Partito e volontà di popolo

19.12.2016

Eccoci al quarto governo tecnico. Coloro che avevano confidato nella magnanimità della massoneria, che controlla l’Italia dai palazzi di vetro della grigia Bruxelles, circa una possibile ‘concessione’ di voto al popolo italiano sono stati sin troppo prevedibilmente smentiti.

Il neo-premier illegittimo, quintessenza della mediocrità e specialista nell’accumulo d’insuccessi politici ha inaugurato la nuova (?) stagione politica del belpaese invitando tutti ad abbassare i toni.

In un mondo in cui la moderazione borghese è assurta a principio etico assolutizzante, non c’è da sorprendersi che le seppur timide proteste fatte in punta di piedi dalle cosiddette opposizioni siano immediatamente bacchettate e tacciate di ‘populismo’.

Mai nessuno che, tuttavia, rivendichi il titolo di ‘populista’, di demagogo risvegliatore di un popolo annichilito all’interno della gabbia in cui l’ha chiuso il sistema liberal-democratico.

Ad ogni modo, il mantra è ripetuto da più parti e recita così: la dissociazione della classe politica rispetto al popolo che è chiamata a rappresentare è ormai incolmabile.

Quest’affermazione tautologica si ferma alla superficie. Chi se ne fa portatore continua a chiedere elezioni con cui il popolo possa finalmente scegliere da che partito (o coalizione di partiti) farsi rappresentare.

Volontà di popolo e rappresentanza parlamentare.  Una dicotomia di cui un certo Muhammar Gheddafi si era occupato nel lontano 1975, molti anni prima che il concetto di democrazia diretta diventasse, nell’interpretazione di Grillo e Casaleggio, appannaggio del web.

Nel suo Libro Verde (di cui non esiste versione a stampa in Itala. A voler parlar di libertà d’opinione..) Gheddafi, con un linguaggio diretto e poco incline a strumentalizzazioni da parte terzi (e forse anche per questo vituperato dai salotti moderatamente rivoluzionari d’occidente) pone l’impalcatura democratico-parlamentare sul banco degli imputati. È la nascita della Terza Teoria Politica. Il Colonnello descrive impietosamente il legame indissolubile che intercorre tra partitocrazia e mortificazione della volontà popolare. Un partito è, per definizione, un’associazione di persone esprimenti stessa visione sociale e identiche finalità politiche, un’organizzazione totalitaria che impone il proprio programma ideologico su tutta la popolazione. Il partito, in virtù della delega decisionale concessagli dalla maggioranza relativa degli elettori, attuerà il programma politico ed economico condiviso dal ristretto circolo dei suoi membri senza mai consultare la base elettorale, indifferentemente dalla scelta fatta alle urne. Il voto, all’interno del sistema delle democrazie liberali, svolge una duplice funzione: da una parte esso permette al partito di imporre la propria ideologia minoritaria su tutti e di portare avanti il proprio programma in totale autonomia rispetto alla volontà di popolo. Dall’altro, funge da stabilizzatore degli umori popolari: il votante è convinto che, ponendo una croce su un simbolo piuttosto che un altro, egli stia esercitando il suo diritto a decidere le sorti della Nazione.

Ciò che Gheddafi nel 1975 non poteva sapere era che nel 2016, in uno Stato membro dell’idilliaca famiglia delle democrazie parlamentari, un governo non eletto potesse manifestare tanta sfacciataggine e disprezzo per il popolo da esercitare tutti i benefici di una vittoria elettorale, senza aver tuttavia concesso al popolo nemmeno la soddisfazione di partecipare alla farsa del voto.

I tempi cambiano, si dirà, ma è vero anche che certe idee possono assurgere a modelli perenni la cui implementazione è sempre attuale. Ecco allora che la Terza Teoria Politica può sopravvivere al suo ideatore, barbaramente assassinato tra il tripudio di gioia sguaiata delle democrazie liberali.

Si dirà che un sistema politico basato su congressi e comitati popolari determinati per categorie sociali e professionali (ricorda qualcosa a noi italiani?) è una grossolana utopia. Si sosterrà a gran voce, in nome del progresso lineare consacrato sull’altare della turbo-finanza, che la democrazia diretta è un abominio; che il popolo, ancorché organizzato in strutture di base e non-di base, non possiede le competenze per decidere delle questioni strategiche come spesa pubblica, politiche energetiche e relazioni internazionali, ma che è solo questione di buon senso e di progresso acquisito, il delegare queste cruciali decisioni a un partito.

Se è vero che la libertà non è un concetto politico, come invece le liberal-democrazie ci hanno sempre opportunamente (per loro) fatto credere, bensì economico, non potemmo mai essere liberi fintanto che la creazione del denaro non sarà nazionalizzata in modo da emanciparci dall’odierno parassitismo finanziario, in cui il 90% dell’intero denaro circolante è fittizio.

Il mero voler sperare che una tale soluzione possa essere elaborata da un sistema monopartitico, biparititco o polipartitico è un ossimoro.

L’interesse del partito è condiviso dai pochi che lo compongono. In quest’ottica, anche le scelte economiche devono essere funzionali al consolidamento del potere del partito. L’interesse del popolo è la nazionalizzazione della creazione del denaro, l’abolizione del suo costo e il ritorno della moneta al suo originario valore di mezzo di scambio finalizzato alla distribuzione dei beni di una nazione tra i suoi abitanti.

Alzi la mano chi crede ancora che i primi possano, e vogliano, soddisfare gli interessi dei secondi.