Il simbolismo del teatro
Abbiamo equiparato la confusione di un essere con la sua manifestazione esteriore e profana, a quella che si commetterebbe se si volesse identificare un attore con un personaggio di cui egli interpreti la parte; per far capire a qual punto il paragone sia esatto non saranno qui fuori luogo alcune considerazioni generali sul simbolismo del teatro, anche se esse si applicano alle realtà della sfera propriamente iniziatica non esclusivamente per quel che riguarda il solo teatro. È ovvio infatti che un simbolismo simile può essere attribuito al carattere originario delle arti e dei mestieri, i quali tutti possedevano un valore di tal genere per il fatto di essere ricollegati a un principio superiore dal quale procedevano quali applicazioni contingenti, e sono diventati profani — come abbiamo spiegato assai di frequente — soltanto in conseguenza del decadimento spirituale dell’umanità lungo il corso della marcia discendente del suo ciclo storico.
Si può dire, in linea generale, che il teatro sia un simbolo della manifestazione, della quale esprime nel modo più perfetto possibile il carattere illusorio [1]; e questo simbolismo può essere considerato vuoi dal punto di vista dell’attore, vuoi da quello del teatro stesso. L’attore è un simbolo del «Sé», ovvero della personalità, che si manifesta attraverso una serie indefinita di stati e di modalità, i quali possono essere riguardati come altrettante parti diverse; ed è da rilevare l’importanza che aveva l’antico uso della maschera per la perfetta esattezza di questo simbolismo [2].
Sotto la maschera l’attore rimane infatti se stesso nel corso di tutte le sue parti, così come la personalità è «intoccata» da tutte le sue manifestazioni; l’abolizione della maschera, al contrario, obbliga l’attore a modificare la propria fisionomia e sembra così alterare in certo qual modo la sua identità essenziale. In ogni caso, tuttavia, l’attore rimane in fondo qualcosa di diverso da quanto sembra essere, così come la personalità è qualcosa di diverso dai molteplici stati manifestati, che non sono se non le apparenze esteriori e mutevoli delle quali si riveste per realizzare, secondo i modi diversi che si adattano alla sua natura, le indefinite possibilità che essa contiene in se stessa nella permanente attualità della non-manifestazione.
Passando all’altro punto di vista, possiamo dire che il teatro è un’immagine del mondo: sia l’uno che l’altro sono propriamente una «rappresentazione», poiché il mondo stesso, il quale non esiste se non come conseguenza ed espressione del Principio, da cui dipende essenzialmente per tutto quel che è, può essere inteso come un simbolo, al suo livello, dell’ordine principiale, e tale carattere simbolico gli conferisce inoltre un valore superiore a quello che esso non abbia di per se stesso, perché è in simile modo che partecipa di un grado di realtà più elevato [3].
In arabo il teatro è indicato con la parola tamthîl, la quale, come tutte quelle che derivano dalla comune radice «mathl», ha il significato proprio di rassomiglianza, confronto, immagine o raffigurazione; e alcuni teologi musulmani si servono dell’espressione âlam tamthîl, che si potrebbe tradurre con «mondo figurato» o con «mondo di rappresentazione», per indicare tutto ciò che, nelle Scritture sacre, viene descritto in termini simbolici e non deve essere inteso nel senso letterale.
È da notare specialmente come taluni di essi applichino in particolare tale espressione a ciò che ha qualche attinenza con gli angeli e con i demoni, i quali «rappresentano» effettivamente gli stati superiori e inferiori dell’essere, e di fatto non possono evidentemente essere descritti se non in modo simbolico con termini presi dal mondo sensibile; e — per una coincidenza per lo meno curiosa — è conosciuto d’altro canto il ruolo notevole che precisamente avevano angeli e demoni nel teatro religioso del medioevo occidentale.
Il teatro, in effetti, non necessariamente deve limitarsi a rappresentare il mondo umano, vale a dire un solo stato di manifestazione; esso può anche rappresentare i mondi superiori e inferiori. Nei «misteri» medievali la scena era, per questa ragione, divisa in piani diversi, che corrispondevano ai differenti mondi, generalmente ripartiti secondo una divisione ternaria: cielo, terra, inferno; e l’azione che si svolgeva simultaneamente in tali differenti divisioni rappresentava appropriatamente la simultaneità essenziale degli stati dell’essere. I moderni, che non comprendono più nulla di un simile simbolismo, hanno finito con il ritenere una «ingenuità» — per non dire una balordaggine — quel che qui aveva invece il senso più profondo; ed è stupefacente la rapidità con cui si è prodotta tale incomprensione, che è così rimarchevole negli scrittori del secolo XVII; simile radicale frattura tra la mentalità del medioevo e quella dei tempi moderni non è certo uno degli enigmi minori della storia.
