SOVRANITÀ E TEMPO

16.06.2017
Il mondo moderno è un’anomalia.

Di fronte alla deriva estremista dell’ala sionista oltranzista al potere a Washington, l’Europa si trova ad un bivio che deciderà il suo destino: perseguire nella politica di asservimento all’egemonia politico-culturale nordamericana, oppure intraprendere la strada di una reale emancipazione liberandosi dallo status di colonia attraverso la costruzione di una reale unità politica che si associ alla Russia ed alle sue aree di influenza, sulla scia del motto di Fernand Braudel ripreso da Jean Thiriart: “l’Europa fino a Vladivostok”. Un tale progetto richiede in primo luogo la negazione di quella che Julius Evola chiamava “l’ideologia di Norimberga”, e con essa della “religione olocaustica” (espressione utilizzata dal compianto filosofo di scuola marxista Costanzo Preve), atte a castrare ogni velleità di reale indipendenza da parte del continente europeo. Dunque, si rende necessaria la decostruzione del mito delle radici giudaico-cristiane dell’Europa, che ne ha prodotto lo sradicamento dalla sua naturale collocazione spirituale. L’elaborazione dialettica della Quarta Teoria Politica può offrire lo sfondo necessario per un simile lavoro filosofico-intellettuale, che si presenta – come suggerito da Aleksandr Dugin a margine della recente Conferenza di Chisinau “Dall’Atlantico al Pacifico: Per un Destino Comune dei Popoli dell’Eurasia” – nei termini di una lotta fra la sovranità dell’eterno e l’imperialismo del tempo: ovvero fra Tradizione e modernità.

Sulla questione della sovranità

Assumendo come punto di partenza dell’analisi sulla questione della sovranità l’affermazione di Carl Schmitt secondo la quale “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia”[1], ne consegue che lo stesso concetto di sovranità non è stato estraneo a tale dinamica.

Ora, per sovranità si intende il potere sovrano supremo e non derivato. Come afferma ancora una volta Schmitt: “Non si disputa intorno ad un concetto in sé, quanto meno nella storia del concetto di sovranità […] La disputa può esistere sulla questione del Soggetto della sovranità, che è poi la questione della sovranità stessa. Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione”[2]. E tale stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia. Dunque, non si può definire la sovranità esclusivamente come mero monopolio del potere o della sanzione, ma come monopolio in primo luogo della decisione. Tale definizione decostruisce il mito democratico del popolo sovrano in quanto l’idea che all’interno dell’attuale sistema politico possano essere sovrani ora il popolo (elezioni), ora il “principe” (stato d’eccezione) va contro ogni ragione ed ogni diritto. Per questo il razionalismo insito nell’idea del moderno Stato di diritto cerca di negare o ripudiare il caso d’eccezione e facendo ciò mira all’esclusione del miracolo dal mondo. Una negazione che si produce attraverso il processo di neutralizzazione e spoliticizzazione che sta alla base del tentativo di imporre su scala globale la modernità occidentale ed il suo sistema in cui la politica svolge il ruolo di mero corollario all’economia.

Tuttavia, il fondamento di ogni vero Stato è la trascendenza del suo principio; ovvero l’origine metafisica del principio della sovranità e dell’autorità. Lo Stato, parafrasando Evola, deve essere percepito come irruzione e manifestazione nel mondo di un ordine superiore che si concretizza in una forma di potere. Ogni vera unità politica si presenta come l’incarnazione di un’idea ed il principio di sovranità, cioè della potenza dello Stato, ha un carattere sacro. “È alla sfera del sacro che appartiene l’antica nozione romana dell’Imperium che designa in primo luogo la potenza pura del comando prima che un sistema di egemonia territoriale”[3]. Tale potenza pura ha il carattere intrinseco di forza luminosa, di potere che è allo stesso tempo autorità eterna in quanto sacra potestà strettamente collegata al culto religioso ed alla sfera del divino.

