IL MITO SIONISTA DEL “RITORNO”

10.11.2023

Sono davvero, gli Ebrei, un “popolo semitico”?

In un libro che all’epoca provocò un certo scalpore, il filosofo francese Roger Garaudy sottopose ad una critica spietata quelli che egli definiva “Les mythes fondateurs de la politique israélienne”[1]. Garaudy usava la parola mito nel senso estensivo che essa riveste allorché designa un racconto o un concetto suggestivo (il linguaggio odierno direbbe “una narrazione” o ancor peggio “una narrativa”), insomma: un racconto fornito di credito e prestigio – che però è possibile smentire (e smontare) per mezzo dell’analisi razionale.

In particolare, con l’espressione “miti fondatori” Garaudy indicava quelle menzogne prestigiose che, assegnando un’origine antica e nobile ad un’istituzione o ad una pratica recente, ne rafforzano la legittimità o addirittura creano attorno ad essa un’aura di sacralità. I “miti fondatori della politica israeliana” vengono distinti da Garaudy in due categorie: i “miti teologici” e i “miti del XX secolo”. I “miti teologici”, nati dalla lettura dell’Antico Testamento fatta dal sionismo, o almeno dalla corrente religiosa del sionismo, sono: 1) il mito della “terra promessa”, 2) il mito del “popolo eletto”, 3) il mito dello “sterminio sacro” (della “pulizia etnica”, se volessimo usare un’espressione meno teologica, più secolarizzata e di uso più corrente). I “miti del XX secolo”, invece, sono: il mito dell’antifascismo sionista, il mito della “giustizia” di Norimberga, il mito dell’Olocausto, il mito di una “terra senza popolo per un popolo senza terra”.

Tuttavia Garaudy ha trascurato un mito fondatore che possiamo considerare come preliminare rispetto ai “miti teologici” da lui sottoposti a critica: il mito del “ritorno”, ovvero del “ritorno del popolo ebraico nella sua patria biblica”.

“Ritorno”, qualora occorresse ricordarlo, significa rientro nel luogo di provenienza. Quindi, accettando il concetto di “ritorno” (nella “terra d’Israele”, erez Israel), si dà per scontato che, con l’immigrazione sionista in Palestina e con l’instaurazione di un regime d’occupazione coloniale denominato “Stato d’Israele”, il popolo ebraico (o comunque una parte di esso) è ritornato nella sua antica patria dopo una “diaspora” durata circa diciannove secoli. (Tra parentesi, anche questo concetto della “diaspora” – dal greco διασπορά, “disseminazione”, “dispersione” – andrebbe sottoposto ad una radicale revisione critica, dal momento che non fu certo la distruzione del Tempio di Gerusalemme avvenuta nel 70 d.C. al tempo dell’Imperatore Tito a provocare la dispersione degli Ebrei, per la semplice ragione che questi si trovavano già da tempo disseminati in tutto il bacino del Mediterraneo).

Ciononostante, stando alla tesi sionista, ad essere “ritornato” in Palestina sarebbe il “popolo ebraico”. Ma qui diventa necessario porsi un’altra domanda: gli Ebrei sono propriamente un popolo?

Secondo Shlomo Sand, professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Tel Aviv ed autore di un libro intitolato The Invention of the Jewish People[2], la risposta a tale interrogativo può essere data solo se si sottopone a revisione critica la storia ufficiale, la quale, a suo parere, è stata costruita e avallata da studiosi che, indotti da un pregiudizio ideologico, hanno manipolato le fonti per creare una visione unitaria e coerente del passato ebraico. Miti fondativi dalla storicità dubbia, come l’esilio babilonese, la conquista della terra di Canaan o la monarchia unita di Davide e Salomone, – dice lo storico israeliano – sono diventati le colonne portanti di una ricostruzione della storia degli Ebrei presentata come un percorso ininterrotto che dall’epoca biblica si dipana senza soluzione di continuità fino ai giorni nostri. Ma, egli si chiede, esiste veramente un “popolo ebraico” omogeneo, costretto all’esilio dai Romani nel primo secolo d.C., un gruppo etnico la cui purezza sarebbe sopravvissuta a due millenni, una nazione che finalmente ritorna nella sua patria? Niente affatto, sostiene Shlomo Sand. Gli Ebrei discendono da una massa etnicamente disomogenea di individui e gruppi convertiti al giudaismo, appartenenti alle più diverse nazioni del Vicino Oriente e dell’Europa orientale. L’“invenzione del popolo ebraico”, come la chiama Shlomo Sand, è l’invenzione di una storiografia di stampo nazionalista, che intendeva fornire un fondamento e una giustificazione alla colonizzazione sionista della Palestina.

