Tipologie di nichilismo interiore della condizione umana nel Postmoderno
Nel precedente articolo Il declino della Psicoanalisi come theoria e praxis terapeutica globale, abbiamo sinteticamente descritto l’esplosione di una nuova tensione sociale, almeno a partire dal boom economico degli anni ‘60 del XX Secolo. Una tensione a carattere sociale, non più racchiusa nei termini marxiani di lotta di classe, né in quelli di scontro politico-sociale, ma una tensione scatenatasi ad intra, dentro le profondità dell’uomo stesso, capace di attanagliare corpo e mente, diffusasi rapidamente in tutta la società e conosciuta come Sindrome da Stress. Anche se lo stress oggi è considerato convivente “normale” del vivere civile, esso ha aperto la porta a tutta una serie di disturbi neurobiologici che passando gradualmente attraverso ansia, depressione, nevrosi, approdano nel Disagio sociale dell’attuale Era postmoderna – un disfacimento sociale e dell’integrità antropologica dell’individuo sapientemente stigmatizzato da Aleksandr Dugin negli scritti sulla Quarta Teoria Politica –, il quale ha sviluppato due drammatici disturbi neurobiologici dall’esito interiormente nichilistico, denominati Autismo sociale e Morte psichica.
Iperconcentrazione, patologia dell’Autismo sociale e via verso la morte interiore
L’Autismo sociale, dal punto di vista psicosociologico si configura come un disturbo generato dall’aggressione multimediale odierna sempre più oppressiva, assorbente e ipnologica, capace di creare iperconcentrazione mentale e conseguente disfacimento organico delle relazioni interpersonali e sociali. Telefonate, relazioni virtuali basate sull’uso delle chat e dei social network – quale surrogato tecnologico della relazione interpersonale e, al dire di Emmanuel Lévinas, impedimento alla vera “conoscenza del volto dell’altro come rivelazione di una trascendenza” – [1], sembrano solo in minima parte attenuare questa deriva autistica di tipo iperconcentrativo, diffusa in progressione storica e sempre più capillarmente da personal computer, tablet e smartphone, i quali hanno imbrigliato in modo egemone gli umani postmoderni nel paradisiaco cloud del network globale.
Come sottolinea la psicologa clinica Adriana Lis: «La concentrazione, a differenza dell’attenzione, focalizza la coscienza su un determinato argomento con la esclusione di altri contenuti emotivi e di pensiero. Questo implica uno sforzo concreto o volontario in contrasto con il carattere spontaneo dell’attenzione. Si tratta di un intervento attivo sulla realtà esterna con l’impiego di sovrainvestimenti per controllare gli investimenti pulsionali e tenere fuori dalla coscienza le rappresentazioni ideative di questi ultimi, che interferiscono con l’attenzione. In un Io debole e disintegrato, la concentrazione diventa difficoltosa perché non è capace di tali sovrainvestimenti». [2]
La Lis ci porta a riflettere sulla condizione attuale di molti studenti e di molti professionisti, i quali pur non possedendo un Io disintegrato come nel caso della psicosi autistica, tuttavia hanno un Io debole che non permette loro di avere una “resa” qualitativa, ossia non consente loro di far fruttare i naturali talenti posseduti, né da ad essi la possibilità di affermarsi nello studio o nella professione. Tuttavia, in questi soggetti affetti da un Io debole, si osserva contemporaneamente una notevole capacità da parte loro di essere letteralmente assorbiti per molte ore dalla tecnologia multimediale di tablet, smartphone o playstation, strumenti virtuali che li portano verso un assorbimento iperconcentrativo basato sul potere ipnotico dello schermo, che a nostro avviso diventa poi una delle cause principali della mancata capacità di sovrainvestire energie in una serena e utile concentrazione, come lo studio e il lavoro normalmente richiederebbero.
