Diario dell’infermo. Idealisti, materialisti e donne [2/6]
Parte 2 di 6
Capitolo XLIV
Nel capitolo precedente abbiamo parlato di nuovo dell’importanza della deurbanizzazione, cioè del ritorno alla campagna.
Abbiamo detto e avvalorato l’idea che è una grande bugia giudicare che la cosa più importante è che l’economia e lo stato facilitino questo processo, abbiamo dato un esempio del secolo scorso, quando tutti gli abitanti benestanti dei villaggi che guadagnavano soldi in campagna fuggirono in città. Nel capitolo precedente, abbiamo parlato della futura Georgia come di un paese paradisiaco e de-urbanizzato.
Leggendo questo, una persona che è schiava della cosiddetta “realtà” e che non possiede un idealismo efficace, cioè la capacità di agire in unità con il sogno dell’invisibile e del divino, penserà certamente che questa è un’utopia irraggiungibile; ma la persona che è pronta ad agire secondo i suoi sogni ci seguirà certamente in questa visione, perché è una visione, non un sogno.
La visione stessa significa etimologicamente idea, in greco (ἰδέα) o Eidos (εἶδος). Cioè, prima si vede qualcosa e poi la si incarna nella realtà. Così, dal platonismo, circa due millenni e mezzo fa, fino ai giorni nostri, mettendo tutto il cosmo della filosofia in un paragrafo impossibile, possiamo dire questo: l’umanità è divisa in due parti – idealisti e materialisti.
Gli idealisti immaginano prima un’idea e poi cercano di farne la loro realtà, mentre i materialisti, al contrario, vedono il visibile, l’esistente e lo percepiscono come una realtà non alternativa, una realtà, un destino inevitabile, e quindi non materializzano l’ideale, come fanno gli idealisti, ma, al contrario, idealizzano il materiale.
Su questa base è possibile dividere non solo l’intera umanità, ma anche le singole nazioni, in due categorie. E poiché è così, dobbiamo dire che il nostro popolo appartiene senza dubbio al numero degli idealisti.
Ci può essere anche l’opinione opposta, che nessuna nazione può essere creata senza un’idea e che tutte le nazioni sono quindi idealiste.
Può essere che da qualche parte all’inizio della creazione delle nazioni, cioè alle origini della genesi, sia stato così.
Ma attualmente questa scintilla di idealismo si è talmente persa nella maggior parte delle nazioni (non farò nomi per non offendere nessuno), che in molte di esse è diventato addirittura impossibile riconoscere questa idea o logotipo unico.
Grazie a Dio, nel nostro caso questo non è ancora successo. Certo, guardando la nostra élite “realista”, si cade nello sconforto, come quando si vedono molti altri rappresentanti di una nazione con un’idea distrutta.
Ma basta entrare in contatto con l’essenza della nostra nazione, rivelata durante una semplice supra (1), nel saluto, nei canti e nelle danze, appena si capisce che il nostro popolo non ha ancora perso il suo idealismo.
Cos’è il Logos e qual è il senso della vita del nostro popolo, ne abbiamo parlato e scritto più di una volta e non lo ripeteremo qui.
Mi soffermerò solo su questa, da me menzionata, posizione di idealismo ancora vivo della nostra Erie e dirò: se è così, e i kartveliani e la civiltà kartveliana non hanno ancora perso la capacità di idealismo, cioè la capacità di vedere l’invisibile e lottare per esso, allora ciò di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente non dovrebbe essere un sogno irrimediabilmente irrealizzabile.
Forse è per questo che ci sentiamo così male, è per questo che cadiamo così figurativamente fuori dal cerchio generale della modernità e della postmodernità, che non è nostro.
Sì, tutti noi usiamo il telefono e internet, ma non siamo parti di essi, i loro atomi. Siamo parte di qualcos’altro, e quest’altro è una realtà alternativa al moderno e al postmoderno, invisibile per ora, ma più reale di qualsiasi cosa che vediamo intorno a noi. Questo perché tutto ciò che vediamo intorno a noi scomparirà presto, ma l’invisibile, di cui siamo parte e che non si vede, rimarrà per sempre.