Solo quando la tensione metafisica che costituisce la linfa vitale del concetto di Imperium, inteso come pura e luminosa potenza la cui dimensione sacrale garantisce l’espansione nella dimensione territoriale, si allenta ed il gruppo di uomini raccoltosi attorno al principio sopraelevato della sovranità e dell’autorità si indebolisce, inizia il processo che ha prodotto l’atomizzazione delle entità statuali sovranazionali, il concetto moderno di Stato-nazione e, con il trionfo del liberalismo (pensiero all’origine delle varie forme concatenate di sovversione dei principi tradizionali), il rifiuto del concetto di sovranità e la sua progressiva eliminazione.

Scrisse Schmitt: “La conformazione giuridica della realtà politico-storica ha sempre trovato un concetto la cui struttura coincideva con la struttura dei concetti metafisici. In tal modo la monarchia acquistava, per la coscienza di ogni epoca, la stessa evidenza che avrebbe avuto per un’epoca successiva, la democrazia […] Il quadro metafisico che una determinata epoca si costruisce del mondo ha la stessa struttura di ciò che si presenta a prima vista come la forma della sua organizzazione politica”[4]. È dunque chiaro che in un’epoca in cui la metafisica viene pervertita nella sua anti-essenza ben espressa dalla sentenza nietzschiana “Dio è morto”, ogni principio di derivazione divina del potere e dell’autorità venga negato e rifiutato in quanto privo di fondamento razionale. Ovvero di quel razionalismo che è negazione di ogni facoltà conoscitiva superiore alla ragione e che attraverso il processo di de-divinizzazione arriva a rifiutare ogni conoscenza metafisica e spirituale e con esse la stessa dimensione del sacro. Come affermava Martin Heidegger: “La de-divinizzazione è il manifestarsi dell’evo del mondo attraverso la mancanza di Dio di cui l’uomo è il primo responsabile ed a cui l’uomo cerca di sopperire attraverso la lotta costante per assumere quella posizione in cui egli può essere quell’essente che dà la misura e fissa la norma direttiva per ogni essente”[5]. Non deve dunque sorprendere se nel pensiero razionale-pragmatico, alla base del sistema democratico americano da esportazione, la voce del popolo venga ritenuta come la voce di Dio. Un pensiero che è prodotto del dogma protestante della predestinazione e di quel messianismo laicizzato secondo il quale l’umanità debba necessariamente subentrare a Dio.

Una simile impostazione teorica è all’origine dello sradicamento dell’Europa dalla sua naturale collocazione spirituale. L’etica protestante secondo la quale la religione non ha valore che in termini di servizio sociale e di principi morali il cui rispetto è comunque limitato alla sfera individuale e privata ha di fatto sdoganato lo spirito capitalistico del liberalismo economico basato sull’usura, il profitto e l’appropriazione piratesca che ha prodotto le odierne forme plutocratiche di governo. Non è un caso che proprio in Gran Bretagna, potenza talassocratica dei secoli passati e patria antesignana del mercantilismo, si sia affermato un tipo di società il cui elemento primario è il borghese/mercante. Il capitalismo, di fatto, è apparso nel momento in cui i valori tradizionali dei popoli indoeuropei sono stati progressivamente dimenticati. Infatti non c’è posto nel modello societario tri-funzionale indoeuropeo (Re/sacerdoti – guerrieri – lavoratori/contadini), esposto dallo storico francese Georges Dumezil, per mercanti ed usurai considerabili alla stregua di fuori casta[6]. E per questo motivo la lotta contro un modello di borghesia assuefatta alla mentalità semitico-mercantile potrebbe possedere implicitamente in sé la dimensione della restaurazione della civiltà tradizionale indoeuropea. La lotta tra lavoratori (terza casta) e mercanti (fuori casta) può anche spiegare in parte le tendenze anti-giudaiche di molti pensatori o leader marxisti del passato (Josif Stalin su tutti).

Non è un caso che il messianismo cristiano-protestante inglese del XVII secolo, come sostenuto dallo storico dell’escatologia messianica Youssef Hindi, si sia sviluppato attraverso l’influenza del messianismo giudaico. Un legame che darà vita nella seconda metà del XIX a quel movimento sionista il cui malcelato laicismo nasconde al contrario il carattere intrinsecamente messianico dell’imperialismo ebraico[7]. Hindi mette in luce l’oscuro lavoro di diverse personalità religiose giudaiche (come Solomon Molcho che nel XVI secolo propose a diverse case reali europee il suo progetto di ricreare il regno di Israele a seguito di un attacco all’Impero ottomano) che cercarono di sottomettere i cristiani alle idee messianiche giudaiche attraverso una strisciante forma di propaganda che fu all’origine dello sviluppo dell’idea delle radici giudaico – cristiane dell’Europa. Non è un caso se fu proprio il messianismo protestante inglese a proporre il progressivo ritorno dei giudei in Terra Santa in modo da avvicinare il nuovo avvento del Cristo.

