L’ideale imperiale e il multipolarismo: oltre l’ascesa e la caduta degli imperi

05.09.2022

Il presente saggio si propone di rendere conto di due fatti della Storia: che le comunità umane esprimono l’unità della condizione umana in termini di espansione politica (imperialismo) e che queste comunità tendono a non mantenersi unite oltre un certo arco geografico e temporale. Questi due fatti pongono una domanda: come dovrebbe essere espressa la percezione iniziale dell’unità umana dopo il fallimento della sua istanziazione politica, tutta letterale, come egemone globale? Quale coscienza nasce dopo la caduta di un impero?

La risposta è che la vera eredità dei progetti imperiali va cercata proprio nella loro caduta, non nella nostalgia dell’apice del loro potere materiale. Dovremmo guardare alla felix culpa, “colpa fortunata” – o, più propriamente, ad una “caduta fortunata”. Una caduta può dirsi fortunata quando porta all’ascesa dell’impero come categoria poetica piuttosto che strettamente politica.

Chiameremo gli spazi di civiltà costituiti da tale fenomeno “post-imperi” o “ecumeni locali”. Se realizzati correttamente, essi rappresentano la riconciliazione dell’ideale imperiale con l’estetica della multipolarità, per così dire: dall’imperium alla bellezza della diversità e della sovranità.

Inizialmente, l’onere di esprimere l’ideale di “impero” ricade sul sovrano politico. La legittimità imperiale (la sua pretesa di universalità) è intesa come più o meno identica al suo centro istituzionale. La perdita definitiva della capacità di questo centro di esercitare un controllo diretto sui suoi satelliti, tuttavia, porterà a una nuova attenzione per il perseguimento di relazioni armoniose. Ciò può riguardare sia la sfera di civiltà definita dall’ex impero sia, al di là di questa, un senso continuo per le preoccupazioni globali e la grande politica.

Questa transizione è analoga alla struttura della realizzazione spirituale: la triade iniziatica della morte rituale, del viaggio ultraterreno e, infine, della rinascita o, in termini greci e cristiani, katharsis, theoria e theosis. Questi descrivono:

  • la perdita delle nostre coordinate contingenti,
  • l’esperienza di un universale trascendente,
  • il ritorno alla contingenza, ora con la giusta consapevolezza dell’universale.

Possiamo comprendere tutto ciò in termini di studio del linguaggio:

  • smettere di identificare gli oggetti e la struttura del pensiero con la lingua specifica che parliamo (il suo lessico, la sua grammatica),
  • giungere ad una definizione astratta della facoltà linguistica umana in sé e per sé,
  • tornare allo studio delle lingue particolari nei termini di questa definizione universale.

Per un altro esempio di questo principio, possiamo immaginare un mondo in cui ogni oggetto circolare è blu. Per comprendere la circolarità, dovremo:

  1. smettere di identificarla con il colore blu, o imparare a distinguere tra forma e colore;
  2. arrivare a una definizione astratta e matematica di circolarità;
  3. tornare al mondo, consapevoli che un cerchio rosso è potenzialmente un cerchio tanto quanto uno blu.

La terza fase è caratterizzata da un potenziale pluralismo maggiore rispetto al punto di vista più ingenuo con cui abbiamo iniziato, perché sa che una categoria universale non si esaurisce in una forma particolare, ma può manifestarsi in modi diversi. La giustizia non è un unico codice di leggi; la bellezza non è un’unica cosa bella; l’ordine non è uno Stato o un reggente particolare; l’architettura non è lo stile sudano-saheliano contrapposto a quello gotico, ecc.

Compenetrazione di interi

Un impero può sopravvivere alla propria espansione iniziale e al successivo declino diventando una sfera culturale che ne compenetra altre e, in questo senso, riesce a resistere come presenza globale.

Idealmente, esso si considera una manifestazione del principio imperiale universale. Tornando all’esempio del cerchio, un post-impero di questo tipo è come un cerchio blu, che perfeziona la sua circolarità (la salute interna delle sue istituzioni) e partecipa a cerchi più ampi (relazioni armoniose verso l’esterno), pur riconoscendo la legittimità dei cerchi di altro colore.

Si estende a tutto l’insieme, anche se non è più egemone: contribuisce ad armonizzare le differenze, non ad una generale omogeneizzazione. Possiamo dire che è passato da uno Stato imperialista a uno Stato ecumenico. Si può dire che tali sfere compenetrate si siano realizzate come imperi globali, anche se in modo non esclusivo e non antagonistico. Esse costituiscono i molti centri di irradiazione di un’ecumene policentrica.