Nella sua ricerca sta il senso della vita del nostro Erie, e l’espressione più chiara di questa ricerca è l’insediamento del nostro popolo in prossimità della terra.
Qui dobbiamo necessariamente aggiungere ciò che si intende con la parola villaggio. Non è affatto isolato dalla modernità, né in senso tecnico né in senso tecnologico.
Al contrario, integra, implementa e utilizza tutto ciò che è moderno. Ma, a differenza della città, non cambia né contamina la sua essenza: il villaggio offre ai suoi abitanti più libertà di movimento, più spazio, più pensiero e più scelte. Nel capitolo precedente abbiamo parlato della città come antipodo crescente di questa libertà.
Qui dovremmo dire un po’ di più sull’utilità del villaggio come dimora del bene per il Bene dell’uomo: se la principale attività umana nella città è il servizio e la politica, e se al limite dello spettro dell’attività urbana rimane solo l’artigianato come vestigio del sistema quasi patriarcale, nel villaggio è l’artigianato l’attività più “non romana”; se si vuole, il villaggio offre alla gente un’attività molto più nobile – che si tratti di piantagione, allevamento o pesca, con le loro mille varietà e variazioni.
Nel descrivere l’obiettivo del nostro popolo in una delle nostre conversazioni pubbliche con gli amici, dopo tentativi apofatici e catafatici di descrivere questo obiettivo, siamo arrivati alla seguente formulazione: “L’obiettivo del nostro Eri è di ripopolare la Georgia donata da Dio con famiglie leali che, in collegamento diretto con la storia georgiana, saranno in grado di mantenersi, sacrificarsi per il bene della Patria e prepararsi così ad un degno incontro con l’Eternità.”
A chi condivide un obiettivo così luminoso e splendente, è chiaro fin dall’inizio che non conta nessun “sostegno statale” o “creazione di condizioni economiche per loro”: se tutto questo arriva in tempo sarà naturalmente meraviglioso, ma anche questo sostegno l’uomo idealista e la sua famiglia accetteranno con cautela, temendo che non lo trasformi in un fannullone e un bradipo. E la sua speranza si baserà solo su ciò che è stato detto dei georgiani dell'”età dell’oro”: sono un popolo che confida nel Signore e nella propria destra.
Entrare in questo stato di pensiero spirituale, insieme al riconoscimento della propria debolezza, richiede a ciascuno di noi di lottare instancabilmente contro i propri vizi: attraverso il lavoro incessante e la preghiera, in cui fiorisce la vera cultura familiare, dove l’uomo è come l’uomo, la donna come la donna, la moglie come la moglie, il bambino come il bambino, dove la devozione, il sostegno reciproco, la tolleranza delle avversità e l’allegria di spirito sono qualità umane naturali quanto lo sono per gli abitanti delle città la reticenza, la dissolutezza, l’assenza di famiglia, la vana e infinita ricerca del piacere.
Se torniamo al moroso mondo dei “realisti”, ci chiederemo immediatamente quanti di noi sono capaci di una tale catarsi nel pensiero e nell’azione, quale percentuale della popolazione è questa, e saremo in grado di cambiare il mondo!
In questo quadro di riferimento ci si può aspettare solo sconforto, impotenza e un senso di inevitabilità del fallimento.
Non c’è posto per un tale pensiero nel nostro mondo, idealista o georgiano: per chiunque di noi condivida questa visione, questo calcolo demoniaco non è importante, ciò che è importante è che lui e la sua famiglia condividano personalmente questa visione e si sforzino instancabilmente di attuarla, il che, come esempio, può ispirare molti, perché, come diceva il grande santo ortodosso Serafino di Sarov: “Salva te stesso e migliaia intorno a te saranno salvati”.
(1). Supra è una festa tradizionale georgiana con le sue regole di comportamento e i suoi brindisi.
Traduzione a cura di Lorenzo Maria Pacini