Chiediamoci adesso: se gli Ebrei non costituiscono un popolo inteso come entità etnica, fino a che punto possono essere considerati un gruppo umano, sia pure etnicamente non omogeneo, appartenente all’ambito semitico?

Vediamo innanzitutto che cosa significa “semitico”. Pare sia stato lo storico tedesco August Ludwig von Schlözer (1735-1809) a coniare per la prima volta, nel 1781, l’aggettivo semitisch, per indicare il gruppo delle lingue parlate da quelle popolazioni che un passo biblico (Gen. 10, 21-31) fa discendere da Sem figlio di Noè: il siriaco, l’aramaico, l’arabo, l’ebraico, il fenicio. L’aggettivo “semitico” si riferisce perciò propriamente ai Semiti, ossia ad una famiglia di popoli che si è diffusa nella zona compresa fra il Mediterraneo, i monti d’Armenia, il Tigri e l’Arabia meridionale, per poi estendersi anche all’Etiopia ed al Nordafrica; come aggettivo sostantivato (“il semitico”) esso indica il gruppo linguistico corrispondente, che si articola in tre sottogruppi: quello orientale o accadico (che nel II millennio a.C. si divise in babilonese e assiro), quello nordoccidentale (cananeo, fenicio, ebraico, aramaico biblico, siriaco) e quello sudoccidentale (arabo ed etiopico). Del tutto improprio è dunque l’uso dei termini “semita” e “semitico” come sinonimi di “ebreo” e di “ebraico”, esattamente come sarebbe improprio dire “ariano” o “indoeuropeo” in luogo di “italiano”, “tedesco”, “russo” o “persiano”.

Ne consegue che altrettanto improprio è l’uso del termine “antisemita” come sinonimo di “antiebraico”. Se usato correttamente, il termine “antisemitismo” (coniato nel 1879 dal giornalista viennese Wilhelm Marr[3]) dovrebbe indicare l’ostilità nei confronti della famiglia semitica, la quale ha oggi la sua componente più numerosa nelle popolazioni di lingua araba, cosicché la qualifica di “antisemita” risulterebbe adatta a designare chi nutre ostilità nei confronti degli Arabi, più che non coloro i quali provano avversione nei confronti degli Ebrei.

Ma l’inconsistenza della presunta identità di campo semantico fra i due termini “semita” ed “ebreo” risulta ancora più evidente qualora si rifletta sul fatto che gli Ebrei odierni non possono essere qualificati come “semiti”. Infatti, se l’appartenenza di un gruppo umano ad una più vasta famiglia deve essere stabilita in base alla lingua parlata dal gruppo in questione, allora un popolo potrà essere considerato semitico soltanto nel caso in cui esso parli come sua lingua materna una delle lingue semitiche enumerate più sopra, col risultato che oggi potranno essere legittimamente definiti semiti a pieno titolo gli Arabi e gli Etiopi, ma non gli Ebrei.

È vero che dal 1948 l’ebraico, o meglio il neoebraico (l’ivrit), è diventato lingua ufficiale della colonia sionista insediatasi in Palestina, dove essa conta qualche milione di locutori (circa il 90% degli oltre sei milioni di ebrei israeliani); ma si tratta di una lingua che era morta da oltre venti secoli e che solo nel Novecento è stata artificiosamente richiamata in vita, a partire dagli sforzi del linguista sionista Eliezer Ben Yehuda (1858-1922). Bisogna inoltre ricordare, a tale proposito, che i giudei più osservanti dell’ortodossia religiosa inizialmente non accettarono l’idea di usare nella vita quotidiana l’ebraico, lingua da loro considerata “santa”; e bisogna anche ricordare che nella Palestina occupata ci sono gruppi di Ebrei i quali perseverano nell’uso dello yiddish. In ogni caso, il fatto che gli Ebrei attualmente residenti in Palestina parlino l’ebraico (o meglio il neoebraico) non fa di loro etnicamente dei Semiti. Altrimenti, applicando lo stesso criterio, dovremmo considerare etnicamente germanica, per il fatto che parla una lingua germanica, la popolazione afroamericana degli Stati Uniti. Il che è palesemente assurdo.

