SULLA NECESSITÀ DI UNA NUOVA TEORIA POLITICA (QUARTA TEORIA POLITICA)
Oggi assistiamo non solo a profonde trasformazioni geopolitiche nell’equilibrio tra le grandi potenze mondiali (il passaggio dall’unipolarismo al multipolarismo), ma anche a profondi mutamenti ideologici. Nello specifico, in Medio Oriente vediamo da un lato quanto sia ancora rilevante il ruolo di Stati Uniti, Israele e Unione Europea, dall’altro come la presenza di Russia e Cina modifichi la situazione nella regione, e come i diversi paesi islamici e le diverse tendenze dell’Islam si affrontino o si alleino tra loro. Quindi dietro le quinte della geopolitica sussiste una dimensione ideologica – a volte teologica — che ci impedisce di ridurre i problemi alla semplice competizione tra Stati nazionali o all’opposizione ideologica Est-Ovest. Abbiamo bisogno di nuovi strumenti di analisi che esplorino il terreno ideologico e lo proiettino sulla mappa geopolitica. Abbiamo bisogno cioè di un nuovo tipo di mappatura dello spazio. E questo riguarda lo spazio mediorientale molto più di qualsiasi altro, poiché è qui che si stanno ridefinendo le tendenze di fondo.
La transizione dall’unipolarismo al multipolarismo è dolorosa – specialmente per gli Stati Uniti, fino a poco tempo fa polo incontestabile dell’ordine mondiale unipolare. I neocon sono stati quelli che più di tutti hanno cercato di affermare la dominazione americana diretta come fosse una sorta di legge dell’era successiva alla guerra fredda. E ciò è stato sostanzialmente raggiunto durante il «momento unipolare» (Charles Krauthammer), dal 1991 all’11 settembre 2001. L’ideologia del neoconservatorismo si basava sulla supremazia del liberalismo (democrazia liberale, diritti umani, parlamentarismo, secolarismo), cui si aggiungeva un forte e incondizionato sostegno a Israele, un certo odio nei confronti dell’Islam e dell’ex superpotenza (Russia) e l’insistenza sul ruolo guida degli USA dinanzi a tutti gli altri paesi del mondo – compresa l’Europa. Entrambe le amministrazioni Clinton e Bush hanno subito la forte influenza dei neocon. Questi ultimi, dopo l’11 settembre, hanno avvertito che la loro ora stava giungendo e hanno spinto affinché si intervenisse in Afghanistan e in Iraq. In quel momento è nato il Progetto Grande Medio Oriente, basato sulla pretesa di una «profonda democratizzazione» del Medio Oriente, il che significava distruzione violenta dei regimi politici, drastico mutamento dell’equilibrio di potenza, cancellazione delle linee di confine e così via. Tale progetto prevedeva inoltre la crescita del ruolo di Israele e la creazione di uno Stato curdo. Ecco dove eravamo all’inizio degli anni 2000: geopoliticamente avevamo a che fare con una tendenza unipolare e atlantista, ideologicamente con l’offensiva centrata sull’Oriente di un liberalismo radicale.
Obama ha cercato di temperare questa linea neocon tentando di arginare alcuni dei suoi punti più critici, ma ha agito secondo lo stesso paradigma. Dal punto di vista retorico, egli ha preferito parlare in termini di multilateralismo, che costituisce una versione più blanda dello stesso unipolarismo, con caratteristiche egemoniche non così esplicite. Così è arrivata la primavera araba che ha causato tumulti in Nord Africa e sanguinose guerre civili dalla Libia allo Yemen, passando per Iraq e Siria (compreso il colpo di stato o il tentativo di colpo di stato in Egitto e Turchia). Obama ha modificato il ritmo della politica americana, non la direzione. Ideologicamente si è trattato dello stesso liberalismo occidentalecentrico, solo un po’ meno aggressivo rispetto ai neocon. Sotto di lui anche la politica a sostegno di Israele è proseguita, sebbene non come prima.