Questa patologia, socioclinicamente definibile come Autismo sociale, in cui si è vittime di una iperconcentrazione da schermo su base ipnologica-immaginativa, assomiglia molto ad alcune forme di iperconcentrazione autistica descritte dalla psicomotricista Anne-Marie Wille, la quale afferma: «Non è ancora chiaro se questa iperconcentrazione dell’attenzione sia un fenomeno primario dell’autismo o se rappresenta piuttosto una reazione, o un adattamento al bombardamento sensoriale da cui i soggetti cercano di difendersi. Comunque sia, sembrerebbe che gli autistici pensino soprattutto in termini visivi, il che genererebbe straordinarie capacità a comporre puzzle, a smontare giocattoli meccanici o a decodificare testi scritti». [3]
Lo psichiatra Romeo Lucioni, è stato forse il primo a parlare apertamente di “Autismo sociale”, anche se prettamente in termini di relazione etica: «Riflettere sull’autismo non è solo indagare sulle disabilità, bensì capire di essere di fronte ad una persona, perché nessuna disabilità può essere considerata “perdita di umanità”. Se ci fermiamo a considerare il “mancante”, usiamo un criterio quantitativo, proprio del computo di oggetti, assolutamente inaccettabile riferito agli esseri umani. Solo attraverso criteri qualitativi, è possibile differenziare tra salute e malattia, tra felicità ed infelicità. Se l’autismo, quantitativamente, è definibile come incapacità a relazionarsi ed a comunicare, ad organizzare il linguaggio, a fissare concetti o ad esteriorizzare affetti, possiamo anche affermare che la società e gli uomini che la costituiscono soffrono anch’essi di… “autismo sociale”. Abituarsi a vedere la sofferenza senza reagire, a guardare la miseria senza compiangere non è meno autistico del comportamento di un bambino con questa disabilità. L’anaffettività, l’ipocrisia, l’abitudine al dramma, il daltonismo etico che affliggono la nostra società sono da considerarsi alla stregua della “malattia della indifferenza”. Se consideriamo la uguaglianza e la differenza come espressioni di umanità, al contrario, l’indifferenza è qualcosa di spurio e veramente temibile». [4]
La psicoterapeuta Margherita Gurrieri, nel suo articolo “Gli effetti cognitivi e psicologici della televisione: la revisione di Desmurget della letteratura esistente”, così sintetizza il pensiero del ricercatore francese Michel Desmurget sugli effetti di compromissione cognitiva nei bambini da parte di una prolungata esposizione alla TV. Desmurget, con grande coraggio azzarda addirittura il termine “lobotomia della TV”, per dimostrare scientificamente una convinzione che nella sostanza rimane la stessa, ossia la tendenza all’isolamento e alla malattia provocata dall’abuso autistico dei mezzi multimediali:
«Michel Desmurget ricercatore francese presso l’INSERM, ha pubblicato un libro dal titolo “TV Lobotomie, la vérité scientifique sur les effect de la télévision” (2011). Questo libro ci offre una sintesi di tutto ciò che gli scienziati conoscono sui legami tra consumo televisivo e sviluppo cognitivo. Da questa revisione di 4000 articoli scientifici emergono dati allarmanti:
1) Esiste una forte evidenza che, a parità di condizioni, lo sviluppo intellettuale dei bambini sia influenzato dall’esposizione alla televisione, con un effetto ancora più forte se il consumo inizia presto (0-3 anni). Gli studi dimostrano che in questa fascia d’età, il solo fatto di aver una televisione accesa in una stanza senza guardare influenzerebbe lo sviluppo intellettuale. Il dato interessante è che questo impatto sulla maturazione cognitiva non è legato alla qualità o al contenuto dei programmi, ma alla natura non-interattiva della televisione. In altre parole, guardare la televisione è un’attività estremamente passiva. L’autore cita diversi esempi di studi che hanno dimostrato che l’introduzione della televisione ha effetti negativi sul comportamento infantile, e viceversa, la “disintossicazione” dalla televisione può avere effetti positivi abbastanza veloci (se valutiamo il successo accademico, il sonno, l’autocontrollo ecc.).
2) Il consumo di televisione ha un importante legame con molti comportamenti a rischio per la salute come l’alimentazione sregolata, la sedentarietà, il fumo, l’alcolismo, la sessualità incontrollata tra gli adolescenti. Riguardo al fumo, ad esempio, gli studi dimostrano che per gli adolescenti il semplice atto di vedere film in cui appaiono persone che fumano aumentano la possibilità di diventare un fumatore. Secondo Desmurget, quindi la televisione nuoce indirettamente alla salute, incidendo di conseguenza sui costi sanitari.
3) L’analisi di Desmurget conferma i risultati di una consistente mole di ricerche che dimostrano che il consumo di televisione incide sui livelli di ansia e rabbia». [5]
Eli Pariser, specialista di dinamiche internet, cofondatore di Avaaz.org, a proposito della conduzione “a filtri personalizzati” della rete, teme il rischio di una società dell’Adderal, in cui l’iper-concentrazione potrebbe rappresentare la fine della cultura e delle migliori capacità della mente umana:
«L’Adderal è un farmaco costituito da una miscela di anfetamine. Generalmente prescritto a chi soffre del disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), è diventato un aiuto fondamentale per migliaia di studenti stressati, perché permette loro di concentrarsi per lunghi periodi di tempo su una ricerca astrusa o su una complessa esercitazione di laboratorio senza addormentarsi. Sulle persone che non soffrono di ADHD, l’Adderal esercita anche un altro effetto. “(…) dice lo scrittore Josh Foer in un articolo pubblicato su Slate. “Di solito non riesco a stare davanti allo schermo del computer per più di venti minuti. Con l’Adderal riesco a lavorare per ore”. In un mondo fatto di continue interruzioni, e in cui il lavoro richiede sempre più impegno, l’Adderal è un valore aggiunto irresistibile. A chi non piacerebbe avere una maggiore capacità di concentrazione? Per i sempre più accesi sostenitori del neuropotenziamento, l’Adderal e altri farmaci simili potrebbero essere addirittura la chiave del nostro futuro economico. “Oggi un cinquantacinquenne di Boston deve competere con un ventiseienne di Bombay, e questo tipo di pressione – a usare farmaci che migliorano le prestazioni – aumenterà sicuramente” ha dichiarato a un corrispondente del New York, Zack Lynch della società di consulenza in materia di neurotecnologie NeuroInsight.
