e l’inizio del monetarismo virtuale.

Il 15 agosto 1971, infatti, Richard Nixon, XXXVII presidente degli Stati Uniti d’America, non potendo più sostenere il peso della convertibilità dollaro-oro sancita a Bretton Woods abolisce tale meccanismo. Una mossa che fu probabilmente dettata dalla richiesta della Francia (governo De Gaulle 1958-1969) agli Usa di convertire, senza indugio, in oro le montagne di dollari accumulate nei propri forzieri e dal ritiro dei propri depositi in dollari dalle stesse banche nordamericane. In concreto una scelta coraggiosa, quella francese, per riappropriarsi della propria sovranità politica, economica, culturale e militare (uscita della Francia dalla Nato, fine della guerra coloniale in Algeria e relazioni fattive con i paesi dell’est) che sarebbe costata molto cara all’indomito combattente di Lille.

L’obiettivo degli “yankee” era ora impedire ad ogni costo che le altre Nazioni-colonia europee ed extra europee seguissero l’esempio francese. Se ciò fosse accaduto, avremmo assistito al crac dell’intero sistema bancario statunitense. Così, fedele al motto “muoia Sansone con tutti i Filistei” o, se preferite, al perverso adagio del “tanto peggio tanto meglio”, la manovra statunitense dell’abolizione della convertibilità oro-dollaro innescò una perniciosa depressione economica a livello mondiale, che ebbe il suo culmine nel biennio 1973-1975 e che richiamò alla mente la grande crisi degli anni trenta, che gli Usa, allora, cercarono di superare attraverso il massiccio ricorso all’industria bellica. Grazie alla trappola di Pearl Harbour tesa ai giapponesi, il presidente Roosevelt riuscì a ingannare lo stesso popolo americano e a fargli digerire, con “democratica” impudenza, l’entrata Usa nell’immane conflitto, che, a parole, aveva ipocritamente aborrito nel suo programma elettorale (“non una goccia di sangue di giovani americani sarebbe stata versata nel conflitto in corso in Europa e nel mondo”). Vano fu anche il tentativo di Ezra Pound, dall’aprile al luglio del 1939, di dissuadere Roosevelt dal gettare l’America nella guerra mondiale.

La caduta del muro di Berlino e l’implosione dell’impero sovietico, al di là della retorica fuorviante e dei falsi propositi di libertà e di giustizia sociale per i popoli d’Europa, hanno al contrario determinato il trionfo indiscusso della cupola plutocratica liberista, che sta ora portando a termine il suo disegno di dominio incontrastato sull’economia mondiale, grazie anche alla totale genuflessione e sottomissione della classe politica (di centro, di destra e di sinistra) agli interessi delle forze dominanti. Si è così profeticamente avverata l’arguta sentenza dello stesso Pound: “I politici sono camerieri dei banchieri”.