IL KATECHON NEGATIVO TRA SACRO E POTERE: L’AGONIA DELL’IMPERO AMERICANO E IL NUOVO NOMOS DELLA TERRA

26.07.2018

Il sacro [...] è un potere particolare, dai mille nomi e volti, che rimandano

però e celano il mistero stesso del potere, e cioè la forza. 

[G.   Filoramo[1]

1.   Carl Schmitt «inattuale»?*

A un anno di distanza dal drammatico e controverso attentato alle torri gemelle consumatosi a New York Tll settembre 2001, Carlo Galli pronunciava una vera e propria omelia funebre sul pensiero di Carl Schmitt (1888-1985): ormai, affermava, «sono in generale tutte le tesi politologiche di Cari Schmitt a trovarsi spaesate [...] nel contesto postmoderno della globalizzazione», al punto che «certo si deve riconoscere che la guerra globale comincia dove la teoria politica schmittiana si esaurisce [2]. Una posizione che l’illustre politologo, seguito da molti altri, avrebbe costantemente ribadito negli anni successivi, incentrata sulla presunta intrinseca inadeguatezza del pensiero del giurista tedesco rispetto al fenomeno della globalizzazione - inteso come radicalmente discontinuo rispetto alla modernità, della quale soltanto Schmitt fu l’interprete, e fenomeno perciò interamente inedito, rispetto al quale tutte le categorie schmittiane risulterebbero inapplicabili[3] -, con ciò dimenticando che l’età moderna si caratterizzò storicamente, tra il resto, proprio per il fatto che essa si aprì con la prima globalizzazione (le scoperte geografiche e l’espansione europea nelle Americhe, in Africa, in India, Cina e Giappone) e si chiuse con una seconda ondata globalizzatrice, quella del colonialismo. Una medesima ansia liquidatoria, e seppur in prospettiva diversa, nei confronti di Schmitt e del sempre ricorrente - perché ineludibile - problema della teologia politica, è emersa negli ultimi anni come prosecuzione di posizioni critiche assai risalenti nel tempo anche in interpreti acuti come Massimo Cacciari[4] e Roberto Esposito[5].

Rinviando ad altra sede un confronto critico con le posizioni sopra segnalate, nelle quali il teorema della liquidazione di Schmitt appare in larga misura il frutto avvelenato di due differenti e gravi equivoci - un insufficiente approfondimento delle stesse categorie schmittiane, soprattutto in chiave storica, per un verso, e per un altro verso un’analisi del tutto astratta e straordinariamente carente della situazione attuale nei suoi concreti aspetti storici, politici, economici e strategici - merita invece brevemente tornare a riflettere, proprio a partire da Schmitt, sul significato possibile del nostro tempo, sul senso teologico-politico di ciò che sta «sous nos yeux»[6].

2.   Un concetto dimenticato: il katechon negativo

Uno dei concetti più frequentati dagli studiosi e interpreti di Schmitt è certo quello di katechon, intorno al quale si è sviluppata una ricca letteratura [7]. Com’è noto, il termine è riferito ai passi molto enigmatici di Paolo, 2Ts, 2, 6-7, in cui si allude a qualcosa o qualcuno che trattiene, o contiene o frena, il «mistero dell’iniquità», in precedenza indicato come «uomo deU’anomia», «figlio della perdizione», 1’«Avversario, colui che si innalza sopra ogni essere che vien detto Dio e come Dio è venerato, fino a insediarsi nel tempio di Dio e a mostrare se stesso come Dio» (2Ts, 2, 3-4).

È noto che si deve proprio a Cari Schmitt la riscoperta e la reintroduzione nel dibattito giuridico, filosofico e politico contemporaneo dell’enigmatico concetto paolino di katechon, altrimenti del tutto dimenticato e sepolto da secoli. La riflessione di Schmitt sul katechon, iniziata, come scrisse egli stesso, nel 1932 e protrattasi fino almeno al 1977[8], deve essere collocata nell’ambito più generale del suo pensiero sulla teologia politica, di cui rappresenta un aspetto molto particolare, a sua volta connesso con la riflessione sul diritto internazionale, sulla geopolitica e sul problema dell’ordinamento del mondo, cioè sul «nomos della terra». Come per la teologia politica, è possibile osservare che le concezioni di Schmitt sul katechon variano nel tempo, trattandosi - nell’uno come nell’altro caso - di acquisizioni provvisorie di un pensiero in divenire che non si risolve mai interamente nelle singole posizioni che assume in un determinato periodo o contesto e nemmeno nella semplice sommatoria di esse - come sembra invece intendere Galli nella sua riduttiva ipotesi di tipologia della teologia politica schmittiana[9].

Senza poter qui ovviamente affrontare problemi così complessi e articolati, si intende in questa sede attirare l’attenzione su un aspetto molto trascurato della ricerca schmittiana sul katechon - il concetto, e la figura, di “katechon negativo”[10 - per riprenderlo in una prospettiva di ermeneutica storica applicata al tempo presente, tentando di evidenziare la crescente attualità e utilità della riflessione di Schmitt di contro alla pretesa sua inadeguatezza nel rispondere alle sfide dell’era globale.

Il concetto di katechon si affaccia per la prima volta negli scritti pubblici di Schmitt in un saggio del 1942, Acceleratori involontari, ovvero: la problematica dell’emisfero occidentale”[11, e, curiosamente, secondo una modalità che non si ripresenterà mai più in seguito. Si può certo ipotizzare che la sua riflessione sul tema del katechon - innovativa e in sostanza solitaria nel contesto del suo tempo - fosse allora solo agli inizi e che gli sviluppi successivi costituissero anzitutto per lo stesso Schmitt delle tappe o delle occasioni per meglio precisare il proprio pensiero, e che di conseguenza le affermazioni del 1942, in quanto espressione di uno stadio superato, non venissero più riprese proprio perché non rappresentavano più il pensiero del loro autore. Di contro, tuttavia, occorre ricordare che, secondo la sua stessa testimonianza, Schmitt aveva iniziato ad interessarsi del problema del katechon già dieci anni prima, nel 1932, e che le pagine del 1942 avevano dunque dietro di sé un decennio di riflessioni. Inoltre, se Schmitt avesse ritenuto del tutto obsoleto o contrario al suo pensiero quanto scritto in quell’occasione, non avrebbe, molti anni dopo, nel 1983, ripubblicato il saggio del ’42.

