Otto questioni prioritarie per una scuola al servizio del paese

01.11.2016
In questa seconda analisi dedicata alla scuola italiana da Katehon ecco individuate otto questioni prioritarie sulle quali intervenire per scommettere concretamente sul futuro del paese e sulle nuove generazioni

In una precedente riflessione sul tema della scuola il concetto di interesse nazionale è stato individuato come un elemento di realismo su cui fondare la progettazione dell’istruzione pubblica. La politica concreta ha obiettivi chiari, stabilisce priorità e definisce con onestà intellettuale i tempi in cui gli obiettivi si ritengono raggiungibili. Perciò è necessario uno sforzo, almeno argomentativo, per chiarire cosa si intende per interesse nazionale e modi e tempi del suo perseguimento.

La scuola è una macchina che non si ferma e ogni intervento opera su attività in corso: qualsiasi visione strategica deve fare i conti con l’urgenza di obiettivi di breve o medio termine da raggiungere. Fissando questa prospettiva, ritengo che su quattro questioni urgenti sia chiaro quale sia il nostro interesse pubblico, da perseguire potenziando interventi già in atto: la valutazione della scuola; la lotta alla dispersione scolastica; la razionalizzazione dell’organico dei docenti; l’internazionalizzazione della didattica.

Valutazione della scuola

I sistemi di valutazione della scuola, nazionali e internazionali, sono spesso oggetto di feroci critiche da parte di chi opera nell’ambito dell’istruzione. Non biasimare il principio della valutazione, denunciando solo la fallacia dei suoi meccanismi, sposta di poco il problema. Resta il fatto che rilevazioni internazionali come i test Ocse Pisa o le prove nazionali Invalsi sono ad oggi un dato di fatto, frutto di un lavoro che, se visto dall’interno, risulta razionale e interessante. Se negli anni queste prove si sono guadagnate un’autorevolezza che indirizza le scelte politiche e conferisce credibilità, non solo al settore dell’istruzione, ma addirittura al sistema-paese, è certamente contro l’interesse nazionale non perseguire il miglior risultato possibile, a causa di frizioni e scarsa programmazione all’interno delle istituzioni scolastiche. Buoni risultati nei test internazionali accreditano un paese e ne accrescono il peso politico; risultati omogenei nei test nazionali descrivono un sistema dell’istruzione che garantisce a tutti i cittadini un dignitoso livello di istruzione. Purtroppo, nonostante qualche segnale di inversione di tendenza negli ultimi test del 2015, i test misurano un deficit culturale italiano di cui è difficile negare l’esistenza.  L’applicazione di conoscenze matematiche, anche di base, e la comprensione e produzione di un testo, ci vedono indietro rispetto ad altri paesi avanzati: disaggregando i dati, si nota che appena si esce dai percorsi di studio liceali i risultati crollano. Forte resta il gap tra nord e sud, tra aree ricche e povere del paese. Il potenziamento dei percorsi di studio tecnico professionale è un obiettivo di medio termine prioritario. Per questo obiettivo la figura del dirigente scolastico risulta la prima leva che può funzionare: è nelle sue mani la responsabilità di abbattere le cattive consuetudini che ancora inquinano molte realtà scolastiche del nostro paese; è suo il compito di motivare i docenti alla migliore prestazione possibile. L’omogeneizzazione territoriale dei livelli di istruzione non è invece obiettivo perseguibile nel breve periodo, troppe le variabili di contesto che agiscono e altri sono i percorsi di azione.