Gli Ebrei che vivono nei diversi paesi della terra, oggi come in passato, parlano le lingue dei popoli in mezzo ai quali si trovano a vivere, lingue per lo più indoeuropee (inglese, spagnolo, francese, italiano, russo, farsi ecc.). Lo stesso yiddish, che si formò nel XIII secolo nei paesi dell’Europa centrale sulla base di un dialetto medio-tedesco e diventò una sorta di lingua internazionale in seguito alle migrazioni ebraiche, era pur sempre un idioma tedesco, anche se, oltre ad un vocabolario di base tedesco e slavo, conteneva un tasso elevato di elementi lessicali ebraici e veniva scritto in caratteri ebraici. (Ma questo non vuol dire niente: anche il vietnamita, lingua mon khmer, si scrive coi caratteri latini, ma ciò non significa che il vietnamita sia una lingua neolatina; anche il persiano si scrive con caratteri arabi, ma non è una lingua semitica, bensì indoeuropea; e così via in tanti casi analoghi). Sembra dunque lecito concludere che gli Ebrei non costituiscono un gruppo definibile come semitico sulla base dell’appartenenza linguistica.

Possiamo allora considerarli semiti sotto il profilo etnico? Per rispondere affermativamente, bisognerebbe essere in grado di ricondurre la genealogia degli Ebrei fino a Sem figlio di Noè. Ma una tale impresa sembra alquanto ardua.

Come scrive un eminente rappresentante della scienza geografica italiana, Renato Biasutti (1878-1965), “la questione della posizione antropologica o composizione razziale degli Ebrei non è meno complessa e oscura” di tante altre. “Una delle cause di ciò – egli spiega – sta nella difficoltà di raccogliere informazioni adeguate sui caratteri somatici di un gruppo etnico tanto disperso”[4].

Gli Ebrei sono una miscela etnica. L’origine cazara degli Ebrei aschenaziti

C’è un dato di fatto che non solo mette seriamente in questione la presunta origine semitica degli Ebrei attuali, ma impedisce anche di considerarli discendenti degli Ebrei dell’antichità biblica: all’etnogenesi ebraica hanno contribuito elementi etnici di provenienza disparata, acquisiti col proselitismo e con quei matrimoni misti (“i matrimoni con le figlie di un dio straniero”) contro cui tuonavano inutilmente i profeti d’Israele. Scrive uno studioso ebreo, Maurice Fishberg: “A partire dalle testimonianze e dalle tradizioni bibliche, si deduce che perfino agli esordi della formazione delle tribù d’Israele queste erano già composte di ingredienti razziali diversi (…). A quell’epoca troviamo in Asia Minore, in Siria e in Palestina molte razze: gli Amorrei, che erano biondi, dolicocefali e di alta statura; gli Ittiti, una razza di carnagione scura, probabilmente di tipo mongoloide; i Cusciti, una razza negroide; e parecchie altre ancora. Gli antichi Ebrei contrassero matrimoni con tutte queste stirpi, come si vede bene in molti passi della Bibbia”[5].

