Yemen: Nazione in guerra

16.09.2019
Quando il generale Wesley Clark oramai anni ed anni fa ha elencato la famosa lista di sette Paesi mediorientali da abbattere in cinque anni consecutivi, non ha fatto altro che rimarcare candidamente una volta di più, se ce ne fosse stato bisogno, la volontà di Washington di ridisegnare il Medio Oriente nell’ambito di un più generale quadro di dominio globale. Con la Russia che si ostinava a restava a galla pur nella profonda crisi esistenziale post guerra fredda e delle presidenze Yeltsin e che continuava imperterrita a vendere metano e petrolio al resto del mondo, gli Stati Uniti, prigionieri della morsa dei loro neocon, dovevano necessariamente impossessarsi dei Paesi del mondo arabo e del vicino Nord Africa così da poter controllare le locali rotte di rifornimento petrolifero e sferrare poi l’attacco definitivo al loro nemico per eccellenza.
 
I popoli di Egitto, Tunisia, Libia, Siria, Libano, Yemen ed Iran sono stati quindi calpestati affinché potesse aver luogo la distruzione della Russia, che sarebbe passata dall’essere una Nazione unita e sovrana ad un protettorato occidentale diviso in almeno tre parti. Questa sarebbe stata la mossa conclusiva della dottrina Brzezinski.
 
Ma qualcosa è andato decisamente storto: dei sette Paesi in questione, solo la Tunisia è stata sovvertita in modo rapido, completo e sostanzialmente privo di sangue. 
 
La Libia di Gheddafi ha resistito da sola nel 2011 per quasi nove mesi, costando a NATO e Stati Uniti uno sforzo bellico non indifferente. Ancora adesso, pur distrutta e con il Colonnello ucciso barbaramente, è ben lungi dall’essere un Paese pacificato e sotto il pieno controllo dell’Occidente. 
 
L’Egitto di Al Sisi ha letteralmente invertito la “primavera araba” da cui era stato investito, eliminando dalle loro posizioni di comando i pupazzi di Washington e Londra e addirittura riavvicinandosi a Mosca.
 
La Siria si è dimostrata un osso ancor più duro, resistendo per otto anni all’attacco che l’Occidente ha scatenato contro di essa e permettendo così al Libano di salvarsi dalla dissoluzione. Resiste ancora adesso: Mosca ha inviato uomini e mezzi riuscendo con poco sia a preservare Damasco che a mantenere le sue due storiche basi in territorio siriano. I russi hanno impartito al mondo una severa lezione di tattica e strategia e sono tornati sulla scena mondiale da protagonisti. Lo si è visto chiaramente, al punto da ipotecare l’appartenenza alla NATO della stessa Turchia benché il suo presidente, quel Recep Tayyip Erdoğan che è stato ed è ancora adesso uno dei grandi entusiasti della guerra contro la Siria, sia un personaggio da prendere decisamente con le molle.
 
L’Iran è rimasto intatto, unito, sovrano. E ciò malgrado l’impressionante campagna di sanzioni economiche contro di esso. Malgrado il più lungo e disumano embargo dopo quello contro Cuba e la Corea del Nord. Malgrado le minacce di attacco e quelle di invasione. Malgrado i ricorrenti tentativi di “rivoluzione colorata”. Malgrado il ritiro unilaterale degli Stati Uniti di Trump dall’accordo sul nucleare, ritiro che ha lasciato basiti non solo gli Iraniani ma anche i Russi e le Nazioni europee che si erano dette garanti dell’accordo. Forse Trump ha pagato un suo debito personale alla lobby ebraica che lo ha aiutato a salvarsi dal Russiagate o forse no. Le ragioni del ritiro americano dall’accordo sono poco importante, essendo stato l’accordo stesso fin dall’inizio una trappola ben congeniata contro Teheran. Ancora adesso in Siria combattono i pasdaran iraniani, le forze Al-Quds dell’eccezionale generale Soleimani. Sono i soldati della Persia degli ayatollah ad aver risparmiato ai russi le pesanti perdite di uomini che Mosca avrebbe invece sofferto se avesse mandato la sua fanteria contro i jihadisti impiegati dall’Occidente.
 
E poi lo Yemen. Doveva essere il penultimo Stato della lista a cadere, prima del grande attacco contro l’Iran e prima del più grande attacco contro la Russia. Invece anche qui le cose non sono andate come avevano pensato gli americani.
 
