LA VISIONE STATUNITENSE DEI TEATRI CALDI
30.04.2017
“L’intelligence non è più, ammesso che lo sia mai stata, quella di Mata Hari (…) Ormai si pubblica di tutto su fonti aperte. La vera capacità è saper leggere tra le righe quello che viene scritto”
Guido Giannettini, intervista con Enzo Biagi
“Why should our goal right now be to defeat the Islamic State in Syria? Of course, ISIS is detestable and needs to be eradicated. But is it really in our interest to be focusing solely on defeating ISIS in Syria right now? Let’s go through the logic: There are actually two ISIS manifestations.”
Thomas L. Friedman, 12 Aprile 2017
Non è quasi mai necessario immaginare complotti inenarrabili e innominabili cospirazioni. Molto spesso, per capire come la si pensa nelle segrete stanze del potere è sufficiente e necessario analizzare il pensiero prodotto dal milieu intellettuale in cui i decisori sono immersi, al quale si abbeverano e nel quale si formano. Le pubblicazioni dottrinarie, strategiche ed operative americane e dei paesi NATO (prodotte da militari e civili) sono facilmente reperibili in rete o nelle librerie specialistiche1. Il pensiero di influenti accademici che diventano poi consiglieri presidenziali è accessibile anche nelle librerie generaliste. La strategia del contenimento antirusso in Asia Centrale – e in Est Europa – non l’hanno inventata i complottasti, ma l’ha enunciata Brzerzinski nel suo Il grande scacchiere. Quanto alla visione dei circoli di pensiero americani, ora conservatori ora progressisti, la si ritrova in un pezzo pubblicato giorni or sono sul “New York Times”, il bollettino dei circoli liberal d’oltreoceano.
Why is Trump fighting ISIS in Syria si intitola il pezzo a firma Thomas Friedman, notista internazionale di lungo corso del prestigioso quotidiano, già scudo e spada dell’antitrumpismo. Nessun complotto, nessun “protocollo dei savi anziani di Washington”: ore rotundo, apertis verbis, il giornalista americano si chiede come mai The Donald si affanni a combattere il gruppo terrorista che potrebbe invece essere usato dagli Stati Uniti come leva antisciita, antiraniana, antisiriana, antirussa e via afghanizzando. Non è tutto: l’articolo propone una distinzione – inquietante sul piano analitico e descrittivo, folle su quello prescrittivo – tra l’ISIS “impero mediatico”, propagatore di radicalismo e terrorismo in casa nostra e l’ISIS “sul campo”, utilizzabile invece come pedina da giocare contro i nemici dell’America, di Israele e dei loro alleati arabi. Un ISIS col mouse cattivo e sempre nocivo, un ISIS col kalashnikov non certo buono ma utilizzabile. Non è scopo di questa breve riflessione analizzare nel dettaglio quanta imbecillità possa essere contenuta nella tesi dei “due ISIS”, o del golem che rimane docile e obbediente al padrone senza ribellarsi, vera coazione a ripetere il giochetto afghano (islamisti di cui servirsi contro i nemici dell’America): non vi è imbecillità più pericolosa di quella strumentale, di quella proferita apposta. Nemmeno vogliamo insistere sulla lettura dei conflitti del Vicino Oriente come una frattura religiosa fra Islam sciita e Islam sunnita. Il sanguinoso divario settario sciiti contro sunniti, pur esistente ed antico, è riemerso per opera dei Sauditi solo dopo la rivoluzione iraniana ed è stato riacceso da non più di quindici anni (dopo l’invasione americana dell’Iraq, per capirci). Esso non può spiegare la complessità di tutto quanto accade nel Vicino Oriente ed è molto spesso poco più che un semplice “divide et impera” contro i popoli musulmani a vantaggio statunitense, israeliano e saudita. Anche questo però è noto.
Il punto è un altro. L’oggetto della nostra analisi è: quale messaggio vuole mandare e a chi un articolo così esplicito, così sfacciato e così chiaro e da cotanta tribuna? Perché appare su un medium progressista e non su di un foglio conservatore? Non commetteremo certo l’errore di scambiare un articolo di giornale per un documento strategico. Sappiamo che però è sempre necessario captare gli indizi e questo pezzo restituisce un clima, un sistema di idee sul quale la classe dirigente americana si basa. Se questo articolo fosse stato un documento mirato a tracciare la strategia e la tattica americane in Siria, sarebbe uscito cinque anni fa: il vino forte della nostra analisi, invece, è che quanto l’articolo raccomanda gli americani lo stanno già facendo da cinque anni di guerra civile in Siria. Non è una perorazione: è una conferma. Non dai conservatori – che su Siria ed islamisti l’hanno sempre pensata così – quanto dal mondo liberal americano che plaude alla svolta antirussa di Trump. Che la politica isolazionista di The Donald – e quella “filorussa” con essa – sarebbe durata lo spazio di uno slogan elettorale, “Eurasia” lo aveva previsto per tempo3. Già da prima che Obama uscisse di scena scrivemmo anche che la natura imperiale degli Stati Uniti (e quindi, sotto varie forme e tattiche, interventista) non sarebbe stata negoziabile datosi che un impero non può semplicemente scegliere di non esserlo più senza suicidarsi4. I presidenti, dopo al massimo otto anni, passano. I potentati economici, militari e di intelligence sono quasi eterni. Trump ha capito l’antifona, ha compreso col fiuto dell’uomo d’affari che le guerre contro “i cattivi” ricompattano il fronte interno e lo fanno rispettare dagli alleati europei, sia quelli visceralmente antirussi (inglesi ed esteuropei) sia quelli interessati ad un politica neocoloniale nel Mediterraneo (la Francia). Ci spingiamo ad immaginare – senza grandi sforzi di meningi, per carità – che permarranno freddi i rapporti con Berlino, mentre la serva Italia si accoderà come sempre.