Occorre poi distinguere tra gli Ebrei dell’Asia e quelli dell’Europa e dell’Africa e, in particolare, tra i Sefarditi (il ramo meridionale della cosiddetta diaspora) e gli Aschenaziti (il ramo orientale). Se i Sefarditi si sono diffusi dal Nordafrica e dall’Europa mediterranea fino all’Olanda e all’Inghilterra, gli Aschenaziti hanno popolato vaste aree della Russia meridionale, della Polonia, della Germania e dei Balcani; ed è stato questo ramo dell’ebraismo a fornire il contingente più numeroso al movimento colonialistico che ha dato nascita all’entità politico-militare sionista ed alla stessa classe politica israeliana. In uno studio pubblicato dalla State University of New York[6] Paul Wexler, professore di linguistica all’Università di Tel Aviv, argomenta che per gran parte dei Sefarditi si può ipotizzare un’origine parzialmente semitica, ma non necessariamente ebraica. Per quanto invece riguarda gli Aschenaziti, che rappresentano i nove decimi dell’ebraismo mondiale attuale, deve essere esclusa non solo un’ascendenza ebraica che arrivi fino al periodo biblico, ma anche l’appartenenza all’ambito semitico.

Un ebreo askenazita, lo scrittore Arthur Koestler, ha divulgato una tesi che può essere sintetizzata con queste parole, tratte dal suo libro The Thirteenth Tribe: “Durante il Medioevo la maggioranza di coloro che professavano la fede ebraica erano cazari. Gran parte di questa maggioranza emigrò in Polonia, Lituania, Ungheria e nei Balcani, dove fondò quella comunità ebraica orientale che a sua volta divenne la maggioranza predominante dell’ebraismo mondiale”[7]. Arthur Koestler fu un sionista della prima ora e, come fa notare Shlomo Sand, “fino alla fine dei suoi giorni non smise mai di sostenere l’esistenza dello Stato d’Israele (…) Quasi tutti i suoi libri furono tradotti in ebraico, riscuotendo molto successo”[8]. Tuttavia, quando uscì The Thirteenth Tribe, “l’ambasciatore israeliano in Gran Bretagna definì l’opera ‘una iniziativa antisemita finanziata dai palestinesi’”[9]. Divulgando i risultati delle ricerche storiche relative al popolo dei Cazari, Koestler faceva crollare la tesi secondo cui l’occupazione della Palestina da parte dei sionisti avrebbe rappresentato un “ritorno” degli ebrei nella loro terra d’origine.

Ma chi erano i Cazari, progenitori della maggior parte dell’ebraismo attuale? Secondo i criteri genealogici di matrice veterotestamentaria, i Cazari non appartenevano alla discendenza di Sem, né tanto meno a quella di Cam, bensì a quella di Jafet: la letteratura ecclesiastica altomedioevale li diceva infatti “figli di Magog” o comunque li localizzava “nelle terre di Gog e Magog”, mentre le fonti musulmane (ad esempio il diplomatico e viaggiatore Ibn Fadlān) li identificavano tout court con le orde dei coranici Ya’jūj e Ma’jūj (Gog e Magog), che “diffondono la corruzione sulla terra”[10]. Da Teòfane il Confessore, che li definì “Turchi orientali”, fino a Lev Gumilëv, che vide nei Cazari un gruppo daghestano o sarmatico o alano turchizzato, gli storici e gli etnologi hanno ricollegato questo popolo, in un modo o nell’altro, alla famiglia dei popoli turchi. Alcuni ritengono che il nome dei Cazari derivi da kaz (“vagabondo”) ed er (“uomo”); altri richiamano invece il nome cinese di una antica tribù ujgurica, Ko-sa[11]. In ogni caso non è possibile dare una risposta definitiva circa le origini dei Cazari. Nemmeno la loro prima apparizione sulla scena della storia è databile con certezza. Alcuni la fanno risalire a poco prima del 198 d.C., quando occuparono una parte della zona caucasica e le sponde nordoccidentali del Caspio, che prese il nome di Mare Cazaro; secondo altri, il gruppo cazaro sarebbe emerso durante la Völkerwanderung provocata nel 350 dalla vittoria degli Unni sugli Alani; altri ancora ne collocano la formazione verso la fine del VI secolo. In seguito “l’entità cazara (…) spostando progressivamente il proprio centro di gravità dall’area caspica al Mar Nero, riunì etnie assai differenti”[12], aggiungendo in particolare una componente etnica iranica (alana, per la precisione) all’originario elemento turcico. “Tale commistione etnica – scrive Francis Conte – fu certamente conseguenza della posizione dello Stato chazaro, fulcro delle grandi vie commerciali che congiungevano l’Oriente all’Occidente, il Nord al Sud; crocevia di traffici, sorta di piattaforma girevole, non solo esercitò la propria funzione nello scambio dei beni materiali ma anche nella diffusione delle idee e delle religioni”[13].