«Ma l’Adderal produce anche gravi effetti collaterali. Provoca dipendenza. Dopo averlo usato per una settimana, Foer è rimasto colpito dalla sua capacità di sfornare pagine e pagine di testo e di leggere corposi saggi accademici. Ma, ha aggiunto, “era come se avessi i paraocchi”. (…) Martah Farah, che dirige il Center for Cognitive Neurosciences dell’Università della Pennsylvania, è ancora più preoccupata: “Temo che stiamo allevando una generazione di ragionieri molto concentrati”. Come per molti farmaci psicoattivi, non sappiamo perché l’Adderal produce certi effetti, né li conosciamo tutti. Ma sembra che in parte funzioni aumentando i livelli di un neurotrasmettitore detto norepinefrina che ha alcuni effetti molto particolari: prima di tutto, riduce la nostra sensibilità a nuovi stimoli. I pazienti affetti da AHDH la definiscono “iperconcentrazione”, una sorta di stato di trance che permette di focalizzare l’attenzione su una cosa escludendo tutto il resto. Su internet, i filtri personalizzati potrebbero favorire lo stesso tipo di concentrazione intensa e focalizzata che si ottiene assumendo farmaci come l’Adderal. Se ci piace lo yoga, riceviamo più informazioni e notizie sullo yoga e meno, per esempio, sul birdwatching o sul baseball. In realtà, la ricerca della rilevanza perfetta e quella dello stato mentale che favorisce la creatività viaggiano in direzioni opposte. (…) Per definizione, l’ingegnosità nasce dalla giustapposizione tra idee normalmente lontane l’una dall’altra, e la rilevanza deriva dal trovare idee simili tra loro. In altre parole, la personalizzazione potrebbe spingerci verso una società dell’Adderal, in cui l’iperconcentrazione finirà per sostituire la cultura generale e la capacità di sintesi». [6]
Concludendo, siamo convinti che l’Autismo sociale indotto dalla società multimediale, sia che venga prodotto dall’assunzione di farmaci anfetaminici performanti sia che risulti come conseguenza della invasività iperconcentrativa della rete – favorita anche dal corto raggio di stimolo visivo sullo schermo di PC, playstation, tablet o smartphone che simula perfettamente quell’autoipnosi speculare di tipo subliminale praticata dagli ipnotisti del passato davanti allo specchio –, rappresenti il punto di non ritorno del processo di disgregazione della società e dell’essere umano come persona e individuo, a favore di un dividuo di genere, schiavo dell’intossicazione farmacologica, dell’alterazione mentale e della manipolazione multimediale. Quindi, un non-individuo, un dividuo socialmente e antropologicamente disintegrato, manipolato dai poteri forti che condizionano il vivere sociale, teso verso una sicura morte interiore che stimola in lui anche il desiderio di porre fine alla propria esistenza terrena e/o a quella altrui (omicidio/suicidio), quando le condizioni di benessere economico e sociale offerti dalla società postmoderna gli sfuggono di mano e diventano per lui irrealizzabili, realizzando in sé stesso la condizione di essere vittima della cultura dello scarto.
Notte oscura e Morte psichica
Nel tracciare i lineamenti propri della Morte psichica attraverso i testi di esperti in questa patologia psichiatrica, abbiamo preventivamente deciso di interfacciarla con l’esperienza spirituale della Notte oscura, al fine di sottolineare sia le differenze sostanziali sia le similitudini psicologiche che intercorrono tra questi due eventi esistenziali. Eventi umanamente terribili, che configurano la Notte oscura come morte spirituale dell’umanità egocentrica e nascita dell’umanità altruistica sotto l’influsso diretto del Divino, mentre la Morte psichica rappresenta come vedremo la morte dell’anima, la paralisi della mente e del cuore, il decadimento psicotico del corpo umano.
Notte oscura, è il termine specifico con cui si qualifica l’esperienza antropologica detta di morte spirituale, una prova che risulta psicologicamente invalidante se la stessa non viene sperimentata con l’aiuto e la guida di un insegnante profondamente esperto nell’ascesi e nelle tecnologie neuromeditative. Anche se non sembra avere una grande rilevanza sociale, l’esperienza della Notte oscura appartiene alla nutrita minoranza di coloro che cercano di sfuggire il malessere del disagio sociale attraverso il rifugio nello spirituale. Oggi, il fai da te a base di pseudo terapie immaginative, creative, ipnologiche, spesso associate ad un errato approccio di tipo discorsivo o iperconcentrativo alla consapevolezza (mindfulness) o alle tecniche respiratorie, riscuote un crescente successo e viene spacciato come approccio esistenziale di target meditativo, nonostante la meditazione sia nella sua essenza la pratica del silenzio interiore con l’astensione da ogni attività della mente/cuore, che genera in successione temporale prima lo stato di immersione, quindi lo stato di vuoto mentale (vacuum state), poi gli stati di intuizione, consapevolezza e, infine gli stati di coscienza superiori.