Il loro contributo a questa ecumene costituisce un ambito o una categoria di ordine globale. Per esempio, il mondo intero tende verso il linguaggio religioso ebraico, la statualità romana e il pensiero filosofico greco, senza che questo cancelli la particolarità di Gerusalemme, Roma e Atene. Allo stesso modo, potrebbe integrare l’alchimia taoista o la metafisica indiana classica, i principi urbanistici o di geomanzia di una certa civiltà e l’approccio alla medicina di un’altra.

A volte, questi elementi si completano a vicenda, come l’estetica wabi-sabi giapponese può sembrare in qualche modo più cristiana di molte opere esplicitamente cristiane, o come una birra europea fredda completa un vindaloo indiano.

Ma questo non implica una sintesi uniforme: le culture locali possono integrare tecnologie straniere o, addirittura, aderire a certe affermazioni di verità universali (come una religione), pur mantenendo la propria identità. Nelle parole dell’orientalista britannico John Woodroffe, “le conquiste e la cultura straniera dovrebbero essere un alimento per ogni popolo, da mangiare e assimilare”.

Sfere culturali

Nell’Europa medievale, la transizione dell’idea imperiale di cui stiamo parlando si è verificata in termini di imperium romano, che è stato rimosso dal suo precedente contesto politico, divenendo un tratto identitario distintivo degli europei (compresi i Franchi e gli Inglesi) che, come Cesare, rivendicavano una discendenza troiana. Questo fenomeno registra “la translatio dell’impero troiano, non l’espansione… l’imperium che celebrano non è quello della conquista ultramarina, ma della sovranità nazionale”, come dice Wilson-Okamura.

In questo senso, Frances Yates scrive dell’Impero Romano che “le sue rinascite, non esclusa quella di Carlo Magno, non furono mai politicamente reali o politicamente durature; furono i loro fantasmi a durare e ad esercitare un’influenza quasi imperitura”.

L’enfasi sulla translatio (distinta dall’espansione), o il “riflesso dell’impero nel simbolismo e nell’immaginario poetico”, secondo le parole di Yates, non definisce un progetto di egemonia universale, ma descrive piuttosto una certa giurisdizione del mondo culturalmente definita.

È importante notare che, in quanto ecumene post-imperiale o locale, la mistica politica o la poetica civilizzatrice di Roma arrivò a definire una zona civilizzatrice delimitata: l’Europa. Alla fine, perse il Nordafrica, ma si estese molto a nord. L’affermazione di Snorri Sturluson secondo cui Odino e Thor erano di sangue troiano e la narrazione islandese dell’Eneide e della fondazione di Roma con i nomi delle divinità norrene e il linguaggio teologico cristiano rappresentano l’integrazione spirituale anche dei più remoti popoli germanici nell’ovile di Cesare (si veda il Bretä Sögur, varie versioni islandesi delle storie di Geoffrey of Monmouth). I post-imperi possono andare oltre i loro defunti antecedenti politici.

L’idea di universalità lasciata da un impero un tempo espansivo può essere paragonata alla lucidità, al nuovo corso della vita, con cui ci lasciano le esperienze intense. La natura di queste esperienze determinerà se permetteremo loro di diventare parte della nostra identità, cioè se dovremo tornare ad esse o meno. Un duello a rischio di vita, ad esempio, può insegnarci qualcosa di importante, ma sarebbe imprudente continuare a cercare combattimenti pericolosi dopo aver superato l’avversario, perché potremmo perdere la vita e privare così la nostra famiglia della nostra presenza. Al contrario, l’estasi dell’abbraccio di un coniuge può essere approfondita più volte, essendo compatibile con i doveri di un capofamiglia. Entrambi possono portare a una sorta di Epifania spirituale, a un’esperienza di punta, ma uno deve rimanere estraneo a noi, mentre l’altro fa parte della nostra intimità.

Lo stesso vale per una nazione che determina la propria appartenenza alla sfera di civiltà definita dall’eredità di un impero. Quando Ivan III scacciò il giogo mongolo da Mosca nel 1480, ad esempio, lui e il popolo russo decisero che l’eredità dei Kahn era quella di un rivale da cui imparare, ma non da assimilare. D’altra parte, quando Ivan iniziò a usare il titolo di Cesare (zar) e chiamò la sua città una nuova Roma, stava abbracciando un altro impero e rendendo la Rus’ parte della Romanitas, proprio come Snorri Sturluson fece per gli islandesi.