Arthur Koestler insiste sul decisivo ruolo geopolitico e geostrategico del regno cazaro. “Il paese occupato dai Cazari, una popolazione di origine turca, occupava una posizione strategica sul vitale passaggio tra il Mar Nero e il Mar Caspio, dove le grandi potenze orientali dell’epoca si confrontavano tra loro. Funzionò da stato-cuscinetto a protezione dell’impero bizantino contro le invasioni delle rudi tribù barbare delle steppe nordiche: Bulgari, Magiari, Peceneghi ecc., e più tardi Vichinghi e Russi. Altrettanto, se non più importante dal punto di vista della diplomazia bizantina e della storia europea, fu l’efficace opera di contenimento esercitata dalle armate cazare nei confronti della valanga araba nei suoi primi e più devastanti stadi, un’opera che impedì la conquista musulmana dell’Europa orientale”[14]. Prima di Koestler e di Conte, già lo storico britannico Douglas M. Dunlop aveva attribuito al regno cazaro la funzione di antemurale christianitatis: “È quasi certo – scrive Dunlop – che, se non ci fossero stati i Cazari nella regione a nord del Caucaso, la stessa Bisanzio, baluardo della civiltà europea in Oriente, si sarebbe trovata circondata dagli Arabi e la storia della Cristianità e dell’Islam forse sarebbe stata assai diversa da quella che conosciamo”[15].

Quello che si può dire con certezza è che la conquista della Persia, seguita alle vittoriose campagne del Califfo ‘Omar ibn al-Khattāb contro i Sassanidi (634-642), aveva esteso fino a Tiflis e a Derbent i confini settentrionali del dār al-islām, cosicché la Cazaria costituiva l’ostacolo che impediva alle armate musulmane di avanzare nelle pianure meridionali della Russia, da dove avrebbero potuto procedere all’accerchiamento dell’Impero Romano d’Oriente. Oltrepassato il Don, occupata l’odierna Ucraina fino al Dnepr e buona parte della Crimea, i Cazari si vennero a trovare al crocevia delle aree geopolitiche islamica e cristiana, ragion per cui il loro ceto dirigente ritenne opportuno assumere un’identità religiosa nettamente distinta da quella dei popoli vicini. Aleksandr Solženitsyn riassume nei termini seguenti questo momento cruciale della storia cazara: “I capi etnici dei turco-cazari (all’epoca idolatri) non accettarono né l’Islam (per non doversi sottomettere al califfo di Bagdad), né il cristianesimo (per evitare la tutela dell’imperatore di Bisanzio). Così, circa 732 tribù adottarono la religione giudaica”[16].

In realtà, non è affatto sicuro che la giudaizzazione di una parte del popolo cazaro abbia avuto luogo dopo la nascita del Califfato abbaside, la quale ebbe luogo nel 750. È vero che lo storico e geografo arabo al-Mas‘ūdī fa risalire la conversione agli ultimi anni del secolo VIII, ma “altre fonti orientali dichiarano il ceto dirigente cazaro – e soprattutto il khagān – convertito fin dal 730-31”[17]. A tale conversione si riferisce un’opera scritta in arabo intorno al 1140 da un intellettuale dell’ebraismo spagnolo, Yehudah ben Shemu’el ha-Lewi (1086-1141 ca.), intitolata Al-hujjah wa’d-dalīl fî nasr ad-dīn adh-dhalīl (Argomentazione e dimostrazione in difesa della religione disprezzata). L’opera, nota altresì come Kuzārī[18], riporta il dialogo che sarebbe avvenuto tra il re (bek) cazaro Bulan ed un rabbino. Il sovrano, indotto da un angelo a svolgere un’indagine sulle religioni, si rivolge prima ad un filosofo, poi a un teologo cristiano, quindi a un sapiente musulmano, ma nessuno di costoro soddisfa le sue esigenze. Ovviamente sarà un rabbino a convincerlo della superiorità del giudaismo ed a persuaderlo a convertirsi. La conversione al giudaismo non dovette però essere molto stabile, dal momento che nell’860, indotto dalla pressione islamica ad avvicinarsi a Costantinopoli, il bek dei Cazari chiese al basileus di inviargli un teologo cristiano capace di “replicare alle argomentazioni degli Ebrei e dei Saraceni”[19]. Il compito di evangelizzare i Cazari, affidato a un uomo dotto e pio che col nome di Cirillo sarebbe poi diventato celebre come “apostolo degli Slavi”, non sortì grandi risultati: i neofiti cristiani non furono più di duecento, mentre il bek e l’aristocrazia cazara restarono fedeli al giudaismo.