E non è un caso che gli Stati Uniti siano “un’emanazione del mondo anglosassone e di quelle eresie escatologiche protestanti che, in rapporto al mondo della cultura europea, si sono sempre trovate ai margini geografici e politici – ovvero al di là dell’Europa, in quell’isola estranea ed aliena che è ed è stata l’Inghilterra”[8]. Gli Stati Uniti sono il paradiso dell’eterodossia e la loro costruzione artificiosa rispecchia la profanità della loro missione: ovvero l’imposizione di un nuovo ordine mondiale che si esprime attraverso il concetto messianico della pax americana. “Gli americani non attendono il messia perché sanno che è già arrivato: è l’America stessa e la sua mentalità”[9]. Tale mentalità si esprime in senso compiuto nel regno della quantità e della anti-religiosità tecnicistica (la grandiosità senza anima ben descritta da Evola in Rivolta Contro il Mondo Moderno[10]), esito ineluttabile di quello che Martin Heidegger definì come il fenomeno del “gigantismo”[11].

Appare evidente che di fronte al totale asservimento europeo all’imperialismo profano nordamericano ed alla “demonìa dell’economia”[12] si rende necessario un movimento che si esprima in primo luogo attraverso il concetto hegeliano di “negazione della negazione”: ovvero nei termini di un attacco contro un qualcosa dal carattere intrinsecamente negativo – il progressismo secondo il quale ogni novità è un più ed un meglio rispetto al passato che sta alla base della civilizzazione tecnica fondata sul dominio della mancanza dello spirito sullo spirito stesso.

È chiaro che qualora uno Stato, in un’epoca dominata dalla demonìa dell’economia, rinunci a regolare ed a guidare da sé i rapporti economici, rinunci allo stesso tempo alla sua pretesa del comando e dunque alla sua sovranità. Tuttavia, la soluzione al problema della tecnocrazia europeista non si trova nel ritorno al sistema degli Stati-nazione vagamente proposto dagli odierni movimenti sovranisti o populisti che cercano di combattere gli effetti senza mirare mai alla causa. L’idea di nazione è infatti un prodotto della modernità; un concetto capitalistico – borghese assolutamente consustanziale all’egemonia del liberalismo. La causa è dunque insita nell’idea stessa di modernità la cui decostruzione filosofica non può che attuarsi come una rivoluzione intesa nella sua accezione etimologica latina di re-evolvere: termine che esprime un moto che riporta al punto di partenza. Un’azione positiva che si rifà alle origini; da quelle origini in cui si dovrebbe trarre la forza rivoluzionaria e rinnovatrice per agire contro la situazione esistente[13]. Tale rivoluzione è una rivoluzione in primo luogo spirituale che si attua attraverso un’azione trascendente intesa, alla pari del concetto di gihad maggiore nell’Islam, come lotta spirituale interiore capace di disintossicare l’uomo europeo dai nefasti esiti della modernità.

Oggi più che mai occorre ricercare il principio metafisico sul quale possa fondarsi una nuova unità europea e più in generale di tutto il continente eurasiatico.

Se Jean Thiriart parlò di un’Europa Nazione priva di divisioni orizzontali (regioni) o verticali (classi sociali), diametralmente opposta all’Europa succube e traditrice di Strasburgo e Bruxelles, ed in cui i concetti di Imperium (sovranità ed autorità) e Dominium (concernente l’ambito privato e tutte quelle scelte ed opzioni che non intralciano né limitano l’esercizio dell’autorità) rappresentano due sfere politiche separate[14]; Julius Evola, ancora una volta, si esprime nei termini di un Impero da realizzarsi attraverso un’unità organica su due livelli: integrazione nazionale ed integrazione sovranazionale. Tale sistema viene presentato come un organismo fatto di organismi o come un federalismo organico. Un sistema la cui natura sopraelevata sarà tale da lasciare ampio spazio alle nazionalità secondo la loro individualità naturale e storica[15]. Un’idea non distante dalla natura imperiale sinfonica russo-ortodossa[16] basata sulla tradizione ellenico-cristiano-bizantina (e non su quella giudeo-cristiana al pari del cattolicesimo romano aspramente criticato dallo stesso Evola) e da quell’idea di ordine eurasiatico (inteso come persona collettiva) basato su giustizia sociale, fede in Cristo ed opposizione alla decadenza occidentale elaborata dal Principe Nikolaj S. Trubetzkoy nella prima metà del XX secolo[17]. 

