Sulla necessità dell'impero (alcune osservazione)
Non ha lasciato indifferenti il testo del filosofo Aleksandr Dugin “Orizzonti dell'impero ideale”. In molti, non comprendendo il carattere metaforico dello scritto, lo hanno frainteso ed interpretato in modo errato. La Quarta Teoria Politica non è un progetto utopico. Essa è un sistema ideale concreto che mira ad una trasformazione reale della società attraverso il superamento della post-modernità. Essa è una weltanshauung votata alla sublimazione della teoria attraverso la prassi e, dunque, non si pone come mera astrazione filosofico-concettuale. In quanto idea, la Quarta Teoria Politica è un principio vivente suscettibile di accrescimento ed evoluzione. Il punto di partenza è l'identificazione dell'idea occidentale di progresso come degenerescenza e decadenza di cui l'esasperazione nichilistica è l'esito finale. Ad esso fa seguito la consapevolezza di un valore più alto della vita umana rispetto al volgare possesso di beni materiali e ad una visione del mondo che pone l'uomo (isolato) al centro dell'universo. Tale consapevolezza è condizione necessaria per la comprensione di un progetto filosofico che, attraverso la via heideggeriana del ritorno (ruckker), si erge come strumento per la costruzione di un sistema politico le cui virtù sono connaturate alla sua ambivalente dimensione sacrale e temporale. In questa prospettiva, l'impero, nella sua accezione tradizionale, è il naturale esito di un percorso filosofico e politico che fa della vita associata nell'idea di comunità e di popolo (ethnos) e nel rispetto delle diversità culturali e nazionali presenti all'interno di questo ordine futuro i suoi valori più alti.
Il fine dell'uomo non può infrangersi nell'abisso degenerativo del tempo inteso come progresso senza limite. “Il progresso non esiste. Esiste solo regresso”[1]. La società costruita sul liberalismo come fondamento ideologico totalizzante è incentrata sul regresso progressivo dell'umanità fino al suo totale annullamento attraverso il transumanesimo. Ed il fine dell'uomo non può realizzarsi neanche attraverso lo Stato laico moderno e la sua contemporanea dissoluzione in nome dell'imposizione su scala globale del modello imperialistico-predatorio del capitalismo finanziario occidentale. L'uomo è destinatario di una missione spirituale più elevata che si perfeziona tanto nella politica quanto nella religione. L'impero, nella sua essenza tradizionale di istituzione capace di riunire in sé il potere temporale e quello spirituale, è l'unico sistema atto a realizzare la missione terrena e celeste dell'uomo.
L'impero è il culmine per eccellenza della vita associata dell'uomo. All'idea di impero è estraneo il concetto dell'individuo proprio dell'età moderna e forgiato attraverso il Rinascimento, la Riforma protestante e le rivoluzioni borghesi di fine XVIII secolo. L'impero, per sua natura, tende ad un fine che assume significato solo attraverso forme di condivisione comunitaria della vita umana. In questo senso, l'individuo riscopre il proprio valore attraverso il senso di appartenenza attiva ad una comunità al contempo politica e spirituale. Questa vita associata si esprime in una precisa divisione del lavoro su scala gerarchica in cui ogni livello gode comunque, al contrario di quanto imposto dal regresso modernista, del medesimo grado di dignità.
L'impero è un organismo completo e armonico. Esso si differenzia dall'imperialismo politico-economico moderno perché il suo fondamento è essenzialmente religioso e la sua natura è teocratica ed universalistica. L'impero assume la funzione di regolatore supremo delle relazione tra i diversi popoli (ethnos) che lo compongono. Il suo obiettivo è la pace attraverso la complementarietà (komplementarnost – secondo l'espressione utilizzata dall'antropologo e storico russo Lev N. Gumilev)[2]. La pacifica convivenza è sancita dalla volontà unica di governo che è espressione diretta della volontà divina. L'impero è infatti lo strumento attraverso il quale il diritto divino diventa realtà. E l'imperatore, in base alla sua elezione divina, è tramite tra l'uomo e Dio e come tale, nella prospettiva cristiana bizantina e ghibellina, è prosecutore dell'opera terrena del Cristo in attesa del suo ritorno.
