ATTACCHI TERRORISTICI IN EUROPA: UN’ANALISI STRATEGICA
I tragici fatti di Parigi hanno definitivamente portato alla ribalta il tema dell’insurrezione terrorista come problema veramente globale. La reazione delle classi dirigenti europee, siano esse politiche e culturali, deve tener conto di precisi elementi strategici. Non siamo di fronte ad un problema di ordine pubblico ma nemmeno ad un classico avversario militare. Le risposte sin qui approntate ed implementate – che vanno dall’aumento dell’attività di sorveglianza visibile nelle città e dal tentativo di sigillare le frontiere (a tragedia avvenuta) al lanciare contro il gruppo “Stato Islamico” bombardamenti di rappresaglia – rischiano pertanto di risultare completamente inefficaci.
Il problema: terrorismo e sicurezza.
Ci si conceda una metafora. Vi fu un’epoca in cui, nel codice penale italiano, lo stupro era considerato non reato contro la persona ma contro la morale. E’ ovvio che lo stupro sia anche un delitto che aggredisce il pubblico senso di moralità, ma è altrettanto chiaro che il primo bene giuridico da tutelare è l’incolumità fisica e psicologica della vittima e che quindi sia la violazione di questo interesse giuridico il principale effetto negativo da colpire. Si badi bene: siamo costretti a dire “colpire” e non “punire”, perché, in accordo con la costituzione italiana e le leggi dei paesi europei, la pena mira a recuperare e non solo a punire. Il tema della sicurezza si limita a sfiorare superficialmente i principi ispiratori del nostro ordinamento – e proprio su questo verterà il presente paragrafo. Col terrorismo è necessaria una traslazione concettuale: non possiamo trattare come problema di ordine pubblico quale una rapina a mano armata o una rissa da stadio quello che è un attacco militare. Il salto concettuale è quindi più impegnativo: non dobbiamo solo mutare la tipologia di interesse giuridico da tutelare (dalla morale pubblica all’integrità fisica di una persona, dal quieto vivere alla sicurezza ed integrità nazionale) ma anche il livello operativo preposto alla tutela. Le nostre leggi, come sopra si accennava, sono inadeguate come i sistemi preposti a sanzionarne la violazione. I sistemi giudiziari europei e le magistrature non sono concepiti per attuare prevenzione di simili tragedie ex ante e nemmeno per punirne gli autori ex post bensì per – sempre ex post – erogare ai colpevoli (nel caso in un lungo ed incerto processo siano riconosciuti come tali) una qualche forma di pena. Tutto ciò è quanto di più inadeguato ad affrontare il problema: non impedisce al terrorista di colpire. Non impedisce che veri e propri atti militari siano compiuti contro la nostra popolazione civile. La cronaca restituisce di frequente casi di individui sospetti – che poi si rivelano effettivi membri di aggregazioni terroristiche – liberati dalla magistratura per assenza di prove concrete dopo che le forze di polizia ne avevano richiesto l’arresto ed attuato il fermo. Concettualmente non potrebbe essere diversamente: la magistratura non condanna sulla base di pur fondati indizi di intelligence, ma solo sulla base di prove e a fronte di reati effettivamente compiuti.
Il terrorismo va riconosciuto come tema di natura militare ed affidato agli apparati militari e di intelligence concedendo a questi adeguata franchigia operativa rispetto al resto del sistema giuridico per quanto concerne le indagini, la raccolta informativa, gli arresti, gli interrogatori e le detenzioni dei terroristi. Bisogna sottrarre il terrorismo al normale sistema giurisdizionale.
Il terrorismo: un quadro strategico e geopolitico.
Stabilire che un problema è di natura militare ci tiene ancora distanti dalle cause del problema stesso. E’ necessaria una corretta eziologia del fenomeno del terrorismo sedicente gihadista. Alle origini della quasi totalità delle principali aggregazioni terroristiche di marca salafita vi è, storicamente, il finanziamento, la collaborazione logistica o quanto meno la benevola neutralità di:
Paesi ufficialmente alleati dell’Occidente (inteso come NATO). Parliamo di Qatar, Arabia Saudita, altre monarchie del Golfo, Pakistan. Questi paesi vengono insensatamente definiti “paesi islamici moderati” per il loro legame finanziario ed economico con l’Occidente nonché per la loro comune ostilità ai nemici strategici della NATO (principalmente Russia ed Iran).
