La politica dimenticata
A nessuno sfugge che oggi la politica, almeno in Occidente, stia attraversando una grande crisi. Crisi che però non attiene solo alla corruzione della classe politica, o a certe strategie politiche, ma anche e soprattutto al concetto stesso di politica. Cos’è la politica? Quale la sua dignità? Oggi la persona media (che non distingue "la politica" da "le politiche") potrebbe essere portata a pensare che la politica sia una cosa piuttosto meschina, una cosa torbida, oscura, per la quale conviene essere furbi, forse anche saper mentire.
E invece tutt’altra idea ci è stata trasmessa dalla riflessione classica, che parte dalle filosofie antiche dei greci e dei romani, e che viene nobilitata e precisata ancora di più dal pensiero cristiano. In quest’ottica la politica è vista come “scienza architettonica”, cioè quella che in qualche modo abbraccia tutte le altre, perché al “principe” spetta dirigere tutti i cittadini (compresi i sapienti e gli scienziati) verso un certo fine: il bene comune. E’ da questo bene comune che discende la dignità della politica come supremo sapere pratico. Colui che è preposto direttamente e in primo luogo alla cura del bene comune (che sia un re, un imperatore o un presidente) ha questo compito altissimo: fare sì che le azioni di tutti gli individui della nazione, di tutti i corpi sociali, tendano a realizzare, non il bene particolare di ciascuno, ma un bene che è alla volta superiore e comune a tutti (per questo, appunto, “bene comune”).
In cosa consisterebbe in pratica il bene comune? La risposta dipende anche dall’idea che ci si fa dell’uomo, quindi dall’antropologia che ispira il potere. La tradizione cristiana (mirabilmente sintetizzata e perfezionata da S. Tommaso d’Aquino), tenendo in conto la natura fisico-spirituale dell’uomo, ha realisticamente assegnato la prevalenza al bene spirituale. Il bene comune non può consistere dunque nel mero soddisfacimento degli “appetiti sensibili” del gran numero dei cittadini, né nella ricchezza materiale data dalla moneta (che in realtà, per sua natura, è mezzo e non fine). Per questo è assolutamente agli antipodi della concezione cristiana una politica asservita all’economia o, peggio ancora, alla finanza, come purtroppo capita di costatare troppo spesso oggi.
Il vero bene comune sta nella pratica sociale della virtù. In altre parole, uno Stato avrà raggiunto la perfezione nella misura in cui i cittadini, ciascuno secondo il loro grado e la loro funzione, pratichino stabilmente il bene morale, nella misura in cui le loro facoltà spirituali (intelligenza e volontà) trovino nell’ambiente sociale un contesto idoneo per il loro sviluppo. Questo presuppone naturalmente (l’uomo è anche corpo!) che tutte le necessità corporee e sensibili possano trovare ragionevole soddisfazione: queste esigenze però restano dei mezzi utili (e necessari) per perseguire più alti fini.
Dalla pratica comune della virtù deriva un altro preziosissimo bene: la pace. S. Agostino di Ippona la definisce come “tranquillità dell’ordine”. Cioè non solo “tranquillità” come assenza di disordini sociali (che potrebbe essere il risultato ottenuto da un efficiente Stato totalitario), ma anche “ordine”: ciò implica che tutte le parti del corpo sociali agiscano in modo armonioso le une con le altre, in modo da realizzare e preservare il bene comune.
Poca riflessione basta per costatare quanto lontani ci troviamo oggi da un tale ideale di politica e quindi di bene comune. Probabilmente è proprio per questo che siamo così lontani dall’avere la pace, una vera pace, nelle e tra le nostre nazioni. Fin quando la politica sarà asservita all’economia o alla finanza, del resto, ciò non deve stupire: si tratta del contrario esatto dell’ordine previsto da quella ragionevole idea di politica che ci ha trasmesso la filosofia “perennis”.