La caratteristica peculiare dell'ideale imperiale ghibellino (splendida primavera europea stroncata sul nascere – secondo la fortunata interpretazione che Julius Evola ne dà nella sua opera Rivolta contro il mondo moderno) è il tentativo di superare la frattura fra cielo e terra (tra la dimensione del sacro e l'impero) propria del cristianesimo occidentale e dovuta alle ambizioni di dominio temporale della Chiesa romana fondate su quel “falso storico” noto come Donazione di Costantino [3]. L'idea imperiale di Federico II rappresenta la massima espressione del ghibellinismo e racchiude in sé l'essenza stessa della natura dell'impero.
Il pensiero di Federico II sull'impero e sulla sovranità temporale, come riportato dallo storico Antonino De Stefano nel suo meraviglioso saggio L'ideale imperiale di Federico II, nasce dalla dottrina agostiniana sul peccato originale. Coloro che abitavano l'Eden erano esseri perfetti e liberi, privi di leggi coercitive per il raggiungimento dei propri fini. L'allontanamento da Dio e dal Polo Celeste ha sancito la perdita di questa perfezione e lo smarrimento della via verso la Verità che è in Dio. E questo smarrimento è all'origine del peccato e della violenza che si manifesta nell'istinto predatorio ed egoistico. Il riscatto da questa situazione di caos non può che avvenire per elezione divina. I principi della terra (eletti da Dio a tale ruolo), in quanto esecutori dei suoi piani, hanno il compito di tenere a freno le volontà delittuose e restaurare l'ordine distrutto dal peccato. In questa prospettiva, l'impero si trasforma in un elemento necessario dell'ordinamento divino. “L'impero è strumento della liberazione dell'uomo dalle conseguenze del peccato”[4]. Qui, l'idea di impero si scosta dalla concezione agostiniana dello Stato come prodotto di una natura intrinsecamente corrotta, e si presenta come rimedio ad essa. Non vi è più distinzione tra la città di Dio e la città terrena in quanto essa è sanata e riabilitata dalla provvidenzialità divina dell'impero. Esso, in quanto unione mistica tra potere temporale e potere religioso è la forma di Stato più vera in quanto destinato alla redenzione spirituale dell'umanità. Questa idea di impero deriva da una cosmovisione polare-paradisiaca che afferma l'esistenza di un Soggetto Divino o divinizzato (l'imperatore come soggetto subordinato solo a Dio) che, attraverso l'espansione del suo potere lungo una direttrice che è sia orizzontale che verticale, pone sotto il suo dominio la massima quantità possibile di spazio redimendolo dal peccato o trasformandolo in paradiso grazie alla sacralità e all'universalità del suo intervento provvidenziale[5]. La coscienza imperiale vive dunque nell'ordine metafisico ed assurge ad una forma di dignità dal carattere trascendete. Tale visione, ispirata dalla rivendicazione di quel sacerdozio regale che accomunava il ruolo dell'imperatore agli attributi di Melchisedek (re di giustizia e sovrano di Salem, figurazione biblica del Re del Mondo), chiaramente rifiuta la prospettiva di san Tommaso d'Aquino secondo la quale al vertice della gerarchia terrena vi sarebbe dovuto essere comunque il Papa seguito da un insieme di istituzioni monarchiche i cui sovrani sono subordinati al potere della Chiesa di Roma. Una prospettiva che fu alla base del superamento dell'ideale ghibellino, il cui ultimo vero esponente fu l'imperatore Arrigo VII morto nel 1313 in circostanze più che sospette[6], e che scatenò il processo di disgregazione di entità politiche unitarie negli Stati-nazione propri della modernità europea.
Ora, la gerarchia stabilità da Dio tra gli uomini è costruita ad immagine di quella celeste. “Dio ha sì subordinato gli uomini ad altri uomini, ma ai principi non concesse nessun altro privilegio. Anzi, ad essi impose solo dei doveri”[7]. L'impero si presenta dunque come un'istituzione che sancisce parità (reale) di doveri e diritti per tutti. Questo è l'unico sistema capace di trasformare il governo in vero liberatore e redentore delle classi umili attraverso l'universalizzazione del privilegio che consiste nell'essere parte integrante di una comunità che si pone sotto una tutela superiore. L'imperatore deve essere esempio e specchio di virtù. La nobiltà intellettuale e di spirito è quella che distingue il vertice della scala gerarchica dal resto degli uomini. Egli deve essere allo stesso tempo monaco, filosofo e guerriero. Egli è il re filosofo di cui parla Aleksandr Dugin nel già citato testo Orizzonte dell'impero ideale. Fulgidi esempi di questo tipo sono stati proprio Federico II (colui che su precisa domanda del Prete Gianni individuò nella misura la “miglior cosa in questo mondo”)[8] , l'imperatore bizantino Niceforo II Foca (condottiero militare capace di ridare dignità imperiale a Bisanzio e che allo stesso tempo fornì un impulso decisivo allo sviluppo del monachesimo cristiano orientale)[9] o, in epoca più recente, Alessandro I di Russia (colui che sconfisse Napoleone Bonaparte e che, secondo una leggenda russa, occultatosi nel 1825, terminò i suoi giorni terreni nei panni di un monaco mistico ed eremita poi fatto santo dalla Chiesa ortodossa russa dal nome di Fedor Kuzmic).