Tuttavia, al di là delle intenzioni dell’autore, resta il fatto che, mai da lui smentite o rifiutate, le considerazioni sul katechon espresse nel 1942 sono rimaste ai margini tanto della sua riflessione successiva quanto dell’attenzione della critica[12]. Ciò che colpisce è il fatto che Schmitt, come si è accennato, affronti solo in Acceleratori involontari senza mai più ritornarci il tema, quanto mai arduo e sfuggente, dell'ambiguità del katechon, o meglio, della possibile ambiguità dell’azione katecontica in determinati contesti e situazioni, suscettibile di rovesciarsi nel suo esatto contrario pur conservando la propria apparenza: quest’ultima si rivela perciò ad una attenta analisi null’altro che una vera e propria maschera volta a coprirne - consapevolmente o meno - l’azione autentica.

3.   L ’America e le sue contraddizioni

Nelle pagine di Acceleratori involontari Schmitt analizzava il significato in chiave internazionalistica dell’entrata in guerra degli Stati Uniti dopo Pearl Harbor. Così, il senso dell’intervento americano stava «nella pretesa di fare propria e di proseguire la tradizionale egemonia mondiale britannica, basata su una potenza marittima, in forma di egemonia angloamericana sui mari e sul resto del mondo»[13]. Le premesse di tale politica mondiale Schmitt le rintracciava nelle dottrine dell’ammiraglio Alfred Tahyer Mahan (1840-1914), grande esperto americano di geopolitica e influente consigliere di Roosevelt, che aveva più volte affermato la necessità della riunificazione delle potenze anglosassoni sulla base della comune politica di potenza marittima. Mahan aveva tuttavia anche insistito al contempo sulla inadeguatezza della sola Inghilterra nel sostenere il peso di tale politica di egemonia mondiale, che doveva perciò essere proseguita - in una sorta di tacita quanto ineluttabile translatio imperii - dagli Stati Uniti a causa del loro intrinseco «carattere insulare», non geografico ma strategico, in quanto esenti da minacce di potenze militari terrestri (essendo circondati da oceani su due lati e controllando le inferiori potenze confinanti del Centro America e del Canada). Tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX la strada sarebbe così stata aperta, secondo Mahan, all’«egemonia marittima e mondiale angloamericana»[14]. Gli angloamericani di fatto detenevano «il più fantastico dei monopoli, ovvero il monopolio della custodia della libertà su tutta la terra», da cui traevano fondamento nel loro complesso gli altri elementi di quell’egemonia mondiale: «Mercato mondiale, commercio mondiale, oceani del mondo e il grande mito della libertà».

Schmitt proseguiva osservando che «Adesso tutto questo è finito» in quanto[15] 

Il motivo di fondo dell’attuale guerra mondiale sta proprio nell’opposizione a una simile egemonia mondiale universale e alla sua pretesa di valere come ordinamento del mondo. Contro l’universalismo dell’egemonia mondiale angloamericana si è imposta l’idea di una terra ragionevolmente ripartita in «grandi spazi» continentalmente interdipendenti.

Il significato stesso del conflitto mondiale era dunque da rintracciarsi nello «schiacciante dato di fatto che l’attuale guerra mondiale è una guerra per l’ordinamento dello spazio in grande stile, la prima guerra per l’ordinamento dello spazio di proporzioni planetarie» secondo «la nuova idea ordinativa e spartitoria» dei grandi spazi.

A questo punto, ritornando all’interrogativo di apertura, Schmitt si chiedeva se una simile guerra planetaria potesse essere «decisa» dall’America e ne analizzava la situazione geopolitica, mettendo in evidenza che l’America era «un continente lacerato da contraddizioni interne irrisolte [...], in sé incapace di prendere decisioni» e che pertanto «il suo intervento nel conflitto mondiale non fa che aumentare la confusione e gettare benzina sul fuoco di quell’incendio planetario da cui i popoli tormentati cercano disperatamente una via di scampo»[16].

Schmitt proseguiva approfondendo l’analisi della «intrinseca mancanza di decisione»[17] e contraddittorietà americana, osservando infine che «Da decenni [...] l’emisfero guidato dagli Stati Uniti vacilla tra tradizione e situation, tra isolazionismo e interventismo, neutralità e guerra mondiale, riconoscimento e non-riconoscimento di ogni nuova situazione» e concludendo - profeticamente, se si pensa ai successivi 70 anni della politica mondiale - che «Ogni tentativo di dare un nuovo ordine al pianeta partendo da un continente così lacerato trasformerebbe la terra nel campo di battaglia di una guerra civile mondiale»[18]. Senza esprimersi in modo esplicito, dunque, Schmitt lasciava tuttavia filtrare - certo anche influenzato dalla sua posizione non di nazista ma di tedesco fedele alla propria patria - un giudizio negativo sulle capacità dell’America di «decidere» da sola la grande guerra mondiale cui era sotteso il conflitto tra l’ordinamento imperiale del mondo di matrice anglosassone e l’ordinamento dei grandi spazi[19].

A questo punto il ragionamento di Schmitt poteva dirsi concluso. In modo piuttosto sorprendente, tuttavia, il giurista tedesco riprendeva l’analisi dell’oscillazione americana e della sua intrinseca indecisione per osservarla da un altro punto di vista, e il titolo stesso del suo saggio svelava così il suo significato.

4.   Caratteristiche e ambiguità delle «forze frenanti»

Nel riprodurre le caratteristiche politiche dell’«egemonia britannica sui mari e sul resto del mondo», Roosevelt e gli Stati Uniti agivano tuttavia «secondo il principio in base al quale si è coerentemente svolta l’esistenza politica del regno britannico nell’ultimo secolo»[20], durante il quale «l’Inghilterra era diventata il tutore di tutti i “malati”, a cominciare da quello che allora era il “malato del Bosforo” [l’impero ottomano] fino a maragià indiani e sultani di ogni specie». L’Inghilterra si era dunque «assunta il ruolo di grande rallentatore dello sviluppo storico universale, trovandovisi così incastrata». Essa si era infine trasformata «nell’ostacolo a ogni mutamento razionale, e in definitiva addirittura nel fattore frenante di ogni forte crescita», e sembrava che anch’essa non avesse potuto sottrarsi alla «legge universale di tutti gli imperi ormai invecchiati». Giunta a questo punto, l’analisi di Schmitt compiva un vero e proprio salto concettuale[21]:

Gli storici e i filosofi della storia dovrebbero prima o poi indagare e descrivere le diverse figure di «forze frenanti» (Aufhalter) e i diversi tipi di «rallentatori» (Verzögerer) della storia universale. Nella tarda antichità e nel Medioevo gli uomini credevano a una potenza misteriosamente frenante, che veniva designata con la parola greca “kat-echon” (tenere basso [niederhalten]), la quale impediva che la fine apocalittica dei tempi, matura già da un pezzo, sopraggiungesse.