Con la Libia ridotta alla condizione caotica di una guerra civile di tutti contro tutti, la Siria che lentamente ma evidentemente si avviava alla vittoria contro i propri nemici e l’Iran che estendeva la propria influenza ben oltre i semplici confini regionali, a Washington qualcuno drogato di poker ha pensato fosse il caso di rilanciare, scatenando una guerra per procura contro la popolazione yemenita.  Non ha funzionato nemmeno questo e la guerra, appaltata principalmente all’Arabia Saudita, si è dapprima impantanata in un conflitto di mera resistenza degli yemeniti contro i sauditi e i loro scherani locali e poi ha assunto i tratti di una controffensiva direttamente sul territorio del nemico. 
 
Gli Houthi sciiti dello Yemen, alleati degli iraniani, hanno dimostrato una volta di più di non essere un bersaglio facile. Il recente attacco agli impianti petroliferi sauditi di Abqaiq e Kharais realizzato con uno stormo di droni e forse missili di precisione lanciati dal territorio yemenita ne ha dimezzato di colpo la produzione giornaliera ed ha reso evidente una volta di più alla Casa dei Saud che il suo territorio non è inviolabile.
 
Non solo: ha dimostrato al mondo intero quando poco saggio sarebbe un attacco contro l’Iran, dal momento che né Riyadh né Washington sono in grado di difendere le migliaia di chilometri di oleodotti che attraversano i deserti dell’Arabia Saudita proprio quando lo stretto di Hormuz si troverebbe completamente bloccato dalla guerra contro Teheran.
 
Quanto costerebbe un barile di petrolio con il Venezuela impossibilitato a vendere il proprio petrolio, i Paesi del Nord Africa fuori gioco e la produzione saudita azzerata dalla guerra? Un prezzo troppo alto per la stabilità del mondo.
 
Richard Black, del Senato statale della Virginia, è tra i pochi uomini politici occidentali a cui il cervello funzioni ancora e che conservi un naturale senso dell’onore. Da sempre contrario alla guerra contro la Siria, poche ore fa ha dichiarato:  
 
“I sauditi hanno provato ad usare dei bombardamenti crudeli per installare un regime fantoccio nello Yemen. Pensavano di poter spezzare i poveri uomini delle tribù Houthi, ma si sbagliavano. Il drammatico successo del loro attacco alla produzione saudita di petrolio è un'enorme vittoria per gli Houthi dello Yemen ed un'enorme perdita per il principe Mohammad bin Salman dell'Arabia Saudita.”
 
Possiamo dire che è un errore in cui sono incappati non solo i sauditi ma anche gli americani.  Black ha quindi continuato: 
 
Gli Stati Uniti hanno sostenuto le iniziative perdenti dell'Arabia Saudita. Sbarazziamocene adesso e poniamo fine alla brutale guerra americana contro il popolo dello Yemen. I sauditi subiscono un enorme smacco sul lato delle pubbliche relazioni in conseguenza dell’attacco della IPO di ARAMCO. La metà della produzione di petrolio giornaliera saudita è stata eliminata da 10 droni Houthi. I sauditi diffondono il colera tra gli Houthi bombardando gli impianti di depurazione delle acque. Pensavano che i membri delle tribù Houthi dello Yemen si sarebbero piegati sotto la pressione di malattie e carestie, ma non lo hanno fatto. La produzione di petrolio dell'Arabia Saudita sarà a rischio da questo momento in poi. Se fossero saggi, farebbero rapidamente la pace con gli Houthi. Hanno perso la guerra e proprio non lo sanno.”
 
Il senatore Black infine ha detto: 
 
“Gli Houthi dello Yemen sono come l'acciaio: si piegano, ma non si spezzano.”
 
Il punto è proprio questo: Black capisce ciò che i sauditi paiono incapaci di capire. E con essi i loro sponsor a Washington. Richard Black è forse uno degli ultimi patrioti americani, un difensore di quei valori tradizionali americani che sono stati soverchiati ben prima dell’11 settembre, proprio da coloro che dall’11 settembre in poi hanno gridato a gran voce di volerli difendere.
 
Il futuro è incognito ma l’avvertimento che gli Houthi e i loro alleati iraniani hanno lanciato ai Sauditi e al resto del mondo è ben chiaro e definito. Sta a Washington e alle cancellerie occidentali non sottovalutarlo.