L’Eternità contro il tempo

Così come esiste un ordine fisico ed uno metafisico, una natura mortale ed una immortale, esiste un tempo finito che si afferma come durata e che si numera con un prima ed un dopo ed esiste un Tempo infinito, eterno ed immobile. “Nell’eternità non c’è né un prima né poi […] Tutto ciò che Dio ha creato, Egli lo manifesta in un istante”. Così affermava il mistico tedesco Meister Eckhart. E Dio crea il mondo ora e sempre. Per questo motivo i mistici sufi si ritengono “figli dell’istante”. “A ogni istante tu muori e ritorni […] Il mondo è rinnovato a ogni soffio ma noi non lo sappiamo perché esso rimane apparentemente lo stesso”[18]. Il tempo che scorre e dura è una costruzione del nostro pensiero utile quando occorre. È l’uomo ad essere in movimento mentre l’Ora è immutabile anche se il sorgere e declinare del sole sembra suggerire l’opposto.

Esiste un tempo profano sottoposto a durata e sottomesso al principio economico del profitto da intendere come “verità relativa” (un’idea del fluire costruita dalla mente) ed un Tempo sacro che è Verità assoluta. Tale Tempo è il tempo circolare dell’eterno ritorno scandito dalla sacralità di riti e comportamenti che hanno negli archetipi celesti i loro riferimenti. Scrisse Nietzsche in Così Parlò Zarathustra: “Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è circolo”[19]. Un’affermazione che Martin Heidegger, nella sua voluminosa opera sul pensiero nietzschiano, interpretò nel seguente modo: “Le cose diritte sono una parvenza. In verità il loro scorrere è un circolo, cioè la verità stessa – l’ente, così come esso in verità scorre – è ricurvo. Il ruotare-in-circolo-su-se-stesso del tempo e quindi il continuo ritornare dell’uguale, di tutti gli enti, nel tempo, è il modo in cui l’ente nel suo insieme è. Esso è il modo dell’eterno ritorno”[20].

L’intero sistema ontologico della modernità è costruito sulla base della comprensione del tempo in modo lineare e come progresso incontrovertibile. Questa costruzione è un prodotto della modernità che si è sviluppato attraverso il passaggio dalla civiltà dell’Essere (basata sulla stabilità e l’aderenza a principi sovratemporali) e la civiltà del divenire. L’Essere come stabilità e Verità assoluta è in totale opposizione al nichilismo del divenire, del continuo mutamento e fluire.

L’idea del tempo finito e lineare è un prodotto dell’ideale religioso del messianismo. Mircea Eliade fa notare che: “il momento della rivelazione fatta a Mosè da Dio è un momento limitato e ben determinato nel tempo. E come rappresenta nello stesso tempo una teofania, acquista anche una nuova dimensione: diventa prezioso nella misura in cui non è più reversibile, è un avvenimento storico”[21]. Da qui l’enfasi attribuita al concetto di Storia la cui pressione è sostenuta dall’esperienza profetica e messianica. Il messianismo conferisce agli avvenimenti storici un valore nuovo abolendo prima di tutto la possibilità di una loro ripetizione ab infinitum. Quando verrà il Messia, il mondo sarà salvato una volta per tutta ed il mondo cesserà di esistere”[22].

Secondo Eliade esistono dunque due orientamenti distinti: uno tradizionale basato sulla concezione del tempo ciclico e sulla sua rigenerazione ab infinitum; ed uno moderno basato sul tempo finito, anch’esso ciclico sotto diversi aspetti (si prenda in considerazione la periodicità ciclica dei riti sacri), ma racchiuso tra due infinità atemporali[23].