Nel re filosofo, scrive Dugin, non vi è individualità. “Egli è una persona vera, superiore sia all'individuo, sia al collettivo o alla società”[10]. La sua esistenza è votata interamente all'idea imperiale ed al suo dovere verso Dio. Egli non è libero e la libertà nell'impero non esiste perché, parafrasando Hegel, questa non esiste come modello di relazione sociale. Ovviamente qui si intende la libertà nel senso moderno del termine imposto dall'ideologia liberale egemone e totalitaria: ovvero, come mera libertà individuale che non si articola nel senso di scelta tra due azioni etiche differenti ma come libertà di scelta tra forme diverse di schiavitù economica che privano il lavoro di qualsiasi dignità, come libera scelta tra contenitori politici che propongono i medesimi programmi, come libertà di scelta tra prodotti e merci omologhi ma di diverse marche e come libera scelta di trasformare il proprio corpo a seconda delle mode o dei gusti sessuali del momento.
La libertà nell'impero esiste come fides (fedeltà): come libera sottomissione a Dio ed all'imperatore (ponte tra l'ordine fisico e metafisico) che rappresenta l'espressione della volontà divina volta ad edificare la Verità in terra. L'impero è coscienza del mondo e l'imperatore è legge vivente sulla terra.
L'impero non può dunque costituirsi sulla mera forza militare. Una simile istituzione sarebbe destinata a fallire e ad essere vittima del processo storico del divenire. Senza l'essenza imperiale propria dell'antichità e delle culture tradizionali e senza la forza che il monoteismo cristiano e islamico ha dato a tale idea, l'impero si trasformerebbe in un contenitore vuoto che assume i contorni moderni ed antitradizionali dell'imperialismo predatorio nordamericano o più in generale occidentale, anglofono e francofono.
L'Eurasia costituisce per le sue intrinseche peculiarità geografiche, storiche e culturali, il terreno ideale per la nuova manifestazione di questa entità unitaria politico-spirituale. All'interno del grande spazio eurasiatico la civiltà iranica ha fatto da culla all'ideale imperiale. Nella dinastia achemenide era già presente l'idea dell'ascendenza divina della monarchia. Questi sovrani, espressione di una cultura tipicamente tradizionale sviluppatasi lungo lo schema societario trifunzionale proprio della civiltà indoeuropea (re/sacerdoti – guerrieri – agricoltori/lavoratori), rappresentano un mirabile esempio di unione tra sacerdozio e sovranità regale. Il re iranico era infatti il responsabile della conservazione e della rigenerazione del mondo sulla base di una concezione del tempo che in alcun modo poteva essere dissociata dall'eterno.
Un reale progetto volto alla rinascita dell'idea imperiale non può prescindere dalla capacità di sviluppare la sua potenza e la sua autorità attraverso la riappropriazione da parte dell'uomo di quell'ordine superiore che rifiuta l'idea di progresso lineare della storia ricollegandosi proprio a quelle tradizioni indoeuropee che intendevano il tempo come moto circolare inserito nell'eterno disegno di Dio. Il tempo deve essere interpretato come manifestazione eterna del Divino. Ed in quanto eterno, esso può fluire sia in avanti che in indietro. Il tempo è ciclico e reversibile.