Il conquistatore sconfitto o l’epifania del conquistatore

Possiamo esplorare il processo di “caduta fortunata”. Eric Voegelin scrive di quello che chiama il “conquistatore concupiscente”, che impara la futilità della conquista. L’uomo posseduto da una “concupiscenza mortale di raggiungere l’orizzonte”, alla fine scopre ciò che Platone sapeva: che il mondo non ha una fine, non ha un limite; rotola per sempre. E, cosa fondamentale, non ha un unico centro. Qualsiasi punto può rivendicare il privilegio di essere il centro, con lunghezze uguali che si estendono da esso in qualsiasi direzione (anche il polo nord non è un centro assoluto, essendo completato dal sud, ed entrambi sono inospitali). Potremmo dire che il mondo ha tanti centri quanti l’umanità è in grado di costruirne. Voegelin prosegue:

La superba ironia dell’ecumene a forma di sfera che riporta a casa l’esploratore concupiscenziale della realtà… non è ancora entrata nella coscienza di un’umanità restia ad ammettere la sconfitta concupiscenziale.

Eppure, così come la caduta degli imperi non deve essere intesa come un loro fallimento, potremmo dire che l’“esploratore concupiscenziale” o conquistatore di Voegelin trova effettivamente ciò che stava cercando. Cercando il limite dell’orizzonte, egli fa una scoperta concettuale o spirituale. Il punto d’arrivo che desiderava non si presenta ai sensi fisici, non come il bordo della terra che i suoi occhi potevano vedere, o un governo mondiale letterale sotto la sua autorità, ma come una verità più sottile.

Possiamo pensare al medioevale “I romanzi di Alessandro”, in cui il greco viene sollevato in cielo da un carro con elmo di grifone fino a quando, come San Pietro negli Atti, arriva a conoscere il mondo intero, non attraverso una conquista orizzontale ma attraverso una visione verticale in cui tutto è raccolto come un mandala.

Comprendere come la caduta fortunata porti a una diversa concezione dell’ordine universale – e come possa consentire sfere distinte e compenetrate – dovrebbe informare il pensiero conservatore sulla cooperazione transnazionale e sulla forma che dovrebbe assumere l’ordine mondiale.

Oggi il conservatorismo è la posizione degli assediati. I suoi impegni principali sono imposti dalla necessità di resistere. In questo senso, deve poggiare sui due pilastri del preservare la particolarità culturale di fronte alla monocultura e del promuovere principi morali universali e affermazioni di verità metafisica di fronte al relativismo filosofico della monocultura.

Un impegno sia e per il particolare che per l’universale richiede una filosofia dell’impero (dell’universitas, un ordine universale) che si occupi della sua eredità al di là dell’ascesa e del declino: al di là dell’esplicito tentativo di conquista del mondo e della successiva frammentazione.

Le categorie estetiche dell’ordine mondiale

Così come spesso discutiamo della necessità di forgiare istituzioni comuni in modo da garantire che i quadri internazionali non impattino sulla nostra sovranità, dovremmo anche affermare che le nazioni e le sfere di civiltà hanno quello che potremmo definire un diritto estetico alle proprie forme culturali.

Questa visione è neo-medievale (ha qualcosa in comune con la società internazionale degli Stati di Barry Buzan o con il “nuovo Medioevo” di Nicholas Berdyaev): né barbaro-tribale né romano-egemonico. È una visione coerente con gli accordi istituzionali basati sul principio di sussidiarietà, che preservano le integrazioni locali all’interno di unità più ampie. La nostra concezione fornisce una comprensione dell’ordine mondiale in cui i diversi spazi civilizzati agiscono, per così dire, come giurisdizioni (territorialmente delimitate) dell’ecumene, fornendo al contempo contributi diversi gli uni agli altri come categorie (globali) dell’ecumene.

Partecipanti attivi all’ordine mondiale

I progetti imperiali del passato rappresentano un contributo all’anatomia dell’ordine mondiale. Possiamo citare il modo in cui la dominazione mongola dell’Asia centrale è servita a diffondere le tecnologie dalla Cina all’Europa, per esempio. Questi imperi hanno rappresentato un’intuizione degli universali umani, anche se di solito un’identificazione fin troppo letterale di questi universali con un particolare insieme di strutture di governo (l’autorità del Cesare, del Califfo, del Kahn, ecc.).

Ma questi progetti hanno rappresentato anche lo sviluppo di una specifica identità civile e culturale che ora può operare come una parte dell’ecumene: un membro pienamente riconosciuto e partecipativo dell’insieme, proprio perché conserva la memoria della sua missione storica e il senso della sua dignità in quanto portatrice di una visione di universalità.