A fornirci qualche ragguaglio su questa classe politica dirigente giudaica è la Risposta del re Giuseppe inviata intorno al 955 da un sovrano cazaro all’ebreo cordovano Hasdai ibn Shaprut, il quale gli aveva scritto per avere la conferma dell’esistenza di un regno giudaico. Dopo avere rievocato la conversione del suo antenato Bulan, il re cazaro scrive: “Dai figli dei suoi figli sorse un re chiamato Obadia. Era un uomo retto e giusto. Riorganizzò il regno e istituì la religione in maniera corretta e irreprensibile. Costruì sinagoghe e scuole, fece venire molti dotti israeliti e li onorò con oro ed argento, ed essi gli spiegarono i ventiquattro libri [della Torah], la Mishnah, il Talmud e l’ordine delle preghiere dei Khazzan”[20]. A Obadia sarebbe succeduta una serie di sovrani dai nomi biblici: Ezechia, Manasse I, Hanukkah, Isacco, Zebulone, Manasse II, Nisi, Aronne I, Menahem, Beniamino, Aronne II, Giuseppe. Sembra lecito supporre che questa aristocrazia ebraizzata rispondesse all’attività evangelizzatrice di Costantinopoli facendosi promotrice essa stessa di iniziative missionarie, intese ad acquisire al giudaismo buona parte della popolazione cazara.

La cosiddetta Cronaca di Nestore (il Povest’ vremennych let) testimonia inoltre della sottomissione di alcune tribù slave da parte dei Cazari. Alla metà del secolo IX i Cazari attaccarono gli Slavi del medio Dnepr e imposero loro il pagamento di un tributo. Un secolo dopo, Svjatoslav I, principe della Rus’ di Kiev, mosse guerra ai Cazari e nel 968-969 distrusse la loro capitale Itil, sulla foce del Volga. “Nel 969, – scrive Solženitsyn – i Russi occupavano tutto il bacino del Volga, e le navi russe facevano la loro apparizione presso Semender, sul litorale di Derbent”[21].

Sconfitti sul campo di battaglia, i Cazari fecero ricorso all’arma religiosa. Nel 984 una delegazione cazara si recò a Kiev allo scopo di convertire al giudaismo il principe Vladimir, che quattro anni prima era salito sul trono. Da parte sua, la Rus’ kievana si trovava davanti alla necessità di una scelta di campo geopolitica e religiosa da attuarsi tra Costantinopoli, l’Occidente romano-germanico, l’area islamica e l’impero cazaro. “È la stessa cerimonia della conversione di Bulan”[22], ma stavolta la scelta è diversa. Il principe Vladimir respinse le proposte di adesione all’Islam fattegli dai Bulgari della Volga. (E “si rifletta – nota Francis Conte – su quel che sarebbe potuto accadere qualora il primo Stato russo si fosse volto all’Islam: l’avvento di una vera e propria potenza eurasiatica che il lungo periodo del ‘giogo’ tataro avrebbe ancor più ancorato all’Asia”[23]). Parimenti il principe rifiutò le sollecitazioni della delegazione cattolica di rito latino. Quindi diede udienza agli ambasciatori cazari, che lo invitarono ad abbracciare il giudaismo. La Cronaca di Nestore registra questa replica del principe: “Come istruite gli altri se voi stessi siete stati respinti da Dio e dispersi? Se Dio avesse amato voi e la fede vostra, allora voi non sareste stati dispersi per le terre straniere. O volete che ciò avvenga anche a noi?”[24]. Alla fine, come è noto, Vladimir accettò il battesimo secondo il rito greco e sposò una sorella di Basilio II, aprendo così la Russia alla civiltà bizantina.