Questa progettualità assume dunque il carattere di un “ritorno” al momento in cui l'umanità sublimava se stessa attraverso la condivisione del tempo eterno di Dio. Questo “ritorno” si compie attraverso un cammino impervio. È il calvario hegeliano dello Spirito la cui nuova parusia altro non è che l'attestazione dell'esistenza di Dio. La Pasqua dello Spirito coincide in questo senso con l'Ereignis: l'Evento heideggeriano[11]. Essa è comunque l'esito del Venerdì speculativo dello Spirito: ovvero, la caduta dell'umanità nell'abisso dell'anti-metafisica e la trasformazione della metafisica stessa nella sua anti-essenza postulata a fondamento della società moderna.
Il tradizionalismo può essere il sostrato ideologico utile per il compimento di questa impresa volta alla riappropriazione della dimensione del sacro ed alla costruzione dell'unità politica e spirituale del grande spazio eurasiatico sul modello imperiale. La Tradizione, in questo senso, si pone come Soggetto della Quarta Teoria Politica accanto al Dasein (Esser-ci heideggeriano).
Il ruolo fondamentale del tradizionalismo deriva dal fatto che esso sia intrinsecamente connesso all'idea di un comune linguaggio e di una comune religione primordiali dell'umanità, e con essi sull'idea dell'umanità come fenomeno polare. Quel Polo nordico e celeste che, nella prospettiva dello studioso olandese naturalizzato tedesco Herman Wirth, è stato il punto attraverso il quale i raggi della civilizzazione si sono diffusi verso il sud del mondo[12]. La forma spirituale di questa umanità artica era improntata su un'esperienza cosmico-estatica del divino. Il tempo originario, sempre uguale a se stesso, rendeva impercettibile la distinzione tra creato ed increato e l'uomo, coinvolto in prima persona nell'anno-Dio, faceva esperienza diretta della luce celeste[13]. Questa primordiale centralità del sole era alla base di quello che Wirth chiamava urmonotheismus. “L'elemento essenziale di questa religiosità primordiale, che si esprimeva essenzialmente su una base monoteistica, sarebbe stato costituito da una sorta di rivelazione naturale nella quale il ruolo primario veniva ad essere ricoperto dall'esperienza immediata della luce cosmica, dai significati spirituali coperti dal sole e dai diversi momenti che ritmano il suo percorso celeste, l'anno-Dio raffigurato come soffio/vita del sole […] Da un originario padre cosmico sarebbe derivato un figlio, il portatore di quella che Wirth definiva la luce della terra; il sole, il veicolo corporeo della luce spirituale”[14].
Le idee di Herman Wirth sono il prodotto di studi comparati tra diverse discipline: linguistica, paleografia, simbologia, paletnologia, folklore e storia delle religioni. Un eco delle sue idee lo si ritrova nella maggior parte delle tradizioni eurasiatiche e nello stesso pensiero filosofico di questo vasto continente.
Il filosofo bizantino Giorgio Gemisto Pletone, portatore di un'ideale di riunificazione delle religioni sulla base del platonismo e della loro unità primordiale, parlò espressamente delle ricerca del paradiso come percorso interiore dello Spirito verso il centro dell'anima circonfuso di luce. Secondo Pletone, attraverso la filosofica platonica, erede di quella zoroastriana, si sarebbe potuto dare vita ad una società teocentrica e teocratica ispirata al culto solare. Egli si riteneva prosecutore di una linea sapienziale che aveva le sue origini nell'antichità ed attraverso Zoroastro, Pitagora, Platone ed anche i brahmani era arrivato fino a lui. Pletone venne accusato di voler restaurare il paganesimo ad imitazione dell'imperatore romano Giuliano l'apostata. Tuttavia, il suo era semplicemente un tentativo di riconciliare l'uomo con i caratteri religiosi del primordio attraverso il platonismo ed il monoteismo solare: unica via per superare le controversie religiose, sia tra cristiani che tra cristiani e musulmani, e fondare la pace universale. Questa prospettiva filosofica risentiva enormemente dell'influenza esercitata dallo Sheikh al-Ishraq Shihab al-Din Yahya Sohrawardi; padre della teosofia orientale e convinto assertore dell'esistenza presso gli antichi persiani di una comunità guidata direttamente da Dio. La loro sublime dottrina della luce sarebbe stata testimoniata da Platone e da Ermete Trismegisto. Essa si fonda sulla visione estatica degli esseri di luce. E questa luce altro non è che la “luce di gloria” dello zoroastrismo (xvarnah: termine che indica la fiammata primordiale che è la fonte degli splendori aurorali, quelle ipostasi di luce che generandosi a vicenda dalle loro stesse irradiazioni raggiungono l'innumerevole)[15]. La luce si oppone alla pura tenebra (barzakh): il mondo occidentale (landa dell'occaso) in cui regna il male a causa dell'assenza di Dio. Afferma Dugin: “Il capitale regna laddove il sole muore”. Il ritorno all'Oriente delle luci è la metafora attraverso la quale l'uomo percorre la via iniziatica che lo spinge ad abbandonare l'esilio occidentale e giungere alla propria realizzazione spirituale ed umana.
