La Via del Guerriero: Hagakure
Voglio riproporre uno dei miei primi articoli, scritto circa undici anni fa. La lettura dell’Hagakure, libro in cui incappai per caso all’epoca, si è rivelata per me un momento fondamentale, tanto da decidere di dedicargli uno scritto. In rete se ne può ancora trovare una versione italiana, in qualche blog.
Di recente ho sentito il bisogno di rileggere l’articolo originale, di correggerne alcuni refusi e aggiungergli dei paragrafi, ma la sua sostanza non è cambiata.
Cambiata è invece la nostra società, che in questi undici anni, con il rincalzo della pandemia Covid, è diventata ai miei occhi qualcosa di ancor più spaventoso e ributtante. Non che il processo non fosse già avviato nel 2013 ma è evidente, dovrebbe essere evidente, l’accelerazione che esso ha subito nei giorni nostri, al punto da spingermi senza esitazione a condividere il pensiero del filosofo colombiano Nicolás Gómez Dávila quando ha affermato che il mondo occidentale non sarebbe stato punito perché era esso stesso la propria punizione.
Che penserebbero gli antichi samurai, gli antichi guerrieri e gli uomini tutti che hanno vissuto le loro vite in secoli così lontani dal nostro, di una società (solo Occidentale?) intrisa di wokismo, gender, femminismo d’accatto come la nostra, che ancora adesso si vanta di essere arrivata alla fine della Storia e di essere un giardino in Terra?
Ecco la mia riscrittura….
Ho scoperto che la Via del Guerriero consiste nella morte. Quando arriva il momento di scegliere tra vita morte, è meglio scegliere subito la morte. Non è poi così difficile: basta solo decidere e andare avanti. Chi sostiene che è vano morire senza aver raggiunto il proprio scopo, pratica una via da mercanti.
Questo è il terribile inizio dell’Hagakure di Yamamoto Tsunetomo: un libro che in forma di precetti, sentenze, massime ma anche brevissime storie, ha rappresentato per generazioni una sorta di breviario spirituale per tutti i giapponesi che abbracciavano la Via del Guerriero. O che intendevano farlo.
Un libro maledetto, secondo le forze di occupazione americane in Giappone. Un libro tanto odiato e temuto dagli occidentali che gli statunitensi si impegnarono con zelo nel tentativo di rimuoverne il ricordo, bruciandone nel fuoco migliaia di copie. Gli americani imputavano all’Hagakure l’acceso nazionalismo che i giapponesi avevano manifestato fino alla sconfitta bruciante della Seconda Guerra Mondiale. All’Hagakure e ai suoi insegnamenti fu fatto risalire il fenomeno dei kamikaze e dei suicidi di massa al posto della resa, anche tra i civili.
I vincitori cercarono così di bruciare ogni copia esistente del libro, di cancellarne ogni minimo ricordo, ma fallirono nel loro scopo ed il libro è sopravvissuto divenendo noto in tutto il mondo, studiato, ancora adesso amato o odiato da chi lo legge.
L’Hagakure non è stato scritto dallo stesso Tsunetomo ma dal suo unico allievo Tashiro il quale contraddisse la volontà del maestro e non distrusse la trascrizione delle conversazioni che i due ebbero tra il 1710 e il 1716. Ne scaturì un libro che fu subito considerato un tesoro prezioso dai samurai del clan a cui Tsunetomo apparteneva e secoli dopo divenne uno dei capisaldi della letteratura samuraica.