Alla luce di tutto questo vediamo come il senso dell’articolo miri in primis proprio a ricompattare il fronte interno americano contro i nemici di sempre, veri o presunti che siano, e si conclude appunto con un invito al neopresidente a fare ancora di più sulle vecchie direttrici: more of the same. In secondis, mira a lanciare conferme: la nostra strategia è stata, sarà e dovrà essere questa, e non si affanni Trump a concepirne di nuove. In tertiis, riassume ad uso e consumo dell’uditorio progressista americano (quello conservatore ne è già persuaso) i paradigmi della logica statunitense nei teatri caldi: i buoni siamo noi, gli altri sono cattivi a prescindere, possiamo al massimo distinguere tra cattivi utili e cattivi nocivi per il nostro retrobottega. Il Vicino Oriente lo si divide e lo si governa sfruttando le faglie etnico-religiose e replicando il modello balcanico; nello specifico, i cattivi utili sono gli islamisti radicali “à la Afghane”. Il Presidente Trump, come dicevamo, non solo ha compreso lo spartito, ma ha anche trovato il modo di suonarlo sui propri toni, a proprio vantaggio. Si è dimostrato pronto a usare la forza in modo esplicito, spettacolare (da uomo di spettacolo quale lui è conosce bene questi meccanismi e queste leve). Fino ad ora, almeno con la Corea del Nord, la tattica dello show paga, mentre la strategia è quella di sempre, quella dello “Stato Profondo” americano – anche qui con buona pace dei corifei del “Trump non ha una strategia”: non occorre ne abbia una lui, se c’è chi per lui custodisce quella “eterna”, quella dell’eccezionalismo a stelle e strisce.
Attendiamo con interesse le contromosse russe e cinesi: la Cina è più interessata, confucianamente, a lasciare che il proprio concorrente sfoghi i giovanili ardori e a concentrarsi sul commercio. Lo vediamo sul teatro coreano, dove ha fatto da paciere. Quanto alla Russia, sappiamo che Putin è un judoka. Attenderà le proiezioni di forza dell’avversario per ritorcergliele contro. La vecchia crociata antisciita e quella nuova antirussa di Trump dove possono portare? Potrà mai portare ad uscire dal pantano yemenita? A deporre Assad? A riabbracciare Erdogan mollando i Curdi – in cambio di cosa? Forse, più probabilmente, a tagliare ogni possibile ponte con Putin riaccendendo le braci ucraine… o qualche nuovo atto di destabilizzazione in giro per l’Eurasia per mediazione bombaroli. I segnali ci sono tutti. Siamo in piena “campagna di primavera”.
POSTILLA: Dopo i fatti di Parigi
Come confermano gli attentati di Parigi il terrorismo islamista – per lo meno quello riconducibile all’attività di Daesh – segna una fase di declino operativo. In primis appare incapace di portare a termine attentati enormi, spettacolari per numero di vittime e risonanza e si ritira – purtroppo in buon ordine – su “microattentati” (lo si dica con tutto il rispetto per le vittime). In secundis, la bulimia di attacchi ne abbassa giocoforza il clamore mediatico. Ci stiamo “abituando”, e questo paradosso danneggia l’effetto terroristico. Compiuti da “lupi solitari” o “sciami” (microcellule latamente coordinate ed autonome che si attivano per sollecitazione mediatica e non necessariamente per ordini gerarchici) che siano, gli attentati terroristici sembrano ripiegare quindi su scala artigianale. Quale deve essere la prossima mossa, con un Daesh in calo operativo, militare e territoriale ed una Al Qaeda apparentemente debole ma resiliente? Fare il salto di qualità strategico. Al di là di quanto possano affermare gli (in)esperti responsabili delle politiche di sicurezza europea, il problema del terrorismo non è militare, così come non è nemmeno religioso (e questo non lo diciamo per buonismo o per fede in una presunta natura irenico-pacifista delle religioni in generale e dell’Islam in particolare). Il problema è politico ed ideologico e quando lo avremo compreso potremo dotare lo strumento militare di un cervello politico, potremo dotare il braccio di una testa, la tattica di una strategia organica.
Fonte: Eurasia rivista