Il cammino di immersione nel silenzio, si rivela proposta efficace sia quale forma di addestramento mentale all’azione, sia come trattamento preventivo dello stress, dei disturbi ansioso-depressivi e delle nevrosi, in vista di un processo di liberazione interiore capace di innescare i meccanismi interni dell’autoguarigione. Tuttavia, come abbiamo già scritto in un articolo precedente e che qui ribadiamo, questa pratica d’immersione – in ambito strettamente monastico o laicale – viene anche attuata quale predisposizione psicofisica all’esperienza contemplativa cristiana e risulta parte primaria e sostanziale della meditazione buddhista zen. In questi due casi, l’immersione nel silenzio produce effetti psicologici che possono risultare radicalmente diversi rispetto al suo abituale uso salutistico. Infatti, da una parte, si ha un progressivo superamento del senso di paura della morte come evento personale, capace di arrivare ad una vera e propria imperturbabilità. Dall’altra, può affacciarsi alla coscienza del meditante l’esperienza del makyō (dal giapponese ma = demonio, maligno; kyō = condizione), molto simile allo stato interiore di akèdia (=accidia) vissuta nella tradizione monastica cristiana a partire da Sant’Antonio abate e dai Padri del deserto egiziano. Si tratta, sostanzialmente, di una serie di pulsioni subcoscienti e/o preternaturali che distraggono dalla pratica meditativa, creando turbamento, visioni ossessive, senso di impotenza esistenziale, paralisi nella sfera spirituale e psicoaffettiva, esperienza di morte interiore. Quest’ultima terrificante esperienza tanatologica, ossia lo sperimentare interiormente la morte spirituale, è un tema ricorrente in tutte le spiritualità contemplative.
La teologia spirituale cristiana, dalla traditio mystica dei Padri della Chiesa ad oggi, per indicare questa morte interiore ha sempre usato il termine Notte oscura. Essa possiede delle relazioni di somiglianza e dei parallelismi più o meno apparenti con la Morte psichica tema caro al mondo della psicoanalisi e da essa affrontato con grande energia. Si può addirittura affermare, senza nessun timore di sorta, che molti dei disagi psicotici che insorgono nella Morte psichica intervengono a caratterizzare anche la Notte oscura. Tuttavia, la differenza radicale esistente tra queste due esperienze esistenzialmente borderline, permette alla Morte psichica di connotarsi come esperienza a contenuto socionevrotico che può maturare in psicosi, mentre la Notte oscura (detta anche morte mistica) può essere definita come un drammatico e autentico rivolgimento cosmico interiore sotto l’influenza diretta dello Spirito Santo, capace di far morire l’uomo vecchio in Adamo per farlo risorgere come uomo nuovo in Cristo.
Lo psicanalista clinico Michael Eigen, illustra in modo efficace i connotati esistenziali della morte psichica, descrivendone sinteticamente le principali varianti: «La morte psichica è un tema piuttosto noto dal punto di vista clinico, e oggi più gente che in passato cerca aiuto per ovviare al senso di morte di cui è vittima. Sebbene il fatto di sentirsi morti costituisca la lamentela principale di molti individui, non è ancora ben chiaro da dove questa sorta di torpore psichico provenga o come vi si possa porre rimedio. Esistono molte varianti della morte psichica. In alcuni individui essa non invade grandi aree psichiche. È una sorta di sotto tema che risuona in un’esistenza più ricca e piena, o forse un polo di carica opposta ma ben circoscritto che si manifesta a tratti, oppure come presenza ossessiva di fondo. Talvolta poi diventa un fenomeno preponderante, sicché viene da domandarsi, non senza un brivido, cosa faremmo se fagocitasse la nostra intera esistenza; se diventasse tutto ciò che rimane. Si aspetta che il senso di morte si affievolisca e di solito ciò accade, perché si accompagna a una grande varietà di stati d’animo e dell’essere. Alcuni hanno degli spazi personali in cui la presenza della morte psichica è mantenuta a livello pressoché costante. Costoro si abituano a convivere con aree psichiche di morte. Certo desidererebbero essere più vivi e che la vita offrisse loro di più, ma si accontentano di quello che hanno: per una vita tutto sommato soddisfacente, una certa dose di senso di morte interiore non è un gran prezzo da pagare. Ecco che le persone si adattano a essere meno di quanto potrebbero, a sentire meno di quanto riuscirebbero a sentire; si convincono di essere felici per quanto è possibile o persino di più. E più o meno finiscono col crederlo perché temono, e a ragione, che le cose potrebbero andare peggio. Per altre persone, il senso di morte è pervasivo. Queste si descrivono come zombie, morti viventi, vuoti e incapaci di “sentire”».[7]
Il tema psicanalitico della Morte psichica viene approfondito con notevoli competenze di ricerca e in un quadro epistemologicamente esaustivo da Andrea Vignolo, nella sua Tesi di Laurea: «Innanzi tutto occorre delineare, per quanto possibile, il concetto di morte psichica; (…) il termine non fa riferimento ad un preciso quadro psicopatologico e non è operazionalizzabile, cioè non è basato su specifici riscontri oggettivi, come potrebbe essere quello, ad esempio, di morte cerebrale. Una caratteristica fondamentale del concetto di morte psichica è infatti quella di non essere collegabile ad un fenomeno discreto, come è quello che si riferisce alla morte fisica. Si tratta invero di uno scivolamento progressivo verso una sorta di glaciazione dell’essere (Resnik 1999), il soggetto non vi è catapultato, non vi giunge all’istante, ma soprattutto il punto di arrivo è indefinito e, a differenza della morte fisica o cerebrale, mai costituito da una totale assenza di vita.