A queste linee sapienziali Dugin si ispira quando afferma che il re filosofo, seduto al centro di Platonopoli, vivrà un'esistenza la cui intensità trascende i limiti circondato da altri filosofi e sacerdoti sacri che vivranno a loro volta un'esistenza angelica[16]. Ed è su queste linee sapienziali, ispirate dalla conoscenza sacra, che bisogna costruire le premesse filosofiche ed ideologiche per l'ordine imperiale futuro. Un'istituzione politica, potenza tellurica e tradizionale, che rifiuta per sua natura il principio democratico proprio della talassocrazia nordatlantica[17].
[1] A. Dugin, Hegel and the Platonic Leap Down, su www.eurasianist-archive.com.
[2] Qui da intendere come forma subconscia di simpatia reciproca tra diverse persone sia individuali che collettivo-sinfoniche. Questo concetto è utile per spiegare i meccanismi di interazione tra i diversi ethnos attratti l'un l'altro da positiva complementarietà. Si veda a tal proposito M. Conserva – V. Levant, Lev Nikolaevic Gumilev, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma 2005.
[3] Presunto editto dell'imperatore romano Costantino, datato 315 d.C., che sancisce la superiorità del potere papale su quello imperiale e la superiorità del vescovo di Roma sui patriarcati orientali. Il filologo italiano Lorenzo Valla (1407-1457) dimostrò inequivocabilmente, purtroppo troppo tardi, che si trattava di un falso.
[4] A. De Stefano, L'idea imperiale di Federico II, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma 1978, p. 49.
[5] Si veda a tal proposito il saggio di A. Dugin, Le radici metafisiche delle ideologie politiche, contenuto in Continente Russia, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma 1991.
[6] Colui che venne definito da Dante come “Sanctissimo, Triumphatori et Domino Singulari Divina Providentia Romanorum Regi”, e la cui morte, insieme alla distruzione dell'Ordine del Tempio, Renè Guènon interpretò come l'inizio dell'età moderna e la fine del medioevo europeo.
[7] L'idea imperiale di Federico II, ivi cit., p. 41.
[8] C. Mutti, Introduzione a L'idea imperiale di Federico II, ivi cit., p. 21.
[9] G. Ostrogorsky, Storia dell'impero bizantino, Einaudi, Torino 1993, p.143.
[10] A. Dugin, Orizzonte dell'impero ideale, su www.geopolitica.ru.
[11] Hegel and the Platonic Leap Down, ivi cit.
[12] A. Dugin, Herman Wirth and the Sacred Proto-Language of Humanity, su www.eurasianist-archive.com.
[13] A. Branwen, Ultima Thule. Julius Evola e Herman Wirth, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma 2007, p. 31.
[14] Ibidem, p. 57.
[15] H. Corbin, Storia della filosofia islamica, Edizioni Adelphi, Milano 1991, pp. 218-219.
[16] Orizzonte dell'impero ideale, ivi cit.
[17] Si veda a tal proposito C. Mutti, Democrazia e talassocrazia, Effepi, Genova 2014. Afferma il Professor Mutti che la democrazia è associata sin dalla sua origine ateniese all'idea di talassocrazia. Di fatto, l'incremento di poteri del demos ateniese derivò proprio da quella riorganizzazione della flotta che avrebbe garantito alla città il dominio sul mare. Iniziativa che già secondo Aristotele accentuò la corruzione della polis. Senza considerare che altri uomini dell'epoca, Alcibiade su tutti, consideravano la democrazia come “pazzia generalmente riconosciuta” in quanto governo dell'incompetenza ed irresponsabilità eretta a sistema. Un sistema fondato sulla miseria culturale e sull'immoralità della classe politica che si contraddistingueva per aver consentito a vere e proprie canaglie (i kakoi) di governare.