Ma durante l’amministrazione Bush e soprattutto nel periodo di Obama ha avuto luogo un importante fenomeno geopolitico: il ritorno sul palcoscenico storico della Russia di Putin. Si è trattato di un fenomeno di grande rilevanza e che può rappresentare una sfida decisiva all’unipolarismo. La potenza nucleare russa ha rivendicato la sua totale sovranità e questo è stato qualcosa di fondamentale. La Georgia, l’Ucraina, l’unificazione con la Crimea e infine l’intervento della Russia in Siria sono stati dei passi conseguenti di portata globale. Putin si è comportato come se il mondo fosse già multipolare ed esso ha effettivamente iniziato a trasformarsi in questa direzione, seguendo il comportamento di Mosca. Ciò ha segnato un cambiamento praticamente in tutto. Questo mutamento di paradigma ha rafforzato l’Iran, da sempre in lotta per liberarsi dell’egemonia occidentale, sia geopoliticamente che ideologicamente. La Turchia ha cominciato ad avvicinarsi alla Russia per controbilanciare le pressioni americane e per contrastare la lotta curda per l’autonomia e l’indipendenza. Per Assad l’intervento russo è stato decisivo. Bagdad ha intravisto una nuova alternativa alla politica americana. La Cina, che in questo momento è diventata un gigante economico, ha sfruttato tale passaggio per riaffermarsi come attore regionale di primo piano soprattutto attraverso il progetto della Nuova Via della Seta. Così, la ferma politica di Putin ha immediatamente ricevuto il sostegno da parte di quasi tutti gli attori mediorientali, i quali hanno saputo adattare le proprie politiche al multipolarismo appena delineato. Questo passaggio ha avuto luogo a discapito degli Stati Uniti, dell’Unione Europea e dei mandatari occidentali come l’Arabia Saudita e il Qatar. Anche i ribelli salafiti sostenuti da Riyad e Doha (in prima istanza l’Isis) sono stati gravemente danneggiati dalla nuova alleanza russo-turco-iraniana. E anche Israele è stato contenuto. Inoltre, il progetto del Grande Kurdistan è stato abbandonato, così come il Progetto Grande Medio Oriente in generale.
Questo è stato il momento esatto in cui è salito al potere Trump. I suoi discorsi nella sua corsa alla Casa Bianca sono stati molto critici nei confronti di tutti i suoi predecessori, sia in ambito geopolitico – Trump si è dichiarato non interventista e tra l’altro ad ora non ha iniziato alcuna nuova guerra, in netto contrasto con Clinton, Bush o con il sanguinario Obama – che ideologico – criticando severamente liberalismo e globalismo. Il 2016 è stato un anno chiave. È qui che l’unipolarismo, l’atlantismo e il globalismo mostrano le prime crepe, manifestando la loro fragilità e provando che stanno attraversando un grave declino e che il multipolarismo ha iniziato a prender forma. Ovviamente Trump non ha potuto mantenere le sue promesse agli americani che lo hanno eletto, ma la sua politica non era e non è così radicalmente globalista, unipolare e liberale come lo è stata quella di tutti i suoi predecessori, da Woodrow Wilson in poi. Gli Stati Uniti sono ancora presenti in Medio Oriente. Il loro sostegno a Israele è cresciuto. Le ostilità contro l’Islam persistono, tuttavia… vi è una consistenza completamente differente in tutto ciò. Sembra che gli Stati Uniti comincino in qualche modo a disimpegnarsi dal proprio ruolo egemonico accettando contro la loro volontà lo status quo multipolare reso possibile dalla Russia di Putin, dai suoi alleati e dalla crescita cinese.
Questo mutamento geopolitico, in cui la Russia ha giocato un ruolo essenziale, ha comportato anche un cambiamento ideologico. Nel momento unipolare successivo al crollo dell’Unione Sovietica, la principale nonché unica ideologia a vocazione universalistica era il liberalismo. Ma se ora l’Occidente si ridimensiona, questo riguarda anche l’ideologia liberale. Così, mentre nel mondo unipolare vi era un’unica ideologia dominante imposta universalmente – il liberalismo –, nel mondo multipolare è logico supporre che sia altrimenti. La questione dunque è: a che punto ci troviamo in campo ideologico?