«La morte psichica è in questo senso riferita ad un vero e proprio continuum e, come sostengono molti clinici a partire dalla Klein, il percorso verso l’annullamento psichico non solo può essere interrotto ma talvolta è possibile anche ripercorrerlo all’inverso, verso un mondo interiore che può tornare ad essere nuovamente vivo e integrato (Klein 1921-1945). Come afferma Resnik, nello psicotico cronico non solo la capacità di sentire la vita si blocca ma, non bastando questo a risolvere l’impensabile dolore psichico, viene attivata a livello intrapsichico una sorta di “anestesia per congelamento”, così da determinare un vero e proprio stato di morte psichica apparente; tuttavia, afferma l’autore, talvolta a seguito di lunghi ed estenuanti interventi terapeutici il paziente si scongela, ritorna alla vita e quindi torna a provare dolore psichico (Resnik 1999), attraverso quello che Bion definisce un cambiamento catastrofico (1965).
Come spiega Eigen, un “senso di morte” può assumere varie forme e colpire individui iper o ipo-stimolati, “Alcuni individui sono raggelati nei sentimenti negativi, altri in quelli buoni. È come se fossero rinchiusi in blocchi di ghiaccio affettivo dalle polarità opposte” (Eigen 1996). Lo stesso può inoltre variare in intensità ed essere causa di una menomazione totale della vita intera o solo di una parte di essa. Spesso, poi, uno dei genitori, e in special modo la madre di questi soggetti, ha sofferto di depressione, con il risultato di trasmettere ai figli emozioni in modo discontinuo (Eigen 1996)”.
Il senso di morte può essere legato alla vacuità e all’assenza di significato, ma non coincide con questi due elementi: ho visto individui colmi di emozioni e di significato, ma che in qualche modo non vengono toccati dalle loro esperienze, e che, anzi, si mostrano inaccessibili e immuni alla potenziale ricchezza di quanto stanno sperimentando. Costoro lamentano un senso di morte che perdura anche nella prosperità” (Eigen 1996). Utilizzando l’espressione “senso di morte”, invero, si presuppone la presenza di un soggetto che “sente”, che prova una sensazione, e soprattutto un soggetto che tale sensazione è in grado in qualche modo di riferire ad un Altro che ascolta. Ciò potrebbe apparire in contraddizione con una realtà di morte psichica se non si tenesse in considerazione appunto il continuum di cui si è parlato sopra. La completa, o quasi, incapacità di sentire e di riferire questo non-sentire la si ritrova infatti solo in quei pazienti così gravemente congelati e impoveriti psichicamente da essere molto vicini al livello “Zero” proposto da Green (1983). A più riprese, infatti, lo stesso Eigen sottolinea come esistano molte varianti di morte psichica: in certi soggetti la morte psichica pare non aver interessato grandi aree del funzionamento psichico, ma rappresenta una sorta di sottofondo; in certi altri diventa preponderante. “Una forma di dolore catastrofico connesso al non sentirsi esistenti (…)” (Borgogno 2003). Alcuni soggetti, afferma Eigen, si abituano a convivere con aree psichiche di morte e si convincono in qualche modo di essere felici. Per altre persone, invece, il senso di morte è addirittura pervasivo (Eigen 1996) ».[8]
Per quanto riguarda invece la morte mistica, Franco Michelini Tocci, esperto di mistica cristiana e buddhista, riesce a sintetizzare in modo sapiente la totalità di quegli aspetti psicologici che coinvolgono l’insegnamento di San Giovanni della Croce sulla Notte oscura:
«Il termine notte oscura non è inventato da Giovanni, anche se è lui a fornirgli diffusione e fama, ma è ripreso dalla tradizione mistica, in particolare da Gregorio Nisseno, dallo Pseudo-Dionigi e da Taulero. Tuttavia fu Giovanni della Croce ad attribuirgli quel valore centrale che ne fa l’espressione sintetica dell’esperienza mistica. Su di essa ci sono vari fraintendimenti, il più frequente dei quali è quello di identificare notte oscura con sofferenza e nient’altro, senza tener presente che l’espressione si riferisce invece a tutti i momenti dell’esperienza e quindi anche a quello culminante, quando diventa “notte pacifica, abissale e oscura intelligenza divina”, allorché l’anima si unisce a Dio “trasformata dall’amore”. Ma essa è notte, oltre tutto ciò, anche perché è il luogo dove agisce la fede, che procede nell’oscurità, cioè nella non conoscenza dell’obiettivo finale. Inoltre questa notte ha due modalità, che sono l’attiva e la passiva, la prima fatta di opportuni sforzi da parte dell’interessato, la seconda data per grazia. Si tratta dunque di una progressiva trasformazione, che è una purificazione del soggetto, il quale perde uno dopo l’altro i suoi attaccamenti ai sensi e alle facoltà psichiche (intelletto, immaginazione e desiderio).