Paesi membri della NATO: Turchia, Francia e Regno Unito. Questi paesi hanno giocato un ruolo assai ambiguo nel loro rapporto col terrorismo salafita. La Turchia non ha mai combattuto il Daesh e ha invece permesso a migliaia di volontari europei di raggiungerlo e all’organizzazione stessa di esportare il proprio petrolio, il tutto in funzione anticurda e anti–Assad. Francia e Regno Unito hanno chiuso gli occhi sui terroristi diretti verso la Siria, hanno fornito appoggio politico e forse anche armamenti a ribelli siriani (diversi dal Daesh ma la cui moderazione è, per essere eufemistici, più che dubbia). Il Regno Unito ospita da decenni salafiti radicali cui fornisce asilo politico anche quando ricercati dai loro governi, ed è stato molto probabilmente coinvolto nell’armamento e nel sostegno tanto ai talebani afghani quanto ai ribelli ceceni.
I due paesi cardine dell’Occidente nell’area del Vicino Oriente: USA e Israele. Che gli Stati Uniti abbiano contribuito in modo sostanziale all’insurrezione globale dell’estremismo salafita e wahhabita è tema definitivamente e irrevocabilmente sottratto al complottismo e consegnato all’oggettività storica. Quanto ad Israele, spesso si sottace non solo il reciproco ignorarsi tra Israele da un lato e Al Qaeda e “Stato Islamico” dall’altro, ma anche il ruolo che il regime sionista ha svolto nel sostegno alla guerriglia antirussa in Afghanistan. Soprattutto è utile ricordare che Israele e “Stato Islamico” non si combattono
perché hanno due nemici comuni: il nazionalismo palestinese e l’Islam sciita.
I governi europei non possono condannare e additare come nemico il terrorismo che colpisce i loro cittadini e continuare ad intrattenere forti legami politici e militari coi suoi finanziatori, creatori e protettori – isolando i governi arabi che lo subiscono come minaccia alla propria sopravvivenza e i governi iraniano e russo che sono impegnati contro il medesimo nemico. Il terrorismo potrà anche sembrare religioso nei suoi pretesti, ma è geopolitico nelle origini e negli scopi. Due domande sono da porre alle classi dirigenti europee: come mai si concede la rappresentanza del mondo sunnita a paesi autoritari come la Turchia o a monarchie oscurantiste come quelle del Golfo che hanno come capofila l’Arabia Saudita, cardine dell’eterodossia wahhabita? Come mai si alimenta dall’altro lato la retorica del settarismo – tragica profezia autoavverantesi del sedicente califfato? Non tutti i musulmani sunniti del Vicino Oriente appoggiano il sedicente “Stato Islamico”; anzi la maggior parte di loro ne sono vittime. I Palestinesi sognano ancora un loro Stato indipendente e sovrano, e molti di loro sono ancora animati da ideali secolari e di sinistra. Tra i sunniti siriani molti sono ancora coloro che appoggiano il governo baathista, preferendolo al Daesh. Il pur travagliato cammino della Tunisia, paese omogeneamente sunnita in cui i sentimenti repubblicani cercano di prevalere, dovrebbe essere la risposta definitiva a chi per ignoranza e malafede vorrebbe consegnare tutti gli Arabi sunniti all’estremismo wahhabita e salafita.
Il terrorismo: cos’è e cosa non è
In primis, abbiamo dunque inquadrato il terrorismo come fenomeno militare e non di ordine pubblico. In secundis abbiamo riconosciuto che le cause del terrorismo – non esclusive ma principali – afferiscono al contesto geopolitico più che a quello religioso. In terzo luogo sappiamo anche che una trattazione a parte meriterebbe il ruolo giocato dall’emarginazione sociale dei migranti e dei loro discendenti nei paesi europei; il tema è assai significativo e complesso, di sicuro più che non la religione in qualche modo professata o presentata come giustificazione del loro operato da parte dei terroristi (molti dei quali sono però dei piccolo-borghesi in cerca di identità e non proletari emarginati: da qui un ulteriore livello di riflessione sul nichilismo strisciante e sull’alienazione nella società liberaldemocratica). La recente letteratura riconosce il percorso di radicalizzazione come un percorso si conversione in sé e indipendente dalla precedente esperienza di pratica della religione islamica. Il percorso con cui si diventa jihadista è spesso scollegato dall’essere musulmano praticante o persino rigoroso. Molti terroristi sono europei convertiti, ex criminali e sbandati, emarginati sociali e appunto anche piccolo-borghesi. La radicalizzazione avviene spesso in carcere, attraverso la rete o la frequentazione di associazioni radicali, più che non nelle moschee. La conoscenza dell’Islam e delle sue tradizioni da parte dei terroristi è spesso superficiale, esteriore ed abbozzata. Purtroppo i nostri media continuano ad insistere sul tema del rapporto tra Occidente ed Islam come culture, il che è concettualmente fuorviante e spinge le opinioni pubbliche a credere che gli attentatori di Parigi rappresentino in qualche modo – monoliticamente – un miliardo e mezzo di musulmani nel mondo.