Ora, non è automatico che il primo orientamento sia da attribuire esclusivamente a forme religiose pagane ed il secondo al solo monoteismo iranico o abramitico. Ed in questo senso gli sforzi compiuti dagli studiosi della Tradizione volti a postulare l’esistenza di una sorta di lingua metafisica comune soggiacente ai linguaggi delle dottrine tradizionali può e deve essere di aiuto. “L’Eternità non è distante da noi – scriveva Coomaraswamy – ma più vicina del tempo, le cui estremità sono invece lontane, una molto davanti e l’altra molto dietro a noi: ciò che è vero, tuttavia, è sempre stato vero e sempre lo sarà. Verità, nel Brahmanesimo, Buddhismo, Islam e Cristianesimo è, così come Eternità, uno dei nomi di Dio”[24].

Il grande filologo, storico ed etnologo olandese (successivamente naturalizzato tedesco) Herman Wirth fu tra i primi ad elaborare l’idea del paganesimo come una forma di perversione del proto-monoteismo ancestrale. Fu proprio Wirth a definire la Tradizione primordiale iperborea come “cristianità polare”[25]. E fu Wirth ad interpretare la condizione dell’uomo moderno come l’esito della caduta dal ritmo eterno dell’anno di Dio.

Il concetto di “anno di Dio” è centrale nell’elaborazione teorica dello studioso olandese che fondò negli anni Trenta del XX secolo, con Heinrich Himmler e Walter Darrè, l’associazione culturale Ahnenerbe. Secondo tale concetto un giorno di Dio corrisponderebbe ad un anno per gli umani. L’anno è l’espressione della provvidenziale legge cosmica di Dio entro la quale si compie il destino del mondo nell’infinto ed eterno ritorno. Il ciclo del giorno (nascita della luce, dalla quale deriva tutta la vita, il suo elevarsi fino all’alto e la sua discesa e declino) riflette, nella sua ripetizione permanete ed ininterrotta il ciclo annuale così come l’anno riflette la vita umana. Il movimento circolare è la suprema legge cosmica di Dio. Tale legge era riconosciuta attraverso i simboli dell’anno e dell’albero del mondo: axis mundi ed albero della vita allo stesso tempo. Wirth identifica l’Essere e la Luce attraverso la comprensione dell’anno divino.

Il mondo moderno è un’anomalia. Esso è regressione e degenerazione. La Verità deve essere ricercata nei miti, simboli, leggende, culti e riti che riconducono alla patria iperborea dell’umanità[26].

Il mito della borealità primordiale è presente in larga parte delle tradizioni eurasiatiche collegabili ai culti religiosi degli indoeuropei. Lo scrittore indiano Bal Gangadhar Tilak elaborò uno studio estremamente interessante dal titolo La Dimora Artica nei Veda. Il grande iranista Henry Corbin nel suo studio sul sufismo iraniano mise in evidenza come il mondo mistico di Hurqalya, illuminato dal sole di mezzanotte, rappresenti il Polo celeste – nordico, allo stesso tempo luogo dell’origine e del ritorno[27]. Senza tralasciare il mito iranico dell’Airyanem Vejo (la culla degli ariani citata nell’Avesta) e la Thule del mondo classico ellenico. Ed è proprio l’Avesta ad equiparare un anno umano ad un giorno divino (sei mesi di luce e sei mesi di oscurità – caratteristica delle regioni polari) ed a descrivere l’Airyanem Vejo come una terra contraddistinta da sette mesi d’inverno e cinque d’estate.

In un’ottica tradizionale l’andamento della storia umana è dunque di carattere ciclico. Tale affermazione implicherebbe l’esistenza di diverse umanità ognuna delle quali è compressa in un ciclo (un Manvantara – macroperiodo chiuso e separato dagli altri). Ed ogni Manvantara comprende 65.000 anni suddivisi in quattro grandi Yuga o cinque grandi anni (le età corrispondenti allo schema del greco Esiodo).

La nostalgia delle origini, di una condizione che avvicinava l’uomo all’Eterno e che per certi versi lo rendeva partecipe di Esso, è la forza attraverso la quale si rende necessario lo sprigionamento delle energie per una reale Rivoluzione spirituale capace di fornire i presupposti dottrinari per la futura unità dei popoli dell’Eurasia. La vivente elaborazione filosofica della Quarta Teoria Politica è il presupposto ideale per il superamento di quella modernità che ha distrutto la civilizzazione indoeuropea.