Questa trasformazione purificante è di notevole interesse psicologico, perché il suo punto di partenza, sul quale poi si basa tutto il successivo sviluppo, consiste nel pratico riconoscimento che ogni desiderio è ingannevole, nel senso che nemmeno il desiderio realizzato riesce mai ad essere completamente o definitivamente appagante. Il graduale raggiungimento di questa basilare convinzione (così contraria al comune sentire) determina quella che sopra chiamavamo “purificazione passiva”. Si tratta di un processo doloroso, in cui gli oggetti del desiderio perdono progressivamente significato, rivelando la loro sostanziale insoddisfacenza (è quello che nel buddhismo va sotto il nome di “prima nobile verità” o riconoscimento di dukkha, la sofferenza universale). Dall’analisi accurata che l’autore fa di tutte le illusioni e gli errori in cui può cadere un principiante, si capisce che per Giovanni l’ultima illusione che deve cadere è quella che il cammino mistico possa diventare l’unico desiderio con promesse di appagamento, una volta che tutti gli altri si sono rivelati ingannevoli. Anch’esso, il fine spirituale, deve quindi diventare una notte oscura, pena la sua fallacia; anch’esso deve deludere e non dare quello che all’inizio si sperava che desse. E proprio questo è il momento cruciale che è l’inizio della catarsi, il vero principio di un mutamento di rotta salvifico, perché solo in esso può generarsi la convinzione che tutte le attese sono fallaci e che l’unica realtà è il presente così com’è, nella sua nuda semplicità tranquillamente accettata, cioè contemplata con un semplice sguardo fiducioso-amoroso. Nel momento della rinuncia a ogni vana speranza (una deleteria passione dell’anima la definisce Giovanni) si può gustare un’autentica pace, che sembra anche l’unica possibile, perché solo in essa si è finalmente in unità con la vita (e dunque con Dio)».[9]
Il carmelitano Ermanno Ancilli, esperto di spiritualità cristiana e non cristiana, ricapitola in modo incisivo e calzante la drammatica esistenziale e le finalità mistiche della Notte oscura con il correlato purificazione-contemplazione che trasforma progressivamente l’anima in Dio: «San Giovanni della Croce, portandoci dalle prime orazioni ascetiche alle sublimi trasformazioni dello sposalizio spirituale, che è lo sbocciare perfetto e cosciente della vita della grazia, ci descrive una prodigiosa avventura, la quale è tutta quanta un dramma di morte e di risurrezione. L’anima deve morire ai gusti carnali, ma per nascere a quelli spirituali; morire a questi, ma per nascere al gusto di Dio; morire a quest’ultimo, ma per risuscitare attraverso la rinascita dello spirito trasformato dall’amore. Itinerario, dunque, di crescente interiorizzazione in una crescente trasformazione in Dio. È questo il racconto di un lungo dramma, che finisce, dopo la notte e la morte, in una infinita esplosione di gioia, in un corale inno alla Luce e alla Vita.
Le varie tappe di questa formidabile e appassionante avventura nel fascinoso mondo dello spirito, esprimono tutte una diversa preghiera Si inizia con la ricerca meditativa (meditazione discorsiva o oggettivale n.d.r.) di Dio, la quale, esercitata con fedeltà, aumenta in semplicità e raccoglimento. Il concetto, l’immagine e la parola sono le espressioni tipiche di questa preghiera.
Una prima diretta comunicazione di Dio, che forma la notte passiva del senso, rendendo impossibile la meditazione, costituisce l’inizio della preghiera contemplativa. In questa fase si ha l’incontro di una certa infusione di luce divina con l’attività semplificata dell’anima, frutto connaturale della meditazione. La parola e il pensiero distinto cominciano ad allontanarsi sconfitti dalla potenza della luce divina, e non resta altro che tacere ed amare: comincia l’arcano silenzio: “Deus honoratur silentio” (S. Th., In Boetium De Trinitate, q. 2, a. 1, ad 6).
