Homo cosmopoliticus Adam Smith e la soggettività globalista
“Il proprietario di azioni è necessariamente un cittadino del mondo” (Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, Libro V, Capitolo II, Articolo II).
L'universalità perversa del globalismo può considerarsi compiuta nella verifica della logica già delineata da Smith ne La ricchezza delle nazioni:
Il proprietario di azioni è necessariamente un cittadino del mondo e non è necessariamente legato a un paese particolare. Egli sarebbe propenso ad abbandonare il paese in cui è esposto a un'inquisizione vessatoria, per essere sottoposto a un'imposta onerosa, e a trasferire le sue scorte in qualche altro paese in cui possa svolgere la sua attività o godere della sua fortuna con più agio. (Libro V, Capitolo II, Articolo II)
Seguendo la tesi di Smith, va da sé che il diritto liberale del denaro è cosmopolita e vocazionalmente non transfrontaliero. Il capitale è, per sua essenza, apolide e deterritorializzato (“non necessariamente legato a un paese particolare”).
Inoltre, se ci avventuriamo oltre Smith, esso si fonda sulla riduzione del mondo intero alla sua “patria” di riferimento: è cosmopolita proprio perché, per realizzarsi in forma “ab-soluta”, deve neutralizzare le barriere nazionali e saturare il globo, riducendolo a un piano liscio per lo spostamento omnidirezionale dei flussi di merci e persone mercificate, di capitale speculativo e desideri di consumo.
Il possessore di capitale è, quindi, “necessariamente un cittadino del mondo”, libero di muoversi e circolare per “portare avanti i suoi affari, o godere della sua fortuna più a suo agio”. E questo, come è evidente, secondo quella logica del profitto che, se in un periodo storico coincideva con lo spazio del nazionalismo imperialista, oggi trova il proprio ubi consistam nella denazionalizzazione e nell'apertura di tutte le frontiere materiali e immateriali.
Da questo punto di vista, l'homo cosmopoliticus sembra essere il prodotto più genuino di quell'antropologia cosmomercantile e di quell'assenza di radici inscritta nel suo codice originario, contro il quale resta in gran parte valido il teorema di De Maistre, secondo il quale non troviamo mai l'“uomo” qua talis, ma sempre il francese, l'italiano o il russo (e da Montesquieu - aggiunge ironicamente De Maistre - abbiamo imparato che esiste anche il persiano).
Ancora una volta, la Sinistra di costume, intrappolata nella “fase tolemaica”, si illude di lottare contro il potere, mentre in realtà lo sostiene, difendendo a oltranza i propri interessi e intervenendo contro qualsiasi progetto di emancipazione degli oppressi rispetto agli auri sacra fames del turbocapitale.
Combatte l'idea stessa di radicamento nazionale, confondendola con la sua deriva perniciosa e pericolosa che è stata il nazionalismo capitalista, senza rendersi conto che oggi è stato completamente superato dalla nuova globocrazia non confinaria, che è la prima a usare la retorica antinazionalista per demonizzare, non più l'imperialismo nazionalista che per un certo periodo ha sostenuto, ma l'idea stessa di Nazione e, con essa, del gramsciano nazional-popolare come base della resistenza culturale, identitaria, politica e sociale degli oppressi contro il cosmopolitismo di mercato, intrinsecamente antidemocratico.
In questo scenario emerge, con chiari contorni, l'incompatibilità strutturale del cosmopolitismo capitalista con l'internazionalismo proletario o, più genericamente, delle classi oggi dominate. L'internazionalismo implica un nesso di solidarietà socialista inter nationes e, quindi, l'opposto dell'annientamento cosmopolita delle nazioni attuato dal global-capitalismo secondo il teorema di Smith e, se vogliamo, secondo la prospettiva cosmopolitica del comunismo di Trotsky, come decostruita da Gramsci nei Quaderni del carcere.