[1] C. Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972, p. 61.

[2] Ibidem, p. 34.

[3] J. Evola, Gli uomini e le rovine, Edizioni Mediterranee, Roma 2001, p. 58.

[4] C. Schmitt, Le categorie del politico, op. cit., p. 69.

[5] M. Heidegger, Holzwege – Sentieri erranti nella selva, Bompiani, Milano 2014, p. 221.

[6] A. Dugin, The indo-europeans, su https://eurasianist-archive.com/2016/12/28/the-indo-europeans/

[7] Si vedano a tal proposito: Y. Hindi, Occident et Islam: sources et genèse messianiques du sionisme; De l’Europe mèdievalè au choc de civilization, Editions Sigest 2015; e G.P. Mattogno, L’imperialismo ebraico nelle fonti della tradizione rabbinica, Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2009.

[8] A. Dugin, L’isola del tramonto, in Russia Segreta, Edizioni all’Insegna del Veltro (Collana Elettrolibri), Parma 2014.

[9] Ibidem.

[10] J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma 1998, p. 425.

[11] Si veda a tal proposito D.Perra, Gigantismo e americanismo, su https://www.eurasia-rivista.com/gigantismo-e-americanismo/

[12] Carl Schmitt ricostruisce le fasi attraverso cui si è sviluppato lo spirito europeo negli ultimi quattro secoli e le diverse sfere spirituali nelle quali esso trovò il centro della propria espressione umana. Si tratta di quattro passi secolari che vanno dal teologico al metafisico, da questo al morale – umanitario e infine all’economico. In C. Schmitt, Le categoria del politico, op. cit., p. 168.

[13] J. Evola, Gli uomini e le rovine, op. cit. p. 33.

[14] C. Mutti, Imperium: Epifanie dell’idea di Impero, Effepi, Genova 2005. Si veda anche J. Thiriart, L’Europa fino a Vladivostock, su http://www.4pt.su/it/content/leuropa-fino-vladivostok.

[15] J. Evola, Gli uomini e le rovine, op. cit., p. 278.

[16] L’ideale ghibellino di cui Evola è portatore non è dissimile da quello imperiale della Russia zarista la cui espansione ad Oriente venne interpretata come “l’avanzata incontro al sole” in nome di quella “promessa bianca” di restaurazione dell’impero solare di cui anche Federico II Hohenstaufen e Gengis Khan furono a loro modo dei simboli. Il pensatore romano non ha mai approfondito lo studio della natura imperiale russa. Tuttavia, in Rivolta Contro il Mondo Moderno riconosce il genuino carattere tradizionale dell’autocrazia bizantina (di cui Mosca fu erede) in cui la Chiesa, alla pari del sistema sasanide o achemenide, era sottoposta al potere regale, ed in cui i concetti di Imperium e Dominium si fondono in un’unica autorità rappresentata dall’imperatore.

[17] N. S. Trubetzkoy, Il problema dell’autocoscienza russa, su https://www.eurasia-rivista.com/il-problema-dellautocoscienza-russa/

[18] A. K. Coomaraswamy, Tempo ed Eternità, Luni Editrice, Milano 2015, p. 88.

[19] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1968, p. 184.

[20] M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1985, p. 249.

[21] M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Classici Borla, Roma 2010, p. 106.

[22] Ibidem.

[23] Ibidem, p. 112.

[24] A. K. Coomaraswamy, Tempo ed Eternità, op. cit., p. 108.

[25] A. Dugin, Herman Wirth: Runes, Great Yule and the arctic homeland, su https://eurasianist-archive.com/2017/04/13/herman-wirth-runes-great-yule-and-the-arctic-homeland/

[26] H. Wirth, La patria primitiva della razza nordica, su https://www.centrostudilaruna.it/wirth.html, si veda anche A. Brenwan, Ultima Thule; Julius Evola e Herman Wirth, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2007.

[27] H. Corbin, L’uomo di luce nel sufismo iraniano, Edizioni Mediterranee, Roma 1988.