Senza esplicitarlo, il rinvio di Schmitt era evidentemente ai versetti paolini della II Tessalonicesi, che la tradizione esegetica interpretava in prospettiva escatologico-apocalittica.

Nel seguito il giurista tedesco menzionava per accenni alcuni esempi di autori e dottrine che in vario modo riprendevano il tema della forza frenante e del rallentatore - Tertulliano, il Medioevo, Hegel, che per Nietzsche non fu altro che il «grande rallentatore e la grande forza frenante sulla via dell’autentico ateismo»[22] - fino a ipotizzare che «le forze frenanti e rallentanti possono prendere forma, in certo modo simbolico, anche in figure e personalità della storia politica» (e comparivano qui gli esempi dell’imperatore Francesco Giuseppe, del presidente ceco Thomas Masaryk e del maresciallo polacco Josef Pilsudski). Schmitt concludeva osservando che «Questi esempi bastano forse a indicare il senso politico e storico che può essere racchiuso nel ruolo del rallentatore».

Merita di passaggio notare che i temi cui Schmitt alludeva molto sinteticamente li avrebbe tutti ripresi in seguito, sia negli scritti pubblicati che nei diari privati: fatto che indica come già in occasione di questo suo primo intervento pubblico il giurista tedesco avesse molto chiari i concetti, i personaggi e i problemi su cui avrebbe concentrato l’attenzione in seguito[23]. Un dato, poi, occorre rilevare: la funzione indiscutibilmente positiva che Schmitt assegnava a tutti gli esempi citati, di cui il più significativo - e certo quello “chiave” - era costituito dal rinvio a san Paolo (il katechon «impediva che la fine apocalittica dei tempi [...], sopraggiungesse») e da quello alle dottrine tardoantiche e medievali sulla funzione dell'«imperium romanum» e poi di quello cristiano medievale come «il fattore che “tratteneva” Peone, determinando un rinvio della fine». Superfluo aggiungere che si trattava evidentemente di concetti teologico-politici, ovvero di concetti che trasferivano al piano storico-politico nozioni tipicamente teologiche.

Ma, se è evidente che per Schmitt quelle indicate erano tutte, pur in vario grado e modo, delle forze frenanti positive, la premessa delle sue analisi era stata tuttavia diversa e aveva preso avvio da un esempio di forza frenante negativa: l’impero britannico «nell’ultimo secolo», «tutore di tutti i malati» geopolitici e «ostacolo a ogni mutamento razionale» dei rapporti intemazionali. Ancora una volta senza esplicitarlo, Schmitt istituiva di fatto una duplice tipologia, e la conseguente comparazione, tra due grandi categorie - anche differenziate al loro interno - di rallentatori e di forze frenanti, simili in apparenza ma in realtà profondamente diverse.

L’analisi tornava così all’azione politico-militare di Roosevelt, che, «quando abbandonò il terreno dell’isolamento e della neutralità»[24], culminati appunto con l’entrata in guerra degli Stati Uniti, «si sottomise nolens volens al costitutivo orientamento frenante e rallentante del vecchio impero mondiale britannico», e ciò a causa del fatto che, con l’ingresso nel conflitto mondiale, gli Stati Uniti intervenivano precisamente contro l’emergente ordinamento del mondo secondo i grandi spazi e per riaffermare l’egemonia mondiale angloamericana, ovvero un ordinamento “unipolare”, secondo la terminologia attuale.

Tuttavia, aggiungeva Schmitt, tale attività negativamente frenante - perché in fondo appartenente ad una politica “vecchia” e irrazionale - era accompagnata da un movimento parallelo di segno opposto: Roosevelt «nel medesimo tempo però proclamò il “secolo americano”, per mantenere la traiettoria americana verso il nuovo e il futuro in cui si era mossa la stupefacente ascesa degli Stati Uniti nel XIX secolo»[25]. La conclusione di Schmitt era dunque coerente con questi presupposti. Infatti, se, in generale, anche dal punto di vista delle forze frenanti e dei rallentatori, emergeva Tintrinseca contraddittorietà politica degli Stati Uniti, in quanto «Anche in questo caso, quindi, come in tutti gli avvenimenti importanti della politica americana recente, il passo oscilla nelle profonde contraddizioni interne di un emisfero che ha perduto il proprio baricentro», nello specifico della situazione concreta - l’entrata in guerra dell’America - quella interna contraddizione era proprio ciò che faceva emergere la natura profonda di quell’azione apparentemente rallentante:

Sarebbe già molto se Roosevelt [...] fosse diventato uno dei grandi rallentatori e delle grandi forze frenanti della storia universale. Ma l'intrinseca assenza di decisione del suo modo di procedere impedisce non solo questo, ma ogni altro effetto concreto.

E l’osservazione conclusiva del suo articolo esplicitava il senso per la «storia universale» di quell’azione dall’apparenza frenante ma intrinsecamente contraddittoria:

È qui, invece che si compie il destino di coloro che, senza alcuna particolare autoconsapevolezza, avanzano con la loro nave nel vortice della storia. Questi non sono né grandi propulsori né grandi rallentatori, ma possono finire solo come acceleratori involontari.

Per Schmitt, proprio la contraddizione tra azione frenante negativa - di fatto irrazionale perché «ostacolo ad ogni mutamento razionale» - e tentativo di restare aperti «verso il nuovo e il futuro» impediva agli Stati Uniti (e al presidente Roosevelt) di incarnare il katechon e di esercitare una autentica forza frenante in senso positivo. Tuttavia, per tutto ciò e inoltre per la scelta di «proseguire sulla strada dell'egemonia britannica» mondiale - ovvero, una scelta eminentemente conservatrice, propria di un impero ormai invecchiato - anche restava preclusa all’azione americana la possibilità di svolgere il ruolo opposto, quello di un «grande propulsore» della storia universale.

