Rifugiati e migranti, la “mina” dopo New York e Bratislava
L’Onu ha finalmente approvato una storica dichiarazione su rifugiati e migranti, nel primo Summit del Palazzo di vetro dedicato all’argomento. Un Summit che si è svolto, però, molto lontano dalla retorica sulle opportunità delle migrazioni ai quali l’Assemblea delle Nazioni Unite ci aveva abituato.
Non è più tempo di lodare il cosmopolitismo, ma neanche di porre il tema nei termini di gestione di danno collaterale dei conflitti. In questi anni, infatti, abbiamo assistito sempre di più all’evidenza che la migrazione, lungi dall’essere una esternalità delle guerre, sia una vera e propria strategia di destabilizzazione geopolitica. Katehon ha, infatti, apertamente indicato come le guerre in Medioriente e Nordafrica assolvessero a questa funzione: un’accusa speculare e contraria a quella che il generale americano Philip Breedlove ha mosso pochi mesi fa a Siria e Russia.
Chi destabilizza chi, allora?
La verità è che le due importanti deliberazioni dell’Onu appena licenziate, quella sulla condanna della xenofobia e sulla creazione di un meccanismo solidale e pro quota di gestione di migranti e richiedenti asilo, con i Paesi più ricchi a caricarsi dei maggiori oneri, suonano beffarde. Beffarde, mentre New York è colpita dagli attentati del giovane afgano naturalizzato americano Ahmad Khan Rahami, dopo una interminabile melina del sindaco progressista Bill De Blasio, per cercar di disinnescare un’ulteriore “bomba etnica” a vantaggio di Donald Trump. Beffarde, dopo che il crescente successo su scala planetaria di partiti, se non xenofobi, almeno critici circa verso l’integrazione degli stranieri, dovrebbe indurre gli opinion leader verso una maggiore comprensione delle difficoltà da parte dei ceti meno abbienti di confrontarsi con i costi dell’integrazione. Soprattutto quando la migrazione comporta dumping salariale e ipercompetizione con mano d’opera straniera a basso costo.
Suona, infine, beffarda, la dichiarazione Onu, dopo che il vertice dell’Unione Europea di Bratislava è fallito proprio sui fendenti che Matteo Renzi e Viktor Orban hanno inferto alla politica migratoria comune, pur se da posizioni diverse. Renzi, da sinistra, a chiedere più margini di flessibilità per gestire i flussi e Orban, da destra, a chiedere un contenimento. Ma, alla fine, è il premier italiano che ha perso. Nonostante l’appoggio del nuovo “asse rosso” di Roma con il cancelliere austriaco Christian Kern e Alexis Tsipras, ispirato alla famosa triade socialdemocratica con Willy Brandt, Olof Palme e Bruno Kreisky.
Proprio l’Austria, infatti, ha più di un problema relativo alla migrazione e alla competizione, da destra, che incombe, con il candidato del Fpoe pronto a vincere le prossime elezioni presidenziali. La divisione dei migranti pro quota avanzata da Renzi, dunque, è stata nuovamente sconfitta. Questa volta dalla proposta del Gruppo Visegrad, composto da Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia. I quattro stati mitteleuropei hanno coniato un nuovo ossimoro eurocratese: la “solidarietà flessibile”. Dietro questa formula, si cela il rifiuto ad accogliere i migranti provenienti dagli altri stati dell’Unione, se il Paese accogliente dovesse denunciare una qualche difficoltà economica. Con buona pace delle solenni dichiarazioni dell’Onu e con tanto di via libera da parte di Merkel, a sua volta alle prese con la crescita di Alternative fuer deutschland.
Una sconfitta per l’Italia, dunque, aggravata dalle dichiarazioni del presidente della Bundesbank Jens Weidmann, per le quali Roma non abbisogna di altra flessibilità. Qualora ci fossero stati dubbi in merito alle contromosse che Berlino avrebbe messo in campo, dopo le dichiarazioni di Renzi su Germania e Francia.