Lotta alla dispersione scolastica

Non è solo retorica l’enfasi che si usa nella lotta alla dispersione scolastica: lo slogan “non uno di meno” può risultare stucchevole in una scuola in cui i pezzi si perdono eccome, ma di fatto  la necessità di includere nel percorso dell’istruzione quanto più ragazzi possibile è una priorità. Negli ultimi anni le scuole si sono dotate  di staff che lavorano per l’orientamento degli studenti: in ingresso, in itinere ed in uscita. La prima fase è una necessaria presentazione dell’istituzione scolastica, tesa a chiarire l’offerta formativa, e in quanto tale deve richiedere il categorico imperativo dell’onestà intellettuale; l’ultima fase è troppo spesso gregaria dell’accesa lotta che gli atenei si fanno per guadagnare iscritti. Fondamentale, ma anello debole fortemente da potenziare, è l’orientamento degli studenti durante gli anni di studio: con la collaborazione delle famiglie andrebbero modificate le scelte sbagliate, premiate le attitudini latenti che si manifestano quando il percorso scolastico è già intrapreso, calibrate le scelte nei casi di capacità o competenze limitate. Le scuole dovrebbero collaborare per gestire insieme gli spostamenti degli studenti, ricollocandoli nei percorsi e nei livelli più adeguati alle loro necessità culturali. Per fare ciò è necessaria una programmazione: calendarizzare precise finestre temporali di trasferimento all’interno di reti di scuole di uno stesso territorio, di diversa tipologia, che siano collaborative e non competitive; ribadire le competenze necessarie per tali trasferimenti, come da indicazioni ministeriali, ma soprattutto fornire strumenti reali per possederle, senza sanatorie. Ecco il mestiere degli orientatori in itinere, che possono nel loro piccolo contribuire ad un fondamentale interesse comune.

Razionalizzazione dell’organico dei docenti

Razionalizzare l’utilizzo dell’organico docente è un processo di lungo periodo e la programmazione si scontra anche con alcune variabili ineliminabili: la sovrapposizione di tanti diritti acquisiti, l’ovvia considerazione che non si può obbligare le persone più valide a fare gli insegnanti, le dinamiche demografiche e le scelte degli studenti che modificano le necessità di organico. Premesso questo, nel breve periodo un paio di interventi sono attuabili, e in questi casi il soggetto responsabile è proprio la politica, quello esecutore l’amministrazione pubblica: il governo, il ministero di Viale Trastevere e gli uffici scolastici regionali. Non tornare indietro di vent’anni, piuttosto avanzare nello sforzo di programmare e calendarizzare tutti gli atti amministrativi necessari all’inizio delle scuole a pieno organico. Una scuola vuota, senza docenti, per mesi, è un danno per il paese, un pericolo per gli studenti. Troppi ritardi quest’anno, per cui è chiaro che la politica non ha svolto il suo ruolo di motore propulsore della macchina burocratica. Anzi, l’ha ingolfata. Non farlo è una priorità. Ancora politica deve essere la decisione di perseguire l’idea che il docente è una figura professionale in grado di lavorare su tutto il territorio nazionale: con contratti prolungati – e buono in questo caso è l’attuazione dei contratti triennali – ma con una certa flessibilità. I fenomeni di docenti che prendono servizio  e spariscono all’indomani, magari legittimamente, procurano lacerazioni nel corpo docente che pregiudicano la tenuta del sistema, che si smaglia. Come per qualsiasi altro mestiere la priorità deve essere il bisogno di un servizio: dove ci sono studenti devono esserci docenti. Razionalizzare gli organici significa dare a tutte le classi i propri professori, anche a costo di limare qualche diritto acquisito, operazione possibile con trasparenza ed equità.

Internazionalizzazione della didattica.