Emergeva così una terza figura, un terzo idealtipo teologico-politico, quello dell’«acceleratore involontario». Il rallentatore negativo, la forza frenante negativa, caduta la maschera, in una catastrofica eterogenesi dei fini si rovesciava così nel suo opposto: in un fattore di accelerazione degli eventi. Privo tuttavia di direzione perché fondamentalmente in-deciso, oscillante e contraddittorio, esso esplicava un’azione accelerante «involontaria»: in quanto tale, e dunque in quanto intrinsecamente priva di autoconsapevolezza e di direzione, la sua azione non era produttiva di ordine ma solo di caos. L’esatto opposto del katechon, in senso paolino e medievale, produttore di ordine perché capace di trattenere e rinviare la fine apocalittica, il grande caos escatologico.

In tal modo Schmitt offriva un contributo, straordinariamente lucido, a quella indagine sulle diverse «figure di “forze frenanti”» e sui «diversi tipi di “rallentatori” della storia universale» che aveva assegnato come compito agli storici e ai filosofi della storia, ponendo con chiarezza il problema dell’ambiguità possibile della forza katecontica e della conseguente necessità di spingere più a fondo l’analisi.

5.   L '«impero americano» sotto i nostri occhi: un katechon negativo

Occorre a questo punto rilevare, dopo quanto osservato più sopra, che Schmitt, a ben vedere, in un certo senso azzeccava la diagnosi ma si sbagliava sulla prognosi: l’intervento americano nella seconda guerra mondiale, con la conseguente sconfitta della Germania (provocata in realtà sul piano militare in larghissima misura dalla sola Unione Sovietica) e del Giappone, avrebbe finito per bloccare sul nascere l’emergente ordinamento del mondo secondo il pluralismo dei grandi spazi, “congelandolo” e sancendo invece l’imposizione mondiale dell’ordinamento bipolare Usa-URSS - la cui intrinseca negatività, per Schmitt, sarebbe risieduta nel fatto che esso era quanto di più prossimo vi fosse all’instaurazione della temuta «unità del mondo», che per il giurista tedesco - nella prospettiva della filosofia della storia cristiana, ovvero in chiave implicitamente escatologica - non avrebbe potuto essere che una manifestazione del regno dell’Anticristo[26]. Senza riuscire a giungere, per tutto il tempo della cosiddetta Guerra fredda, ad una egemonia mondiale, gli Stati Uniti indubbiamente proseguirono la loro ascesa in vista proprio di quel traguardo - e certo con quell’obbiettivo strategico - per tutta la seconda metà del XX secolo, fino ad assaporare per alcuni anni, dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e il crollo dell’Urss, la vertiginosa sensazione di essere rimasti l’unica superpotenza mondiale e quindi di fatto l’Egemone universale. Se è opinabile che tale fosse la situazione reale, non vi è dubbio invece che una potente opera di propaganda abbia invaso il discorso pubblico dell’Occidente per oltre due decenni a partire dal 1989 per tentare di accreditare sul piano dell’immaginario collettivo proprio il concetto di un mondo finalmente unipolare sotto la guida, naturalmente benevola, dell’unica superpotenza rimasta, storicamente autodefìnentesi come la «nazione indispensabile», proiettata verso il «New American Century» proclamato dai neoconservatori americani alla fine del XX secolo. Molti elementi, tuttavia, emersi particolarmente negli ultimi anni, obbligano a un tentativo di riconsiderare gli attuali scenari geopolitici e teologico-politici secondo una diversa prospettiva.

Si potrebbe infatti anche osservare che la prognosi di Schmitt ricostruita in precedenza non era di fatto condizionata cronologicamente ad un futuro prossimo (anche se certo il suo autore pareva proporla in tal senso), bensì era in fondo una prognosi a-cronica, rimasta non in scacco ma come sospesa per oltre mezzo secolo e suscettibile di realizzarsi quando le condizioni della diagnosi si fossero esse stesse realizzate in modo più compiuto. Ed è in questa prospettiva di senso che merita riprendere in relazione all’attuale contesto intemazionale la figura del katechon negativo.

Anzitutto, per iniziare un’analisi, pur rapida, dell’attuale situazione degli Stati Uniti sul piano internazionalistico in una prospettiva di teologia politica occorre partire da alcuni dati, osservando anzitutto come i giudizi di Schmitt formulati nel 1942 siano ancor più validi oggi di allora e abbiano raggiunto un’evidenza pressoché assoluta:

Da decenni [...] l’emisfero guidato dagli Stati Uniti vacilla tra tradizione e situation, tra isolazionismo e interventismo, neutralità e guerra mondiale, riconoscimento e non-riconoscimento di ogni nuova situazione.

Anzi, occorre riconoscere che l’oscillazione rilevata da Schmitt si è andata di fatto alterando in una sorta di pan-interventismo soprattutto dopo il 1989, ancor più acceleratosi dopo i controversi attentati dell’11 settembre 2001, che hanno comportato l’aggressione militare americana in Afghanistan e Iraq (stati nei quali l’esercito americano è operativo ancora oggi), preceduta dall’intervento nell’ex-Jugoslavia, e una serie di interventi in cui la presenza americana si era esplicata in forma mediata ma non meno efficace: il sostegno ad Israele per l’aggressione al Libano nel 2006, la destabilizzazione della Tunisia e soprattutto della Libia, gli ambigui e falliti fenomeni delle «primavere arabe», il tentativo di distruzione della Siria e il golpe neonazista in Ucraina, oltre al perdurare del sostegno massiccio alla guerra dell’Arabia Saudita nello Yemen, fino all’attuale tensione con la Corea del Nord e quella, quasi altrettanto “calda”, con il Venezuela.

Altrettanto, il meccanismo del «riconoscimento e non-riconoscimento» di nuovi Stati o nuove situazioni geopolitiche - emblematico il caso della penisola di Crimea - è stato fatto valere in modosfacciato. In generale, le ambizioni egemoniche statunitensi si sono fatte via via più scoperte e aggressive, aumentando in pari misura le difficoltà della retorica ufficiale nel coprire sotto la maschera dell’«intervento umanitario» e della «pacificazione» quelle che non sono altro che iniziative di natura imperialistica.