La fiamma di Dio, facendosi sempre più penetrante e purificatrice investe in una seconda tremenda notte, attraverso le potenze, lo spirito, per trasformarlo e unirlo a sé: prima la volontà, poi, con la volontà, tutto l’essere. La preghiera dell’anima diventa così, progressivamente preghiera di Dio: dal semplicissimo e sostanziale “Sì” del fidanzamento mistico, al preludio della preghiera eterna e paradisiaca, nel matrimonio spirituale. Qui “Dio e l’anima si godono in altissimo silenzio” (M VII, 3, 11). L’anima entra cosi, ancora pellegrina sulla terra, nell’intimità della vita divina e, attraverso veli sempre più tenui e luminosi, il suo sguardo arriva prima ad un abisso di luce indistinta e poi alle Persone viventi, che sono per lei il Dio Uno-Trino. Panorami sconfinati si scoprono e si contemplano da queste altezze. Il mondo non racchiude più alcun mistero per l’anima immersa nelle profondità di Dio, il quale muovendosi “nella sostanza dell’anima”, sembra trascinare nel suo moto tutta la Creazione di cui è il centro. “Si tratta di un movimento, il quale è di tanta soavità, di tanta grandezza, maestà e gloria, che all’anima sembra che vengano rimescolati tutti i balsami, tutte le erbe odorose e i fiori del mondo affine di spargere la loro fragranza, e che tutti i regni ed imperi della terra e tutte le potestà e virtù del cielo si muovano. (…) L’anima conosce qui chiaramente come tutte le creature celesti e terrene hanno la loro vita, forza e durata in Dio” (F IV, 4-5). Possedendo Dio, ella possiede tutto, e perciò innalza la sua ultima trionfante preghiera: “I cieli sono miei, mia è la terra; mie sono le genti, miei i giusti e i peccatori gli angeli sono miei, la Madre di Dio è mia e tutte le cose sono mie; e Dio stesso è mio e per me, perchè Cristo è mio e tutto per me. Che cerchi e domandi, anima mia? Tutto questo è tuo e tutto è tutto per te”. Rinunciando a tutto, è giunta a posseder tutto e a fare della vita un’incessante divina preghiera, anticipo e preludio della preghiera celeste».[10]
Il teologo cappuccino Raniero Cantalamessa, analizza con grande competenza il coinvolgimento totale nella Notte oscura di Madre Teresa di Calcutta, sia nei rilievi spirituali sia nel disagio psicologico ed esistenziale che la santa ha provato dal momento in cui in modo definitivo ella fece la definitiva “scelta dei poveri”: «Cosa successe dopo che Madre Teresa disse il suo sì all’ispirazione divina che la chiamava a lasciare tutto per mettersi a servizio dei più poveri dei poveri? Il mondo ha conosciuto bene ciò che avvenne intorno a lei ― l’arrivo delle prime compagne, l’approvazione ecclesiastica, il vertiginoso sviluppo delle sue attività caritative ―, ma fino alla sua morte nessuno ha conosciuto ciò che avvenne dentro di lei. Lo rivelano i diari personali e le lettere al suo direttore spirituale, di cui è imminente la pubblicazione a cura della Postulazione della causa per la canonizzazione. Non credo che gli editori, prima di decidersi a darli alle stampe, abbiano dovuto superare la paura che tali scritti possano suscitare sconcerto o addirittura scandalizzare i lettori. Lungi da diminuire la statura di Madre Teresa, essi infatti la ingigantiscono, ponendola a fianco dei più grandi mistici del cristianesimo. “Con l’inizio della sua nuova vita a servizio dei poveri ― scrive il gesuita Joseph Neuner che le fu vicino ―, una opprimente oscurità venne su di lei”. Bastano alcuni brevi stralci per darci un’idea della densità delle tenebre in cui si venne a trovare: “C’è tanta contraddizione nella mia anima, un profondo anelito a Dio, così profondo da far male, una sofferenza continua ― e con ciò il sentimento di non essere voluta da Dio, respinta, vuota, senza fede, senza amore, senza zelo… Il cielo non significa niente per me, mi appare un luogo vuoto”. Non è difficile riconoscere subito in questa esperienza di Madre Teresa un caso classico di quello che gli studiosi di mistica, dietro san Giovanni della Croce, sono soliti chiamare la notte oscura dello spirito. Taulero fa una descrizione impressionante di questo stato: “Allora veniamo abbandonati in tal modo da non aver più nessuna conoscenza di Dio e cadiamo in tale angoscia da non sapere più se siamo mai stati sulla via giusta, né più sappiamo se Dio esiste o no, o se noi stessi siamo vivi o morti. Cosicché su di noi cade un dolore così strano che ci pare che tutto quanto il mondo nella sua estensione ci opprima. Non abbiamo più nessuna esperienza né conoscenza di Dio, ma anche tutto il resto ci appare ripugnante, sicché ci pare di essere prigionieri tra due mura”. Tutto lascia pensare che questa oscurità accompagnò Madre Teresa fino alla morte, con una breve parentesi nel 1958, durante la quale poté scrivere giubilante: “Oggi la mia anima è ricolma di amore, di gioia indicibile e di una ininterrotta unione d’amore”. Se a partire da un certo momento non ne parla quasi più, non è perché la notte è finita, ma perché ella si è ormai adattata a vivere in essa. Non solo l’ha accettata, ma riconosce la grazia straordinaria che racchiude per lei. “Ho cominciato ad amare la mia oscurità, perché credo ora che essa è una parte, una piccolissima parte, dell’oscurità e della sofferenza in cui Gesù visse sulla terra”. [11]
La strada comune dell’A-teismo
Ci sembra giusto concludere questo Articolo sulle Tipologie di nichilismo interiore della condizione umana nel Postmoderno, rappresentate dall’Autismo sociale e dalla Morte psichica – quest’ultima messa in relazione con la Notte oscura – sottolineando come il tema esistenziale dell’A-teismo vissuto volutamente come ideologia e incapacità di credere o subito socialmente come consumismo, sia una delle condizioni di anomalia del Postmoderno e un vissuto comune che lega involontariamente tra di loro i cosiddetti atei di volontà propria con gli atei de facto, in quanto subenti la Morte psichica o la Notte oscura. A tal proposito, vogliamo citare il paragrafo “A fianco degli atei” del medesimo Articolo su Madre Teresa di Calcutta, in cui Padre Raniero Cantalamessa traccia un interessante parallelo tra gli atei in buona fede e l’ateismo subito dai mistici cristiani, ad immagine del Figlio di Dio che morendo sulla croce ha sperimentato il suo a-teismo, ossia il suo essere senza-Dio:
«Il mondo d’oggi conosce una nuova categoria di persone: gli atei in buona fede, coloro che vivono dolorosamente la situazione del silenzio di Dio, che non credono in Dio ma non si fanno un vanto di ciò; sperimentano piuttosto l’angoscia esistenziale e la mancanza di senso del tutto; vivono anch’essi, a loro modo, in una notte oscura dello spirito. Nel suo romanzo “La peste” Albert Camus li chiamava “i santi senza Dio”. I mistici esistono soprattutto per essi; sono loro compagni di viaggio e di mensa. Come Gesù, essi “si sono assisi alla mensa dei peccatori e hanno mangiato con loro” (cf. Lc 15,2). Questo spiega la passione con cui certi atei, una volta convertiti, si sono buttati sugli scritti dei mistici: Claudel, Bernanos, i due Maritain, L. Bloy, lo scrittore J.K. Huysmans e tanti altri sugli scritti di Angela da Foligno, T.S. Eliot su quelli di Giuliana di Norwich. Vi ritrovavano lo stesso paesaggio che avevano lasciato, ma questa volta illuminato dal sole. Pochi sanno che l’autore di Aspettando Godot, Samuel Beckett, nel tempo libero leggeva san Giovanni della Croce.