Un limite del nostro paese, spesso biasimato, è una endemica tendenza al provincialismo: troppo isolamento o eccessiva esterofilia. Negli ultimi anni molto si muove, perché le nuove generazioni hanno un approccio più dinamico e le politiche comunitarie hanno generato un bisogno di esperienze all’estero che può essere utilmente soddisfatto. Interessante leggere, per esempio, che crescono i progetti del programma Erasmus +, rivolto alle scuole superiori, approvati agli istituti scolastici italiani, ben 71 per il 2016. Numerose scuole propongono il conseguimento di un diploma riconosciuto in partenariato con un altro sistema scolastico europeo; le esperienze di viaggio all’estero si tramutano in più formativi scambi culturali; anche i docenti si proiettano su uno scenario quantomeno europeo, elaborando progetti che concorrano ai bandi dei programmi comunitari per l’istruzione. Altra novità è l’insegnamento di alcune discipline non linguistiche in lingua straniera, perlopiù in inglese, almeno nelle classi terminali del percorso di studi superiore: il cosiddetto CLIL. Il progetto è strategico per preparare a scelte universitarie ambiziose su scala internazionale; nel frattempo, però, esiste un duplice rischio: visto il livello mediocre delle competenze in lingua straniera della media di docenti (non di lingue) e studenti, si genera un progressivo impoverimento della didattica, per eccessiva semplificazione del messaggio, in materie scientifiche e storico-sociali; contemporaneamente, si afferma la progressiva perdita di potenzialità comunicativa della lingua italiana in settori avanzati della conoscenza. Un vulnus non da poco per un paese che vuole sentirsi protagonista. Solo l’innalzamento delle competenze linguistiche generali, nella lingua madre e nelle lingue straniere, può dare validità a questa attività. Non sarebbe ora, per la politica, di programmare risorse per un sostegno alle famiglie per la formazione linguistica dei bambini fin dall’infanzia? Non sarebbe una scelta, lungimirante, di interesse pubblico?

Proprio riflettendo su scelte lungimiranti, un altro capitolo di questa analisi deve essere riservato a quelle azioni che non possono programmarsi nell’oggi, soprattutto perché non danno risultati immediati. Anche qui provo a focalizzare l’attenzione su quattro interventi a lungo termine: l’edilizia scolastica, la formazione dei docenti, i programmi scolastici e l’identità culturale.

Edilizia scolastica

Non solo ristrutturare e consolidare le vecchie scuole: in molti casi costerebbe meno abbattere e costruirne di nuove. Poche le risorse oggi, poche anche domani, ma uno stato, come una famiglia, deve saper trovare i mezzi per le cose importanti. Scuole sicure, energeticamente efficienti, con spazi funzionali moderni e digitalizzati, e belle, nella loro semplicità e nel loro decoro. Sicurezza, funzionalità, estetica. Scuole utilizzabili tutto il giorno, anche per ammortizzare alcuni costi di gestione; scuole come polo di servizi culturali e amministrativi. Scuole fatte di identità, che marchino la presenza di un impegno pubblico su un territorio. Un lavoro di due decenni, da blindare politicamente. Ma che ridarebbe un tono, come una nuova fibra muscolare, ad un intero paese.

Formazione dei docenti

I PdM, piani di miglioramento dei docenti, esistono da un anno e sono individuali. Le proposte di formazione docenti pure. L’idea di fondo, non nuova, è la necessità di aggiornamento del docente: sacrosanta. A corredo di questa, il diritto alla libertà di insegnamento, che giustifica anche la piena libertà di scelta sul come aggiornarsi e migliorarsi: inferenza che non condivido. Ogni docente può scegliere come migliorarsi e nessuno può impedirlo: ciò non significa che le necessità delle pubblica istruzione non debbano imporre un massiccio piano di formazione strutturato dall’alto. Se davvero si vuole sperimentare una nuova metodologia didattica, l’amministrazione ha il dovere di formare tutti i suoi operatori, anche se questi hanno la libertà di non adottare tale novità. L’uso delle nuove tecnologie, la didattica per competenze, la didattica cooperativa, la formazione linguistica, l’aggiornamento delle conoscenze (troppo spesso trascurato) non possono essere scelte opzionali: il programma di formazione del docente deve essere un piano nazionale omogeneo, non una serie di opportunità da cogliere o no. E nemmeno il sistema della premialità legata all’aggiornamento funziona, a causa sia dell’esiguità di tali incentivi, sia dell’inconsistenza di certi percorsi di aggiornamento a buon mercato esistenti solo sulla carta. I professori hanno necessità importanti, perché il mestiere è difficile: è anche un mestiere deontologicamente destrutturato perché troppo è lasciato all’improvvisazione e alla personale inclinazione. Un progetto sul lungo periodo con un fine ambizioso: delineare la figura professionale di un docente capace di andare incontro allo studente, senza infantilizzarsi, per portalo con sé, attraverso lo studio, con rigore, in un mondo che sta fuori dalla scuola. Solo a questo punto professionista da premiare anche economicamente,  segnale di dignità per un intero paese.