Nella Modernità politica dominata dall’Occidente, vi sono solo due alternative al liberalismo: comunismo e nazionalismo (fascismo). Ma queste ultime sono state entrambe vinte nel corso del XX secolo ed è sulla loro conseguente sconfitta che si è basato il momento unipolare globale del liberalismo. Se ora il liberalismo si ritira, non solo nelle regioni non occidentali ma anche negli stessi Stati Uniti, emerge uno spazio vuoto. È evidente che l’idea di colmare questo vuoto con le vecchie ideologie occidentali moderne – due forme consolidate di illiberalismo, segnatamente comunista e fascista – non è per nulla accattivante, al contrario è del tutto inaccettabile. Per cui ci troviamo in una situazione interessante: tra le tre ideologie politiche classiche della modernità – 1) liberalismo, 2) comunismo e 3) fascismo – non possiamo sceglierne nessuna. Occorre sottolineare che tutte le forze attivamente impegnate in Medio Oriente, eccezion fatta per la Cina e i paesi occidentali – Russia, Iran, Turchia, Stati arabi e così via – non possono essere definite secondo questa nomenclatura: nessuna di esse è liberale, né comunista, né fascista. Il vuoto ideologico che si è venuto a creare non è dunque così facile da riempire.
La questione centrale è: come è possibile essere non liberali, essendo allo stesso tempo né comunisti né fascisti? Sul piano pratico abbiamo il sistema politico iraniano, il governo autoritario di Putin e il realismo di Erdogan, ma – forse con l’eccezione dell’Iran – si tratta di situazioni basate su circostanze politiche concrete. Mentre il liberalismo, pur ritraendosi, rimane ancora l’ideologia diffusa a tutto campo. Se a quell’ideologia oggi indebolita, affievolita, ma sempre potente, opponiamo semplicemente un’alleanza transitoria e pragmatica rischiamo di minare l’incipiente multipolarismo e di trasformare la vittoria sul liberalismo in una vittoria di Pirro. Le alleanze realiste basate solo su interessi egoistici nazionali sono precarie. Non rappresentano un terreno solido su cui edificare un ordine mondiale stabile e duraturo.
Queste semplici e tutto sommato evidenti constatazioni mostrano che abbiamo bisogno di una nuova teoria politica che si adatti alle esigenze della storia, del multipolarismo, della nuova forma emergente della struttura delle relazioni internazionali. Essa dovrebbe essere una Quarta Teoria Politica, proprio perché la prima teoria politica, il liberalismo, è quella di cui cerchiamo di liberarci mentre le altre due – la seconda teoria politica, il comunismo, e terza teoria politica, il fascismo – sono assolutamente inaccettabili per evidenti ragioni. Per questo necessitiamo di una Quarta Teoria.
Il problema è che tale teoria non esiste nel panorama del pensiero politico occidentale moderno. L’unica soluzione logica è dunque quella di creare una teoria che svolga il ruolo di denominatore comune per il mondo multipolare, riconoscendo e accettando tutte le differenze storiche, religiose, culturali e civilizzazionali di tutti gli attori. Questa teoria non può essere né occidentale né moderna. Pertanto, diciamo che per farci ispirare possiamo focalizzarci su paradigmi non occidentali e premoderni (della Tradizione) o postmoderni. Nel caso dell’Islam questo è relativamente facile, dacché l’ideologia iraniana costituisce già un esempio concreto di tale teoria politica e può essere in effetti considerata come la declinazione della Quarta Teoria Politica per i musulmani sciiti. È di qualcosa di simile che abbiamo bisogno per la Russia: di una Quarta Teoria Politica russa basata sul Cristianesimo Ortodosso, sul bizantinismo e sulla tradizione eurasista. Questo è esattamente il progetto a cui sto lavorando da più di 30 anni. Ma lo stesso vale per la Turchia, l’Iraq, la Siria, il Libano, per tutti i paesi arabi, e non solo per loro. Nel mondo multipolare ogni Paese e Stato, ogni popolo e religione dovrebbe trovare la propria strada per affermare la propria identità e resistere al liberalismo e alla globalizzazione, che costituiscono due forme di egemonia occidentale. Quest’ultima si contrae, oscilla, traballa, ma è ancora lì.
La Quarta Teoria Politica non dovrebbe essere universale. Può includere diversità, tuttavia dovrebbe proporre un formalismo pluralista e policentrico necessario a qualsiasi ideologia. La sua elaborazione costituisce un lavoro arduo, che nessuno può svolgere se non le migliori menti di tutte le grandi civiltà umane orgogliose della loro tradizione, della loro identità, del loro passato tanto quanto del loro futuro.
Traduzione di Donato Mancuso