Tuttavia, proprio la recente elezione del controverso presidente Trump ha introdotto elementi tali da rendere ancora più chiaro il quadro complessivo. Con Trump, almeno in teoria - ovvero secondo gli slogan del suo progetto politico - sembrava ritornare un tema del tutto classico della geopolitica americana: l’isolazionismo. Lo slogan America First era infatti stato inteso dagli elettori del nuovo Presidente come l’espressione della volontà di “riportare lo sguardo” dell’amministrazione americana, e dei molti centri di potere che la compongono, sugli Stati Uniti stessi, sui confini nazionali, ovvero sul paese e sul popolo americano, abbandonato a sé stesso da decenni sotto il profilo sociale (scuole, cure mediche, infrastrutture fatiscenti - strade, ponti, ferrovie, reti idriche, reti elettriche) e flagellato da una devastante crisi economica, con conseguente altissima disoccupazione e sottoccupazione, sempre più rapidamente avviata a divenire una crisi socioantropologica profonda. America First insomma pareva preludere ad un graduale disimpegno americano dai molti teatri geopolitici - il migliaio di basi militari sparse nei cinque continenti attestano la proiezione globale dell'egemonia americana così come l’enorme impiego di risorse economiche, materiali e umane - per riportare finalmente in primo piano i bisogni del popolo americano. Un simile mutamento di rotta - in sé davvero epocale - non solo non si è verificato (anche se molti segnali indicano che, tra fortissime opposizioni, viene lentamente portato avanti), ma, come è sotto gli occhi di tutti, ha sollevato la violenta reazione dei maggiori centri di potere statunitensi, fino a produrre una situazione di inaudito conflitto ai massimi vertici del potere americano, in cui entrambi i partiti repubblicano e democratico si sono uniti per delegittimare e tentare di destituire il Presidente in carica, di fatto in politica estera sottoposto al controllo del Congresso[27] e messo sotto tutela da una sorta di junta militare ma forte tuttavia di un ancor ampio sostegno popolare.

Con una chiarezza ben maggiore che in passato, le contraddizioni evidenziate oltre settant’anni fa da Schmitt tra «isolazionismo e interventismo, neutralità e guerra mondiale, riconoscimento e nonriconoscimento di ogni nuova situazione» sono riemerse, provocando una pericolosissima polarizzazione delle forze politiche americane e della stessa società americana, spaccata al suo interno e pervasa da fermenti di crescente ostilità tanto in senso orizzontale - bianchi contro neri, “libertari” contro sedicenti neonazisti etc. - quanto in senso verticale, ovvero di ampi settori sociali in sorda rivolta contro le fameliche e spietate élites del potere che si perpetuano da decenni. Se ben poco, in fondo, di tutto ciò traspare sui principali media europei e anche americani, si moltiplicano i commentatori indipendenti che registrano e segnalano allarmanti indizi del serpeggiare in strati sempre più ampi della società americana di un accumularsi di tensioni che molti ormai si spingono a definire come i prodromi di una - inaudita ma non sorprendente - prossima guerra civile.

Al tempo stesso molte delle basi imprescindibili del potere mondiale degli Stati Uniti sono, proprio in questi anni, scosse e corrose alle radici, prime tra tutte l’egemonia, fino a pochissimi anni fa del tutto indiscussa, del dollaro come moneta universale: da più parti, infatti, si studiano soluzioni alternative per gli scambi commerciali mondiali e alcune tra le principali materie prime - come il petrolio - iniziano ad essere trattate anche in monete diverse dal dollaro americano o sono sul punto di esserlo. Altrettanto, grandi associazioni - economiche, militari, commerciali - sono sorte del tutto svincolate dal controllo statunitense o delle altre istituzioni globali a guida americana. Basti pensare ai cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), che oltre a molteplici accordi commerciali hanno da alcuni anni iniziato a sviluppare una propria banca di investimenti, in evidente alternativa al Fondo Monetario Internazionale. O ancora alle importantissime associazioni - come l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai - che riuniscono i Paesi dell’Estremo Oriente e del centro Asia, sia a sfondo economico sia militare. Ovvia premessa di tali innovativi eventi è poi la forte crescita delle economie della Cina e dell’India così come di altri Paesi del Sudest asiatico, competitori sempre più efficaci delle economie occidentali.

Ciò che, insomma, si va delineando a velocità crescente proprio in questi anni è l’emergere di blocchi geopolitici più o meno coesi tutti decisi a sottrarsi all’egemonia americana: anzi, il fatto stesso del costituirsi, a livelli differenti e in aree geografiche diverse, di questi blocchi indica che quell’egemonia si è già indebolita al punto da non poter ostacolare la nascita di tali conglomerati di potere alternativi e sottratti al suo diretto controllo. Con ancor maggiore evidenza rispetto al 1942, dunque, quella che si sta già combattendo almeno dall’inizio del terzo millennio appare esattamente una «guerra per l’ordinamento dello spazio di proporzioni planetarie», in cui «Contro l’universalismo dell’egemonia mondiale angloamericana» si va di fatto imponendo «l’idea di una terra ragionevolmente ripartita in “grandi spazi” continentalmente interdipendenti». Non è dunque casuale né privo di fondamento che alcuni tra i maggiori protagonisti, sul versante russo, degli attuali rivolgimenti inizino a parlare apertamente di un’«era post-occidentale» il cui carattere specifico è proprio da rintracciarsi nell’emergere di un ordine mondiale multipolare, cui soprattutto gli Stati Uniti, e i loro più stretti alleati, continuano ad opporsi[28].

E proprio in quanto diretto a contrastare l’emergere di molteplici nuovi «grandi spazi» l’atteggiamento attuale degli Stati Uniti appare sempre più coincidere con quello che Schmitt attribuiva al vecchio impero inglese dell’Ottocento: se allora l’Inghilterra «era diventata il tutore di tutti i “malati”, a cominciare da quello che allora era il “malato del Bosforo”, fino a maragià indiani e sultani di ogni specie», oggi gli Stati Uniti sono sempre più i «tutori» di «tutti i “malati”» del nostro tempo, essendo gli indiscussi protettori di alcuni tra i regimi più oppressivi e fanatici del pianeta, prime tra tutti le monarchie petroliere del Golfo - e particolarmente l’Arabia Saudita, patria del fanatismo wahhabita - e “creando” essi stessi nuovi virulenti “malati” come l’Ucraina neonazista (spina nel fianco bipartisan tanto per la Russia quanto per l’Europa, che ottusamente ha assecondato i piani americani) fino ad essere, ormai scopertamente, all’origine delle recenti metamorfosi della galassia del cosiddetto «terrorismo islamico», sapientemente addestrato, rifornito e quindi sottoposto a ripetute operazioni di marketing mediatico sotto l’etichetta di «moderato» quando le sue azioni, per quanto atroci, risultano funzionali agli interessi occidentali (come le vicende in Siria hanno dimostrato oltre ogni dubbio).