Programmi scolastici

I programmi scolastici sono stati sostituiti da indicazioni nazionali, meno stringenti, concepite come un enorme tessitura di conoscenze e competenze, in parte rimodulabili dai singoli istituti, dai dipartimenti, dai docenti. Tutto ciò non basta: ci vorrebbe coraggio politico e culturale per fare delle scelte nuove, selettive. Tagliare dei contenuti e inserirne altri, eliminare le ridondanze caratteristiche dei nostri percorsi scolastici, rileggere intere parti delle nostre programmazioni alla luce di interessi contemporanei, risemantizzare lo studio del passato come esercizio di impostazione e risoluzione di problemi. Interessi contemporanei sono senz’altro i settori strategici della nostra economia nazionale: l’industria di precisione e le nuove tecnologie, l’energia, le infrastrutture e le telecomunicazioni, l’agroalimentare, il turismo. I saperi insegnati a scuola troppo spesso non mostrano legami, che pur ci sono, con queste realtà: soprattutto nelle scuole superiori questi link non possono più restare impliciti o rimandati. La scuola si deve allacciare alla realtà attraverso collegamenti culturalmente robusti. Anche l’avvenuta introduzione dell’alternanza scuola lavoro obbligatoria deve essere pensata come complemento di questo progetto: programmando esperienze qualificate e non semplice manovalanza. Un lavoro culturale immane, sul quale impegnare le migliori energie intellettuali del paese, non solo lo zelo di qualche funzionario: soprattutto per quanto riguarda le materie scientifiche, che dovrebbero permettere allo studente di masticarlo, digerirlo e trasformarlo il mondo, piuttosto che subirlo; e per le discipline storico sociali, restituendo una presenza viva nella scuola anche ai temi politici, e geopolitici, grandi assenti dalla formazione di qualsiasi giovane italiano.

Identità culturale

Ultima azione, ma fondamentale, la ricostruzione di un’identità civile di un paese infiacchito da cinismo e sentimentalismo, due facce della stessa medaglia. Tocca alla cultura, agli intellettuali vigili di questo paese, sostenere e aiutare la scuola nello sforzo di ridare entusiasmo alle prossime generazioni. Come? Illudendo? No. Senza profezie o ammaliatori. Addomesticando? Nemmeno. Non con un’istruzione debole basata su un anemico catechismo civile, non imparando a memoria gli articoli della Costituzione (qualcuno vale pure saperlo però), non solo con il culto astratto di personalità virtuose, ma con un profondo esercizio sulle persone, docenti e studenti insieme, che nelle lunghe ore passate a scuola si può fare. Se il nostro è il paese dalla bella lingua, dalla tradizione estetica più nobile del pianeta, dalla natura luminosa, l’idea di giustizia non può separarsi da quella di bellezza. Questa la nostra identità culturale. Tale senso delle bellezza è un patrimonio pubblico, davvero un interesse strategico per il quale spendere le migliori energie. E non si paventino le minacce di un maledetto estetismo. Qui si tratta di coltivare la sfida di rimettere nelle vene dell’organismo pubblico, tra la gente, la voglia di godere, e ridico godere, del proprio gusto, del proprio senso di grandezza, della bellezza della propria opera, e di quella degli altri, soprattutto quando questa costa fatica, sacrificio, rinuncia. Una ricchezza privata che diventa pubblica, un’energia spirituale che ripaga l’impegno in uno sforzo comunitario. E questa energia, questo sangue nuovo, la infondono solo la letteratura e le arti. E queste cose, a scuola, si fanno.