E poiché abbiamo parlato dei «misteri», crediamo non inutile segnalare la peculiarità di tale denominazione dal duplice significato: [in francese la loro grafia è mystères] mentre a rigor di termini etimologici bisognerebbe scrivere mistères, poiché la parola deriva dal latino ministerium, che significa «ufficio» o «funzione», il che indica chiaramente a qual punto le rappresentazioni teatrali di questo tipo fossero in origine considerate far parte integrante della celebrazione delle feste religiose [4]. Ma ciò che è strano è che tale nome si sia contratto e abbreviato in modo da diventare esattamente un omonimo di mystères, e da essere alla fine confuso con quest’altra parola, di origine greca e dalla derivazione completamente diversa; sarà soltanto per allusione ai «misteri» della religione, messi in scena nelle rappresentazioni di questo nome, che ha potuto prodursi tale assimilazione?
Può darsi che questa sia una ragione abbastanza plausibile; ma secondo un’altra prospettiva, se si pensa che rappresentazioni simboliche analoghe avevano luogo nei «misteri» dell’antichità, in Grecia e probabilmente anche in Egitto [5], si può aver la tentazione di vedere in tale fatto qualcosa che risale a molto prima, e quasi il sintomo della continuità di una certa tradizione esoterica e iniziatica che si manifesta all’esterno — a intervalli più o meno distanti l’uno dall’altro — con forme e caratteristiche simili, e con l’adattamento richiesto dalla diversità delle circostanze di tempo e di luogo [6].
Ci è del resto toccato abbastanza sovente segnalare, in altre occasioni, l’importanza — quale procedimento del linguaggio simbolico — delle assimilazioni fonetiche tra parole filologicamente distinte; si tratta di qualcosa che in verità non presenta nessuna caratteristica di arbitrarietà, checché ne possano pensare la maggior parte dei nostri contemporanei, e si apparenta abbastanza direttamente con i modi di interpretazione che fanno capo al nirukta indù; senonché i segreti della costituzione intima del linguaggio sono oggi a tal punto perduti che è a malapena possibile fare allusione a essi senza che tutti pensino che si tratti di «false etimologie», o addirittura di banali «giochi di parole», e lo stesso Platone, il quale ha talvolta fatto ricorso a questo genere di interpretazioni — come incidentalmente abbiamo segnalato a proposito dei «miti» — non trova grazia di fronte alla «critica» pseudo-scientifica di menti limitate dai pregiudizi moderni.
Per terminare queste poche osservazioni, segnaleremo ancora, nel simbolismo del teatro, un altro angolo visuale, quello che si riferisce all’autore drammatico: i diversi personaggi, quali altrettante produzioni mentali di quest’ultimo, possono venir considerate rappresentare sue modificazioni secondarie e in certo qual modo suoi prolungamenti, più o meno come accade per le forme sottili prodotte nello stato di sogno [7]. La stessa osservazione si attaglierebbe del resto alla produzione di qualsivoglia opera d’immaginazione, di qualunque genere si tratti; senonché, nel caso specifico del teatro, di speciale c’è questo, che tale produzione viene realizzata in modo sensibile, dando l’immagine vera e propria della vita, così come accade nel sogno.
L’autore ha perciò, a tal riguardo, una funzione veramente «demiurgica», dal momento che produce un mondo che trae tutto da se stesso; e in questo egli è il simbolo vero e proprio dell’Essere che produce la manifestazione universale. In questo caso, come in quello del sogno, l’unità essenziale del produttore delle «forme illusorie» non è influenzata da simile molteplicità di modificazioni accidentali, alla stessa stregua dell’Essere che produce la manifestazione, l’unità del quale, neppure essa, è influenzata dalla molteplicità della manifestazione. Per cui, da qualsiasi punto di vista ci si ponga, si ritrova sempre nel teatro quel carattere che è la sua ragione profonda — per quanto ignorata essa sia da coloro che l’hanno ridotto a qualcosa di puramente profano — carattere che è quello di costituire — per sua stessa natura — uno dei simboli più perfetti della manifestazione universale.
Note:
[1] Non diciamo irreale; va da sé che l’illusione deve essere considerata soltanto una minore realtà.
[2] È del resto il caso di segnalare che tale maschera si diceva «persona» in latino; la personalità è — letteralmente — quel che si nasconde sotto la maschera dell’individualità.
[3] È sempre la visione del mondo, vuoi in quanto riferito al Principio, vuoi soltanto inteso per quel che esso è di per se stesso, che costituisce la differenza fondamentale tra il punto di vista delle scienze tradizionali e quello delle scienze profane.
[4] Ugualmente da ministerium, nel senso di «funzione», deriva d’altronde la parola «mestiere», come abbiamo segnalato in un’altra occasione (R. Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, cap. VIII).
[5] A simili rappresentazioni simboliche si può inoltre ricollegare direttamente la «messa in azione» rituale delle «leggende» iniziatiche delle quali abbiamo parlato prima.
[6] L’«esteriorizzazione» in modo religioso, nel medioevo, può essere stata la conseguenza di un adattamento di questo genere; essa non costituisce perciò un’obiezione valida contro il carattere esoterico di tale tradizione in sé e per sé.
[7] Cfr. R. Guénon, Gli Stati molteplici dell’Essere, cap. VI.
tratto da Considerazioni sull’iniziazione