L'egemonia culturale di sinistra? Bisogna leggere "Etnosociologia"

08.06.2021

Sentiamo spesso parlare di egemonia culturale di sinistra. È una falsa affermazione.
La vera e unica egemonia culturale è quella demoliberale che attraverso i suoi menestrelli fa passare la  falsa idea dell’egemonia culturale di sinistra; a definire cosa è cultura di sinistra e a divulgarla è in tutta evidenza il pensiero demoliberale. La cultura di sinistra che ci viene propinata dal sistema mediatico in realtà di sinistra non ha più nulla. Non si tratta altro che di cultura demoliberale travestita, una delle tante artificiali “identità di genere” che meriterebbe a buon diritto di essere elencata nel ddl Zan. All’attuale sinistra – comunque intesa – l’unica autonomia e parziale egemonia culturale concessa è quella relativa al campo dell’antifascismo dove il fascismo di cui straparla è un mostro immaginifico auto-prodotto. Un fascismo artificiale che nulla ha a che vedere con le cose buone, belle, belline, brutte o orripilanti del fascismo così come si è storicamente inverato in Italia. E questa concessione a straparlare di fascismo per praticare a ruota libera l’antifascismo serve al liberismo per tenere sotto scacco le destre istituzionali cui le ricattatorie filastrocche antifasciste della sinistra impediscono di concedersi alla tentazione di pescare cultura nel bacino conservatore, tradizionale e reazionario che gli è proprio, orientandole verso le istanze demoliberali, atlantiste e ordocapitaliste.
Da questo punto di vista sinistre e destre relativamente alla battaglia contro l’egemonia culturale demoliberale non sono fuori gioco: molto più semplicemente sono espressione del pensiero demoliberale.
Chi dunque vuole ristorare l’intelletto ponendosi fuori dall’egemonia culturale demoliberale deve necessariamente privilegiare la lettura della realtà attraverso discipline deologizzate, neutre rispetto alle incrostazioni ideologiche di destra e di sinistra normalizzate in senso demoliberale. Tra queste discipline spiccano geopolitica e sociologia.
Non che la geopolitica sia esente da tentativi di inquinamento ideologico e incursioni della cultura demoliberale, ma si può ben dire che in questo campo i menestrelli demoliberali sono bel lontani dall’aver conseguito un pensiero egemonico.
Paradossalmente quando i demoliberali praticano incursioni nel campo della geopolitiche, come per esempio è il caso di Zbigniew Brzezinski con il suo “La grande scacchiera”, non occorre essere particolarmente arguti per rendersi conto che il loro argomentare ci fornisce tutte le spiegazioni del perché dei disastri planetari provocati dallo stato di cui, sotto la presidenza Carter, Brzezinski è stato consigliere per la sicurezza nazionale. Mentre chi è scevro da condizionamenti ideologici, attraverso le letture geopolitiche, ottiene spiegazioni su ciò che accade in Medio Oriente con Israele/Palestina, in Iran-Irak e soprattutto in Ucraina, il “conflitto non ortodosso” USA-Russia e USA-Cina; può capire, chi interessato, e ben comprendere attraverso l’analisi geopolitica perché l’Italia e l’Europa sono una prigione a cielo aperto amministrata e ben sorvegliata dagli USA ed è in grado di seguire il “file rouge” della geopolitica statunitense a partire dalla dottrina Monroe (elaborata da John Quincy Adams e dal presidente Monroe pronunciata come messaggio annuale al Congresso il 2 dicembre 1823) ai giorni nostri, con i drammatici avvenimenti in Serbia, Iraq, Libia, Siria, Ucraina etc. 
Quanto alla sociologia, terreno di forte scontro ideologico tra grandi pensatori di destra e di sinistra dell’Ottocento e i primi Novecento, quando cioè la sinistra e la destra non erano l’attuale putrescente muffa che è oggi, non conosce alcuna incursione da parte del pensiero demoliberale. La cultura demoliberale non interviene sul sociale tentando di modificare il pensiero sociologico conosciuto proponendo una propria visione e così spiegare le dinamiche sociali ed eventualmente condizionare culturalmente questa scienza sociale. Gli unici imput condizionanti che provengono dalla cultura demoliberale che vanno a formattare l’immaginario collettivo sono sostanzialmente quelle neodarwiniste. Per altro l’intervento sul sociale del demoliberismo è puramente fisico, di potere (spesso ad opera di polizia e psicopolizia, quindi repressivo), così come possiamo constatare con il “Gran Reset” che merita trattazione a parte (magari ne farò argomento per una successiva riflessione). Per il resto io personalmente non saprei citare un solo sociologo di spessore di formazione demoliberale.
La sociologia dunque.
Dobbiamo ad Auguste Comte (fondatore del positivismo)  il conio del termine “sociologia”, materia che prima di allora era definita “fisica sociale”: l’abbandono della definizione seicentesca ha come primo effetto quello di donare alla disciplina piena autonomia che non ha più bisogno di prestiti lessicali per definirsi. Come secondo effetto  il sostituire “fisica” con “-logia” segna il distacco dal filone scientifico-matematico iniziato con Condorcet fino a quel momento tradizionalmente applicato con scopi predittivi alle dinamiche sociali.
Da Comte in poi si afferma saldamente l’intenzione di studiare la società come un fatto naturale, in modo analogo – dal punto di vista metodologico – a quanto fanno le scienze fisiche e biologiche per il mondo vivente e non vivente.