L'internazionalismo del Servo nazional-popolare non coincide, quindi, né con il nazionalismo conquistatore della Destra storica (che era la funzione espressiva del capitalismo imperialista nella sua fase dialettica), né con il cosmopolitismo capitalista del mercato de-significato e post-nazionale (che è il progetto difeso ai nostri giorni, strutturalmente, dalla Destra liberale del denaro e sovrastrutturalmente dalla Sinistra libertaria del costume).
Da quanto esposto, si deduce ancora una volta che, per spezzare il giogo del glebalismo liberale, occorre innanzitutto decostruire l'egemonia del pensiero unico che santifica il rapporto di potere realmente dato. In particolare, è necessario smantellare l'architettura ideologica della sinistra champagne del costume, che legittima sovrastrutturalmente la struttura del dominio della destra finanziaria del denaro.
La frode ideologica della Destra nazionalista - se intende ancora utilizzare, a fini euristici, l'obsoleta e, di fatto, “inutile” dicotomia Destra-Sinistra - consiste nel presentare una certa sovranità autoritaria e non democratica, come se fosse la vera opposizione al cosmopolitismo capitalista, che ne è appunto l'altra faccia (rectius, il culmine).
L'impostura delle Sinistre champagne e arcobaleno consiste, invece, nel contrabbandare come internazionalismo socialista quello che, a rigore, è cosmopolitismo liberale, cioè la sfera di conflitto favorevole al Signore competitivo.
Con un atteggiamento che oscilla sempre tra l'incomprensione del rapporto di forza e la sua legittimazione attiva, la Sinistra champagne crede surrettiziamente - e qui sta il nocciolo del suo errore - che “il contrasto del cosmopolitismo implichi il ripudio dell'internazionalismo”; al contrario, è l'internazionalismo socialista che porta con sé implicitamente un fermo rifiuto sia del nazionalismo imperialista sia del cosmopolitismo liberale. Non può esistere un internazionalismo socialista in assenza di Stati nazionali che si riconoscano reciprocamente come liberi e fratelli.
A proposito, è stato il Trattato di Maastricht del 1992 a certificare la riconosciuta “conversione dei comunisti italiani al neoliberismo”. In quell'occasione si forgiò la forma mentis definitiva e integralmente cosmopolita della sinistra mercatista, ormai convinta che ogni opposizione al globalismo non confinario non fosse più la possibile difesa delle classi dominate dall'offensiva del mercato unificato senza frontiere, ma la via della chiusura identitaria e regressiva, che avrebbe dovuto necessariamente coniugarsi con il quadrante destro della politica.
Aveva indubbiamente ragione Bobbio quando, nel suo fortunato libro Destra e sinistra, indicava nel “grande problema della disuguaglianza tra uomini e popoli” il nodo irrisolto del mondo post-1989. Tuttavia, questa impeccabile diagnosi conviveva, nell'opera di Bobbio, con l'irreale identificazione idealtipica della sinistra con la difesa di quell'uguaglianza, rispetto alla quale la nuova sinistra realmente esistente, convertita al cosmopolitismo liberale, aveva già da tempo detto addio in modo evidente.
Se storicamente la sinistra - come ammetteva anche Bobbio - si fondava sul nesso tra libertà e uguaglianza e utilizzava l'azione dello Stato come strumento di intervento sulla realtà, in vista dell'attuazione di quel fine, come poteva ancora definirsi “sinistra” la nuova sinistra post-marxista, che alle questioni dell'uguaglianza e dei diritti del lavoro aveva ormai anteposto la liberalizzazione individualista e i diritti arcobaleno del singolo consumatore; che alla lotta per l'uguaglianza e la libertà dei popoli colonizzati ha preferito il sostegno incondizionato all'interventismo astrattamente umanitario e concretamente imperialista della talassocrazia del dollaro; e che, ancor prima del potere eticizzante dello Stato come mezzo per raggiungere l'uguaglianza, ha scelto di aderire alla globalizzazione de-significante che è il mezzo che garantisce la sempre crescente egemonia della classe dominante?
Traduzione di Costantino Ceoldo