«Tutore», dunque, «di tutti i malati», anche i più infetti e ributtanti, del nostro tempo, l’impero americano esibisce invece tutta la sua disumana ferocia contro chi tenta di sottrarsi alla sua egemonia o, peggio, intende arginarla e contrastarla. La distruzione di interi Stati - tutti senza eccezione collocati nello spazio geografico coinvolto nel grandioso progetto cinese «One beh one road» della «nuova via della seta», inteso a creare una enorme zona di interscambi commerciali resi possibili da gigantesche infrastrutture stradali e ferroviarie rivolte a collegare in un unico blocco pluralistico le sponde cinesi e il Mediterraneo -, con il «danno collaterale» di milioni di morti, di profughi, di malati e storpi, iniziata con l’Afghanistan e l’Iraq, proseguita in modo, si è detto, mediato, in Libia e Siria (dove però ha subito una cocente e potenzialmente decisiva battuta d’arresto), inequivocabilmente testimonia al «resto del mondo» che non è Occidente[29] la realtà della politica americana al di là delle falsificazioni mediatiche e delle ipocrisie retoriche dei governi occidentali.

Nell’insieme, questi elementi paiono indicare che gli Stati Uniti incarnano oggi, e in tutta evidenza, l’ambigua figura teologico-politica del katechon negativo.

6.   L ’«acceleratore involontario»: una maschera messianica

Si è visto che la lucida analisi di Schmitt del 1942 consente di mettere a fuoco con chiarezza due ordini di problemi. Anzitutto la posta in gioco, che consiste - oggi molto più di allora - precisamente, per gli Stati Uniti, nel tentativo di rallentare e frenare in tutti i modi l’emergere di un ordinamento globale ripartito in grandi spazi, che ovviamente minaccia di per sé l’egemonia imperialistica di matrice anglosassone così come si è consolidata sempre più nel corso degli ultimi settant’anni. In secondo luogo, Schmitt attirava l’attenzione sull’ambiguità possibile dell’azione katecontica e sulla natura, le cause e gli effetti di tale ambiguità. Su questo secondo aspetto occorre ora brevemente soffermarsi.

Si è rilevato che ciò che si propone qui di definire come katechon negativo Schmitt lo indicava come «acceleratore involontario», ovvero come quella forza o fenomeno storico che finiva per accelerare proprio quei processi che, con la sua azione, intendeva invece rallentare e frenare. L’azione frenante del katechon negativo - in quanto intrinsecamente contraria «ad ogni mutamento razionale» sul piano internazionalistico - appare dunque connaturata ad un aspetto fondamentalmente irrazionale (oltre che contraddittorio) che ne mina alla base l’efficacia e, si è più sopra rilevato, sembra costituire, almeno per Schmitt, la ragione della catastrofica eterogenesi dei fini cui dà luogo, ovvero il fatto che l’azione frenante in realtà si capovolga in un’accelerazione non voluta dei processi cui intende opporsi.

Merita tuttavia gettare un rapido sguardo sul tipo di «irrazionalità» che è in gioco nel caso del katechon negativo. Una traccia è offerta dallo stesso Schmitt quando, di passaggio, distingue tra due idealtipi: i «grandi propulsori» e i «grandi rallentatori» della storia universale, cui in modo originale aggiunge il terzo idealtipo dell’«acceleratore involontario». Quest’ultimo, con tutta evidenza, si distingue dagli altri due, e in particolare non può essere assimilato ai «grandi propulsori». Ciò indica che Schmitt effettua una distinzione tra le forze di «propulsione» e di «accelerazione», le prime assumendo, nel contesto, un significato inequivocabilmente positivo - si può ipotizzare in quanto fautrici di «mutamenti razionali» sul piano dello sviluppo storico. Così, per caratterizzare l’irrazionalità del katechon negativo si può osservare che Schmitt sceglie la categoria dell’accelerazione, «involontaria» (anche) perché appunto irrazionale e dunque produttrice di effetti opposti alle intenzioni originarie. Inoltre, è ormai chiaro che l’azione frenante del katechon negativo non è che una maschera, in senso teologico-politico, che copre la natura propria della sua azione effettiva.

Ci si può a questo punto chiedere se la categoria dell’accelerazione non costituisca una precisa allusione che consente di meglio mettere a fuoco la matrice teologico-politica delle forze in gioco nel caso del katechon negativo. L’ipotesi che si propone è che tale allusione rinvìi al problema, del tutto centrale, del messianesimo e del suo significato (e utilizzo) politico. È noto che “l'accelerazione dei tempi della fine”, in vario grado e modo, è un tema tipico e assolutamente centrale delle molte forme di messianesimo che tanto l’ebraismo quanto il cristianesimo, soprattutto protestante, hanno elaborato. Altrettanto, è noto che Schmitt ha sottolineato in varie occasioni, se pur in forme in parte ellittiche, il carattere fondamentalmente messianico degli Stati Uniti, fondato sul calvinismo politico radicale che ne costituisce la matrice storico-teologica irrinunciabile[30]. Allo stesso modo, Schmitt sottolineò fortemente il significato politico del messianesimo rivoluzionario inglese (premessa storica e genealogica degli stessi Stati Uniti), cui Thomas Hobbes - nella lettura del giurista tedesco - anzitutto intese opporsi con il suo Leviatano: significato che consisteva propriamente nel fatto che, mentre «Hobbes attendeva il regno di Cristo sulla terra soltanto per la fine dei tempi», i rivoluzionari puritani e i settari inglesi, gli «istigatori e i propugnatori della guerra civile inglese, che Hobbes aveva davanti agli occhi, si ritenevano cittadini di questo regno di Cristo, che per loro era già iniziato e che, come si mostrava, era già un’entità politica capace di innescare una guerra civile» [31].

Alla luce di questi pur rapidi elementi si può infine ipotizzare che il katechon negativo, in quanto acceleratore involontario, non sia altro che una maschera messianica, ovvero che la sua azione in apparenza frenante ma in realtà accelerante e al contempo irrazionale, involontaria e dagli effetti caotici e distruttivi sia una tipica manifestazione del messianesimo politico.