Infatti, se vogliono evitare di diventare strumenti passivi e colonizzati di altri attori globali, e se vogliono preservare la loro idiosincrasia culturale, gli ecumeni locali devono conservare e riabilitare un po’ del peso politico della loro ex fase imperiale. Cercare l’unità sulla base della comune eredità greco-romana e cristiana, ad esempio, può aiutare l’Europa ad agire con unità e a contare qualcosa negli affari mondiali.

Preservare la particolarità

La partecipazione di un post-impero all’ordine mondiale non è inferiore a quella possibile durante il suo passato imperiale, perché è in quest’ultima modalità che può conservare la propria identità, anziché trasformarsi in un’identità universale. Il post-impero scoprirà così che l’estetica della sua civiltà è, in un certo senso, archetipica, proprio come i diversi colori dell’arcobaleno sono modalità irriducibili (potremmo dire, umori) della luce solare da cui si rifrangono.

Quando gli europei riuscirono per la prima volta a rendere universale la loro cultura all’inizio del periodo moderno, di fatto ciò non significava solo universalizzare alcune proposizioni illuministiche, ma anche specifiche forme culturali.

In questo modo, l’Europa iniziò a decostruire sé stessa: non esiste una “civiltà europea” perché europeo è tutto; la civiltà occidentale non è una civiltà, è la civiltà. La cultura europea è diventata il gold standard della condizione umana. E se la modalità predefinita dell’umanità è quella europea, diventa mostruoso per un europeo mantenere la propria identità come distinta da altre identità, perché questo implica che possiede più umanità degli altri. Oggi, lo stesso presupposto inconscio opera nel tipo di discorso che giustifica le migrazioni di massa assumendo che tutti abbiano il diritto di trasferirsi nei Paesi occidentali.

Il principio è semplice: se si ritiene che il cerchio più perfetto del mondo sia blu, si potrebbe essere tentati di dipingere tutti i cerchi di blu per renderli altrettanto perfetti. La definizione di forma è stata contaminata concettualmente dall’aggiunta di un ulteriore particolare (quello del colore). La storia è piena di esempi sottili di questo errore.

Il post-impero come paradigma politico

Concepire il sistema internazionale nei termini sviluppati sopra presenta i seguenti vantaggi, che possono servire anche come osservazioni conclusive:

  • ricostruisce la multipolarità in termini che cercano di riscattare gli istinti universalistici dell’impulso imperiale;
  • la nostra concezione tempera anche l’idea di un “equilibrio di potere” e della multipolarità come beni meramente pratici, introducendo la nozione (non propriamente politica) di un’estetica dell’ordine mondiale, che enfatizza la bellezza di una pluralità di sfere civilizzatrici come bene in sé;
  • a questo proposito, è fondamentale riconoscere che le diverse sfere non sono solo partner interagibilitra loro, ma categorie che possono essere integrate l’una dall’altra. Ciò consente l’adozione di alcuni elementi estranei, laddove tale adozione non porti a un amalgama monoculturale e omogeneizzante.

Quest’ultimo punto stabilisce una sorta di reciprocità dei contributi all’ordine mondiale, rifiutando di privilegiare lo stretto politico. Privilegiare i contributi politici all’ecumene significherebbe vedere il mondo più europeo che asiatico, ad esempio, perché il suo ordine politico è in gran parte basato su paradigmi europei.

Non intendendo il sistema internazionale solo in termini di strutture politiche, quindi, seguiamo la concezione della cosiddetta Scuola inglese dell’ordine globale come una società di Stati le cui norme emergono dalle pratiche dei suoi partecipanti, come un arazzo di risultati negoziati. La società internazionale è plasmata da una miriade di fattori quasi politici e non politici, proprio come una società. Ciò contrasta sia con l’enfasi della scuola realista delle relazioni internazionali sull’interesse dello Stato come categoria semplice e calcolabile, sia con l’enfasi dell’istituzionalismo liberale sui valori rappresentati dalle istituzioni internazionali come le Nazioni Unite.

Questa discussione ha cercato di fornire un’alternativa sia al ripudio del passato imperiale sia a un’apologia sciovinistica della sua eredità. In questo senso, risponde a un bisogno generale di rinnovamento culturale e politico attraverso alternative genuine alle dicotomie prevalenti, alternative in grado di resistere all’assorbimento in dialettiche consolidate.

Fonte

Traduzione a cura di Costantino Ceoldo