Entrata trionfalmente a far parte delle cosiddette “scienze umane” in un primo tempo questa disciplina sconta la frizzante atmosfera illuminista. Essendo a quell’epoca il suo intento quello di coniugare teoria e pratica per spiegare la complessa realtà del sociale prescindendo da fattori ritenuti estranei quali ideali, spiritualità, divinità etc., i sociologi di stampo illuministico hanno buon gioco anche se in realtà di ideologismi mascherati ne introducono subito a carrettate.
Ma da subito entrano in campo sociologi di ben altro orientamento, a cominciare da Émile Durkheim (fondatore della prima rivista di sociologia) che intravede con chiarezza lo stretto rapporto tra la religione e la struttura del gruppo sociale senza tralasciare il fattore antropologico abbondantemente bistrattato dai sociologi illuministi. Quindi Vilfredo Pareto che tra l’altro, al di là degli aspetti razionali che caratterizzano il comportamento umano, appunta l’attenzione sul vasto e sconfinato terreno delle emozioni che giocano la loro partita in contrapposizione alla razionalità. Verranno poi i vari Gaetano Mosca, Georg Simmel, Max Weber etc. Ma a dare un’ulteriore svolta alla messa a punto della sociologia sarà Ludwig Gumplowicz che sostanzialmente teorizza il conflitto razziale permanente fin dalle origini sostenendo che tale conflitto, pur sotto artificiose maschere, è ciò che determina a tutt’oggi la gran parte delle pulsioni sociali le quali pulsioni vengono mantenute ad un livello tale da consentire al Potere il soggiogamento delle masse/popoli. A riprova della sua teoria, con 20 anni di anticipo profetizza la prima Guerra Mondiale (come conflitto anche razziale) e il futuro conflitto USA Cina, in un’epoca in cui la Cina non era altro che un conglomerato di contadini.
Ma per l’epoca in cui elaborava la sua teoria, anche Gumplowicz si muoveva ancora all’interno di un recinto culturale condizionante, nel suo caso quello del cosiddetto  darwinismo sociale.
Abbiamo dovuto attendere Aleksand Dugin, con il suo *Etnosociologia* che, riannodando i sottili fili dell’antropologia, dell’etnologia e della sociologia, si potesse giungere a fruire di una esaustiva teoria sociologica capace di orientarci nell’attuale complicata situazione sociale a livello planetario e nazionale.
Dugin con il suo *Etnosociologia* compie metodologicamente la stessa operazione già compiuta da Carlo Terracciano in ambito geopolitico. Nella prima parte della sua opera prima di tutto illustra le teorie dei vari maestri della sociologia, quindi le scuole e i vari intrecci e solo dopo passa ad esporre la sua teoria. Nel suo complesso (trascrivo dalla “Premessa” di *Etnosociologia*) «l’etnosociologia assume una posizione critica e polemica nei riguardi della sociologia classica di stampo illuministico. Questa, sviluppandosi in seno alle società borghesi occidentali e assumendo come oggetto di studio la *società moderna* intesa come organizzazione sociale composta da *individui razionali* emancipatesi dai pregressi ordini sociali gerarchici di tipo ascrittivo e dalle relative sovrastrutture ideologiche, tenderebbe a conferire implicitamente questo modello sociale uno *status* normativo e a eleggere ogni società attraverso la sua lente; poiché tutto viene letto alla luce della società moderna, ne consegue che quanto non si conforma ai suoi criteri è automaticamente valutato come negativo, incompiuto, non sufficientemente modernizzato. Un approccio del genere appare del tutto illegittimo e foriero di analisi distorte agli occhi dell’etnosociologia. Allo scopo di rettificare tale *bias*, questa disciplina si prefigge di leggere le società umane – dalle più semplici alle più complesse, siano esse arcaiche o moderne, orientali o occidentali – *alla luce dell’ethnos*, assumendo cioè che esse rappresentino tutte diversi ordini si sofisticazione di *ancestrali strutture etniche* (l’*ethnos* o *koinema*) le quali, anche quando non osservabili esplicitamente, continuano a esercitare la loro influenza in modo implicito nel subconscio sociale». Chiunque, portando il pensiero ai recenti accadimenti nelle società occidentali, a cominciare dagli USA per finire all’Europa e al Medio Oriente si rende subito conto di quanta verità risieda nell’assunto etnosociologico di Dugin e in quello di Gumplowicz (che, attenzione, con “razza” non fa questione di sangue e men che meno di suprematismi… tanto per precisare e non far cadere in equivoci).
Tutta la teoria etnosocilogica è illustrata nelle quasi 800 pagine che compongono l’opera con una massa sorprendente di osservazioni e messe a punto.
Allora, per chiudere, se si vuole avere una chiave di lettura di quanto accade, di come i grandi sponsor del nuovo Ordine Mondiale altrimenti detto globalizzazione, e/o mondialismo si deve comprendere che dalla Geopolitica e dalla corretta sociologia non si può veramente prescindere. Se si è mediamente arguti si ha, con la lettura (e studio, se possibile) di questi 3 testi che vi ho citato tutte le giuste risposte alle domande che vi state ponendo relativamente alle visionarie pandemie, a quelle reali (i virus che stanno inoculando nei cervelli attraverso la propaganda spacciata per informazione), il perché dei conflitti in atto, di come la nostra nazione e i partiti di sistema (tutti nessuno escluso) sono parte attiva nel devasto che siamo costretti a vivere.
Se invece volete continuare a consolarvi con l’alibi “non si va da nessuna parte causa l’egemonia culturale di sinistra”, allora accomodatevi pure in poltrona, sacchetto di patatine, birretta e aspettate la vostra tranquillizzante dose di  sport-vaccino-propaganda.  Il “lamentificio” Facebook è il giusto luogo dove sfogarsi e restare intellettualmente passivi.