7.   Dai «dolori del parto» al nuovo nomos della terra

Che l’obiettivo politico strategico dell’egemonia mondiale americana fosse carico di significati non solo teologici ma propriamente messianici è emerso in modo del tutto evidente anche a livello pubblico in occasione dei drammatici rivolgimenti iniziati pochi anni fa dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Medio Oriente - luogo la cui peculiare sacralità, trasversale ad ebraismo, cristianesimo e islam, attira e catalizza le maggiori forze storiche dell’età contemporanea. Senza soffermarsi sul dato ben noto che una parte decisiva delle élites politiche americane - i cosiddetti neocons - aderisce a matrici ebraico-cristiane radicali e intrinsecamente messianiche, occorre ad esempio ricordare che l’allora Segretario di Stato Usa, Condoleeza Rice (vicina agli stessi neoconservatori), in occasione dell’aggressione israeliana al Libano, respingendo ogni proposta di mediazione diplomatica ebbe ad affermare[32]:

Non vedo l’interesse della diplomazia se è per ritornare allo status quo ante tra Israele e il Libano. Penso che sarebbe un errore. Ciò che noi vediamo qui, in un certo modo, è l’inizio, i dolori del parto di un nuovo Medio Oriente, e qualsiasi cosa noi facciamo dobbiamo essere certi che noi puntiamo verso il nuovo Medio Oriente e che non ritorniamo al vecchio.

Parole profetiche per più motivi. Anzitutto, come è evidente per gli osservatori meno distratti, l’accenno ai «dolori del parto [cfr. ad es. Matt. 24, 7-8] di un nuovo Medio Oriente» era precisamente un ammiccamento ai variegati gruppi americani di cristiani sionisti per i quali le recenti guerre in Medio Oriente erano un segno annunciatore del ritorno di Cristo[33]. Ma, se quelle affermazioni testimoniavano una volta di più l’importanza decisiva della dimensione teologico- escatologica messianica nell’ideologia neoconservatrice, tutt’ora imperante ai vertici del potere americano, esse avrebbero assunto in seguito un’efficacia del tutto paradossale: poche settimane dopo, il 14 agosto 2006, quando la cessazione delle ostilità veniva a sancire la sconfìtta israeliana, e ancor più nel corso dell’estate 2017. Proprio in quei mesi infatti si è delineata con chiarezza la sconfìtta della politica occidentale nel conflitto in Siria e, sulla sua scia, il rovesciamento o la crisi di tutte le inconfessabili alleanze americane ed europee nell’area, al punto che altri osservatori hanno sottolineato la totale inversione dei rapporti di forza in Medio Oriente insieme all’ennesima eterogenesi dei fini proprio mettendo tutto ciò in rapporto con quelle “profetiche” parole: quei «dolori del parto» inflitti a decine di milioni di esseri umani dalla politica occidentale fin dall’aggressione all’Iraq e all’Afghanistan hanno infine prodotto un «nuovo Medio Oriente», lacerato e sofferente ma anche sempre più sottratto al controllo americano[34].

Sotto la maschera orribile, perché del tutto ipocrita, della «guerra al terrorismo» particolarmente in Siria, sembrano in realtà essersi scatenati compiutamente gli effetti dell’«accelerazione involontaria» degli eventi, il cui risultato costituisce il rovesciamento delle intenzioni iniziali, tanto di quelle dichiarate quanto di quelle implicite. Difficile sottrarsi all’impressione di aver osservato in tempo reale una esemplare parabola dell’azione del katechon negativo e dei suoi effetti, e che «l'acceleratore involontario» americano (con i suoi alleati) - prigioniero tanto della sua ideologia messianica quanto dell’ottusa volontà di potenza di quello che sempre più viene definito come «Deep State»[35] - proseguirà nella sua irrazionale opposizione al nuovo nomos della terra pur essendo andato incontro ad una bruciante ed epocale sconfitta.

Non resta che osservare che la crescente e sempre più rapida divaricazione tra le forme retoricoideologiche valoriali ufficiali nonché massmediatiche dell’Occidente e la realtà brutale e spietata delle politiche ad esse sottostanti[36], a tutti i livelli, unite alla sempre più diffusa consapevolezza mondiale di questa doppiezza strutturale, indicano che il punto di massima tensione tra la maschera katecontica e la realtà messianica intramondana dell’impero americano si approssima a grande velocità, e con esso il punto di rottura.

Lo spaventoso colosso, sorta di golem regredente alla sua materia costitutiva, ha ormai non solo i piedi ma anche le gambe d’argilla, e l’oscuro incantesimo che gli dava apparenza di vita si va spegnendo: il suo tempo è contato. Dove e come cadrà - e a prezzo di quali catastrofi e sofferenze - è ora la sfida dell’epoca e al contempo il segno del progressivo e rapido stabilirsi del nuovo nomos della terra.


* Si pubblica qui, con aggiunte e modifiche, il testo apparso su «Humanitas», LXXII, 5-6, 2017, pp. 1113-1130.

[1]G. Filoramo, Il sacro e il potere. Il caso cristiano, Torino, Einaudi, 2009, p. XI.

[2] C. Galli, La guerra globale, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 79 e 84.

[3] Cfr. Id., Lo sguardo di Giano. Saggi su Cari Schmitt, Bologna, il Mulino, 2008, p. 166-172; Id., Introduzione a C. Schmitt, La guerra d’aggressione come crimine internazionale, Bologna, il Mulino, 2015, p. 23-31

[4] Cfr. M. Cacciari, Il potere che frena. Saggio di teologia politica, Milano, Adelphi, 2013.

[5]        Cfr. R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Torino, Einaudi, 2013, e si veda anche il significativo Dialogo sulla teologia politica di Cacciari ed Esposito a cura di A. Ardovino, «Micromega», 2/2014, pp. 3-25. Il confronto tra questi autori e Schmitt è molto antico: si vedano - per limitarsi a due esempi - M. Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, Milano, Adelphi, 1994 (con aggiunte 2003), e R. Esposito, Categorie dell’impolitico, Bologna, il Mulino, 1988 (nuova edizione con aggiunte 1999).

[6]        Cfr. T. Meyssan, Sous nosyeux. Du 11 septembre à Donald Trump, Paris, La Dèmi Lune, 2017.

[7] Cfr. Cacciari, Il potere che frena, p. 113, nota 4.