Ebbe inizio in tal modo una diaspora che diffuse in tutta l’Europa centro-orientale i residui dell’ebraismo cazaro. Chiunque può rendersi conto che questa verità storica ha conseguenze devastanti sul mito sionista del “ritorno” ebraico in Palestina. È evidente infatti che, se la maggioranza degli Ebrei attuali trae origine da un popolo proveniente dell’Asia centrale che si insediò tra il Volga, il Mar Nero ed il Dnepr e si diffuse in gran parte dell’Europa orientale[25], la pretesa sionista viene destituita del suo fondamento, poiché i discendenti slavizzati di un popolo altaico non possono vantare alcun “diritto storico” a “ritornare” in una terra in cui i loro antenati non hanno mai vissuto.

NOTE

[1] Roger Garaudy, I miti fondatori della politica israeliana, Graphos, Genova 1996.

[2] Shlomo Sand, L’invenzione del popolo ebraico, Rizzoli, Milano 2020.

[3] Peter G. J. Pulzer, The rise of political anti-Semitism in Germany and Austria, Wiley, New York 1964, pp. 49-52.

[4] Renato Biasutti, Le razze e i popoli della terra, Utet, Torino 1967, p. 563.

[5] Maurice Fishberg, The Jews: A Study of Race and Environment, London – New York 1911, p. 181.

[6] Paul Wexler, The non-Jewish origins of the Sephardic Jews, State University of New York Press, Albany 1996.

[7] Arthur Koestler, La tredicesima tribù, Torino 2003, p. 119.

[8] Shlomo Sand, op. cit., p. 354.

[9] Shlomo Sand, op. cit., p. 356.

[10] “Inna Ya’jūja wa Ma’jūja mufsidūna fī ’l-ard” (Cor. XVIII, 94).

[11] Douglas Dunlop, The History of the Jewish Khazars, Schocken, New York, 1967, pp. 34-35.

[12] Francis Conte, Gli Slavi. Le civiltà dell’Europa centrale e orientale, Einaudi, Torino, 1990, p. 412.

[13] F. Conte, op. cit., pp. 412-413.

[14] Arthur Koestler, La tredicesima tribù, cit., p. 5.

[15] D.M. Dunlop, The History of the Jewish Khazars, Princeton University Press, Princeton 1954, p. x.

[16] Aleksandr Solgenitsin, Due secoli insieme. Ebrei e Russi prima della rivoluzione, Controcorrente, Napoli, 2007, vol. I, pp. 13-14.

[17] F. Conte, op. cit., p. 413.

[18] Yehudah ha-Lewi, Il re dei Khàzari, Bollati Boringhieri, Torino, 1991.

[19] F. Dvornik, Les légendes de Constantin et de Méthode vues de Byzance, Prague, p. 168.

[20] Letter from Rabbi Chisdai to King Joseph, in: Yehuda HaLevi, The Kuzari: In Defense of the Despised Faith, Jason Aronson, Northvale, 1998, p. 349.

[21] A. Solgenitsin, op. cit., p. 14.

[22] Aldo C. Marturano, Mescekh. Il paese degli ebrei dimenticati, Atena, Poggiardo, 2004, p. 162.

[23] F. Conte, ibidem.

[24] Racconto dei tempi passati. Cronaca russa del secolo XII, cit., p. 50.

[25] Sulla presenza cazara in Ungheria, in Transilvania, in Polonia e in Ucraina, cfr. C. Mutti, Chi sono gli antenati degli Ebrei?, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. VI, n. 2, Maggio-Agosto 2009, pp. 25-34; L’Ucraina sarà un “grande Israele”?, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. XIX, n. 3, Luglio-Settembre 2022, pp. 9-12.

Fonte: https://www.eurasia-rivista.com