La parola “ateo” può avere un senso attivo e un senso passivo. Può indicare uno che rifiuta Dio, ma anche uno che ― almeno così gli sembra ― è rifiutato da Dio. Nel primo caso, si tratta di un ateismo di colpa (quando non è in buona fede), nel secondo di un ateismo di pena, o di espiazione. In quest’ultimo senso possiamo dire che i mistici, nella notte dello spirito, sono degli a-tei, dei senza Dio e che anche Gesù, sulla croce, era un “ateo”, un senza-Dio. Madre Teresa ha parole che nessuno avrebbe sospettato in lei: “Dicono che la pena eterna che soffrono le anime nell’Inferno è la perdita di Dio… Nella mia anima io sperimento proprio questa terribile pena del danno, di Dio che non mi vuole, di Dio che non è Dio, di Dio che in realtà non esiste. Gesù, ti prego perdona la mia bestemmia”. Ma si rende conto della natura diversa, di solidarietà e di espiazione, di questo suo “ateismo”: “Voglio vivere in questo mondo così lontano da Dio e che ha voltato le spalle alla luce di Gesù, per aiutare la gente, prendendo su di me qualcosa della loro sofferenza”. Il rivelatore più chiaro che si tratta di un “ateismo” di ben altra natura è la sofferenza indicibile che esso provoca nei mistici. Gli atei comuni non si tormentano in questo modo per il loro ateismo! I mistici sono giunti a un passo dal mondo dove vivono i senza Dio; hanno sperimentato la vertigine di buttarsi giù. È ancora Madre Teresa che scrive al suo padre spirituale: “Sono stata sul punto di dire No… Mi sento come se qualcosa un giorno o l’altro dovesse spezzarsi in me”. “Prega per me, che io non rifiuti Dio in quest’ora. Non lo voglio ma temo di poterlo farlo”. Per questo i mistici sono gli ideali evangelizzatori nel mondo post-moderno, dove si vive etsi Deus non daretur, come se Dio non esistesse. Ricordano agli atei onesti che non sono “lontani dal regno di Dio”, che basterebbe loro spiccare un salto per ritrovarsi dalla sponda dei mistici, passando dal nulla al tutto. Aveva ragione Karl Rahner di dire: “Il cristianesimo del futuro, o sarà mistico, o non sarà”. Padre Pio e Madre Teresa sono la risposta a questo segno dei tempi. Non dobbiamo “sprecare” i santi, riducendoli a distributori di grazie, o di buoni esempi».[12]
[1] Cfr. Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 2006.
[2]A. Lis, Psicologia clinica. Problemi diagnostici ed elementi di psicoterapia. Giunti 1993, stralcio p. 119.
[3] A.M. Wille, Il gigante silenzioso. Cinque casi clinici in terapia psicomotoria, Armando 2001, p. 66.
[4] R. Lucioni, Autismo: criteri diagnostici e terapeutici, cap. Timologia e Autismo, Ed. Hualfin web free open sources.
[5] Stralcio Art. del 22.02.2012 apparso sul website dello Studio di Psicologia e Logopedia di Castel Maggiore (BO), www.psicologopedia.it
[6] E. Pariser, Il filtro. Quello che Internet ci nasconde, Il Saggiatore 2012, stralcio dalle pp. 75-76.
[7] M. Eigen, La morte psichica, Astrolabio 1998, pag. 27.
[8] A. Vignolo, Il concetto di morte psichica nella psicosi schizofrenica, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Genova 2005-2006
[9] F. Michelini Tocci, Stralcio da Giovanni della Croce e la notte oscura dell’anima, Website A.Me.Co., Rivista SATI 022.
[10] A cura di E. Ancilli, La Preghiera. Bibbia, Teologia Esperienze storiche, Vol. 2, pp. 225-226.
[11] R. Cantalamessa, Madre Teresa, “la notte” accettata come un dono, Art. apparso sul quotidiano Avvenire del 26 agosto 2007.
[12] Ibidem.
Fonte: Idee&Azione