[8] Lo scritto pubblico più tardo in cui si accenna al katechon sembra essere C. Schmitt, Teologia politica II, Milano, Giuffrè, 1992 (ed. or. 1970), p. 65. Tuttavia, almeno fino al 1977 il katechon era al centro della sua riflessione (su di esso aveva raccolto un corposo dossier), in stretta connessione con il problema della teologia politica: cfr. H. Blumenberg, C. Schmitt, L’enigma della modernità, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 76, 77-79, 89, 90-91, 101-102. Il problema emerge anche nella celebre trasmissione radiofonica di Schmitt del 1971: cfr. C. Schmitt, Imperium, Macerata, Quodlibet, 2010, pp. 67-70 (con curiose annotazioni sulla teologia politica).

[9] Cfr. C. Galli, Lo sguardo di Giano. Saggi su Cari Schmitt, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 51-83; le tipologie della teologia politica schmittiana sono presentate da Galli secondo una classificazione rigida e riduttiva cui sfuggono non pochi aspetti essenziali e almeno una fonte del tutto ineludibile e purtroppo abitualmente dimenticata dagli studiosi.

[10] La definizione, che qui si propone, non è di Schmitt; il seguito del testo cercherà di giustificare l’adozione di tale denominazione.

[11] Cfr. C. Schmitt, Acceleratori involontari, ovvero: la problematica dell’emisfero occidentale, in Id., Stato, grande spazio, nomos, Milano, Adelphi, 2015, pp. 199-213.

[12] Tra i rarissimi contributi dedicati a questa prima manifestazione del tema del katechon in Schmitt cff. M. Maraviglia, La penultima guerra. Il katechon nella dottrina dell’ordine politico di Cari Schmitt, Milano, Led, 2006, pp. 205-209, dove si sottolinea, riduttivamente, che in questo primo contributo di Schmitt «il katechon è eminentemente categoria della conservazione» (p. 209).

[13] Schmitt, Acceleratori involontari, pp. 201-202.

[14] Cff. ibidem, p. 203.

[15] Cff. ibidem, p. 204 per questa e le precedenti citazioni.

[16] Cfr. ibidem, p. 205 per questa e tutte le citazioni precedenti.

[17] Ibidem, ivi.

[18] Cfr. ibidem, p. 207 per questa e la precedente citazione.

[19] Senza che ci si possa qui soffermare su questo punto, occorre almeno rilevare che lo stesso Schmitt prendeva in considerazione ipotesi che l’America potesse «sfruttare entrambe le opzioni» al contempo, dell’universalismo e dei grandi spazi; l’evoluzione successiva degli eventi nella seconda metà del XX secolo potrebbe in effetti essere letta in questa prospettiva (cfr. ibidem, pp. 207-208). Sul piano propriamente storico-militare, si può poi osservare che in effetti la guerra non venne «decisa» dall’intervento americano bensì dalla straordinaria ripresa della macchina militare dell'Unione Sovietica, che causò il tracollo delle armate naziste sul fronte russo e il collasso dell’intera potenza militare tedesca, che non fu più in grado di opporsi all’avanzare degli eserciti alleati in Africa, in Italia e in Francia.

[20] Ibidem, p. 208, e pp. 208-209 per le citazioni successive.

[21] Ibidem, p. 209.

[22] Ibidem, ivi, anche per le citazioni successive.

[23] Ad esempio, gli accenni riguardanti il Medioevo sarebbero stati ripresi e ampliati, nella stessa prospettiva, in C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «juspublicum europaeum», Milano, Adelphi, 1991, pp. 42- 47 (ed. or. 1950); per i riferimenti a Masaryk e Pilsudski cfr. Id., Glossario, Milano, Giuffrè, 2001 (ed. or. 1991; testo relativo agli anni 1947-51), ad indicem.

[24] Schmitt, Acceleratori involontari, p. 209, e p. 210 per la citazione seguente.[25] Ibidem, p. 210, anche per le citazioni seguenti.

[26] Cff. Schmitt, L ’unità del mondo, in Id., Stato, grande spazio, nomos, pp. 269-290.

[27] È questo uno degli aspetti incredibilmente eversivi della legge sulle sanzioni a Iran, Russia e Corea del Nord approvata dal Congresso il 15 giugno 2017 con una maggioranza più che “bulgara”: di fatto tale legge impone al Presidente degli Stati Uniti un controllo totale sulla politica estera che si esprime nell’impossibilità di prendere alcuna decisione senza la preventiva approvazione del Congresso in merito alle sanzioni oggetto della legge e ai Paesi cui si riferisce. Cfr. la Legge S 722 ES:

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[28] Cfr. il ministro degli Esteri russo S. Lavrov, 9 marzo 2017: https://it.sputniknews.conr/mondo/201703094180142- lavrov-mondo-sta-entrando-nell-era-post-occidentale/ Si veda, in una ormai crescente letteratura e in una prospettiva diversa da quanto si sostiene in questa sede, l’allarmata analisi “occidentalista” di C. A. Kupchan, Nessuno controlla il mondo. L’Occidente e l’ascesa del resto del mondo. La prossima svolta globale, Milano, il Saggiatore, 2013 (volume del Council on Foreign Relations).

[29] L’allusione è al celebre testo di A. J. Toynbee, Il mondo e l’Occidente (ed. or. The West and the world) con prefazione di L. Canfora, Napoli, Sellerio, 1992.

[30] Su questi aspetti cfr. G. Mongini, L'acuto occhio di Giano. La «guerra giusta» in Cari Schmitt tra diritto internazionale, ermeneutica storica e teologia politica, «Nuova rivista storica», XCIII, 2009, pp. 567-598.

[31] C. Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes, Milano, Giuffrè, 1986, p. 167 per tutte le citazioni; corsivo aggiunto.

[32] Cfr. T. Meyssan, L ’effroyable imposture 2. Manipulations et désinformations, Monaco, Editions Alphée, 2007, p. 375, nota 304: 21 luglio 2006.

[33] Ibidem, p. 242.

[34]Cfr. ad esempio P. Escobar, Les douleurs de Venfantement d’un nouveau Moyen-Orient, remixée, al link: http://reseauintemational.net/les-douleurs-de-lenfantemen t-dun-nouveau-moyen-orient-remixees/

[35] Cfr. P. D. Scott, L’état profond américain. La finance, le pétrole et la guerre perpétuelle, Paris, La Dèmi Lune, 2015.

[36] Tra molti interventi che illustrano il rovesciamento e la doppiezza cui si è accennato, cfr. ad esempio il lucido B. Guigue, Qu’il est beau, le ‘monde libre !, al link: http://lesakerfrancophone.fr/quil-est-beau-le-monde-libre