Conclusioni: il livello tattico e la visione geopolitica
Tutto questo ci conduce al culmine del nostro discorso: fare sicurezza a livello operativo e tattico. Il terrorista contemporaneo è sì un obiettivo militare, ma non un obiettivo militare classico che si possa colpire da un bombardiere con azioni di alto livello propagandistico ma di scarsa, nulla o controproducente efficacia effettiva. I terroristi contemporanei si radicalizzano spesso in modo “fai da te” e operano per cosiddetti “sciami” (nella letteratura anglosassone si parla di “swarming”) più che per “eserciti” o “cellule”. Si tratta di strutture non rigidamente gerarchiche o verticali ma nemmeno basate su cellule indipendenti o lupi solitari. Gli sciami sono strutture “network-centered”, cellule sì autosufficienti, ma inserite in reti di terroristi (networks) che condividono conoscenza, informazioni, tattiche e spesso logistica a livello orizzontale (il che le rende difficili da decapitare) e con un riferimento verticale a livello ideologico, di immagine, finanziario e di addestramento. Le reti sono famigliari, amicali o costruite sul campo nei combattimenti in Siria o negli altri teatri del fronte terrorista. Le aggregazioni di questo tipo garantiscono flessibilità, elasticità e segretezza superiori a quello delle strutture gerarchiche ma anche una capacità offensiva superiore a quello dei semplici “lupi solitari”. Il processo di radicalizzazione è destrutturato, individuale e più difficile da monitorare. Gli strumenti tecnologici di comunicazione garantiscono la possibilità tecnica di mantenere vivo il network e quelli mediatici di terrorizzare l’opinione pubblica. I livelli gerarchici superiori (cui chiaramente non si rinuncia) basati in Medio Oriente, garantiscono addestramento militare, riferimento ideale e contribuiscono al coordinamento del finanziamento.
Una guerra contro un simile nemico non si vince bombardando alcuni campi di addestramento in Siria e nemmeno ripetendosi che l’Islam sia una “religione cattiva”. Si può quantomeno provare a combattere aumentando il livello operativo dell’intelligence potenziando il coordinamento tra le agenzie europee, non confidando solo sulla tecnologia (fondamentale data la difficoltà di infiltrare gli “sciami” e alla quale non frapporre eccessivi limiti legali) bensì anche su un ritorno all’HUMINT (raccolta informativa basata su fattori ed operatori umani, sull’infiltrazione laddove possibile e sull’interrogatorio una volta catturati i terroristi, collaborazione con i paesi d’origine e con le altre intelligence: la tecnologia fornisce molte informazioni, ma quelle di origine HUMINT sono forse più significative, di certo più dirette, più facili da gestire per la minor mole e più interpretabili) e sottraendo la lotta al terrorismo allo schema concettuale della tutela dell’ordine pubblico e alla magistratura civile e consegnandolo invece al livello militare. Dare la caccia ai terroristi è fondamentale: vanno trasformati da predatori a prede. Aumentare il livello di sorveglianza passiva ha efficacia limitata. Rende forse più complesso attuare un attentato, non lo rende impossibile. E’ poi fondamentale mostrare assoluta inflessibilità con i paesi protettori o anche solo ambigui con il terrorismo. Inflessibilità con Turchia, con Qatar e Arabia Saudita (questi ultimi non certo gli unici produttori di idrocarburi al mondo), presa atto della diversità delle priorità della politica estera di Washington (interessata al contrasto strategico di Russia e Cina e non alla sicurezza dei cittadini europei) e di quella europea (che dovrebbe mirare alla sicurezza dei propri civili ed alla propria indipendenza strategica) nonché maggior solidarietà col popolo curdo e con quello palestinese, con paesi sunniti quali l’Algeria e la Tunisia, con l’Iran e con la Russia – impegnati in prima linea nel contrasto al terrorismo di matrice salafita e wahhabita: ecco i capisaldi di una vera risposta geopolitica ai fatti di Parigi.