Negli anni in cui l’Hagakure fu scritto la classe dei samurai manifestava già i tratti decadenti del tempo di pace perché l’unificazione del Giappone era stata completata da più di un secolo. La pace generalizzata portava con sé, infatti, stabilità e prosperità e quindi il bisogno di funzionari amministrativi competenti più che di legioni di guerrieri sempre pronti alla battaglia. La chiusura delle frontiere, decretata da un governo che temeva (non completamente a torto) le ingerenze politiche e religiose di Spagna e Portogallo, impediva anche l’avvio di campagne militari all’estero così che molti samurai si ritrovarono a vivere la situazione contraddittoria di guerrieri che erano combattenti solo in via potenziale. Molti di loro persero il loro impiego, diventando ronin, dei samurai senza padrone costretti ad una vita raminga e molto dura che poteva sfociare nella criminalità manifesta. Altri ricorsero alla morte per suicidio, unico mezzo per sfuggire al disonore della miseria e agli stenti che l’accompagnava. Emblematico a questo riguardo è Harakiri, film del 1962 del regista giapponese Masaki Kobayashi, che vede un immenso Tatsuya Nakadai interpretare la parte di Hanshiro Tsugumo, un samurai benestante e rispettato che precipita improvvisamente in un vortice di miseria con tutta la sua famiglia perché il suo signore è finito in disgrazia agli occhi dello Shogun. La morte in rapida successione del nipotino appena nato, ammalatosi a causa del freddo, quella del genero che aveva ingenuamente cercato di organizzare un finto harakiri per essere assunto da un feudatario locale e il successivo suicidio dell’adorata figlia, straziata dalle due morti improvvise, fa alla fine esplodere in Nakadai/Tsugumo quella che Ivan Morris avrebbe definito secoli dopo la “nobiltà della sconfitta”. Con una ferocia sanguinaria ma al contempo priva della benché minima possibilità di successo e redenzione, Nakadai cerca inutilmente di punire il sistema che lo ha trasformato in un reietto, incontrando la sua inevitabile morte.
Tsunetomo insegna guardando al futuro perché teme la decadenza che vede serpeggiare nel presente e ricorda con rimpianto i fasti di un periodo scomparso, da lui però mai vissuto. Un periodo in cui gli uomini potevano confrontarsi gli uni con gli altri sul campo di battaglia ed ognuno guardava in faccia la propria verità senza poter mentire. Ma lui stesso era un samurai dei tempi moderni: non aveva mai partecipato ad alcuna guerra o battaglia o duello e, al di fuori del suo addestramento, non aveva mai conosciuto le asperità della vera vita militare del tempo di guerra.
Era sempre stato però un fedele vassallo del suo Signore, incarnando gli ideali di fedeltà e dedizione che affondavano le loro radici profonde nella cultura confuciana e buddhista che il Giappone aveva mutuato dalla Cina. Ma Tsunetomo era talmente fuori tempo storico da non poter neanche praticare junshu alla morte del suo feudatario. Non poté, cioè, realizzare il suicidio per fedeltà che si era prefisso fin da giovane e che era sempre stato concesso a quei samurai che avevano fatto voto di non sopravvivere alla morte del loro daimyō: pochi anni prima era stata infatti approvata una legge che proibiva simili atti a causa degli eccessi del passato. Come alternativa gli fu permesso di pronunciare i voti religiosi e diventare monaco buddhista fino alla fine dei suoi giorni terreni. Lui stesso lo riconosce nel libro, affermando di preferire di reincarnarsi sette volte come samurai del suo clan piuttosto che conseguire il nirvana degli illuminati.
Di che parla l’Hagakure? Parla di fedeltà. Di dedizione. Di coraggio. Di etica. Di come vivere la propria vita servendo il proprio Signore in modo decoroso. Ma non solo. Parla di un concetto tipico della cultura giapponese dell’epoca e, in misura molto diversa, contemporanea: quello di giri, il debito morale che si ha con chi è venuto prima di noi e prima di noi ha saputo compiere grandi cose. Giri è un’idea presente anche in altre culture ma non sempre in maniera così marcata come nel Giappone dei samurai. Inutile ricordare come nel mondo contemporaneo, occidentale e non, dominato dal consumismo e dalla brama di denaro, tale concetto suoni superato ed anacronistico alle orecchie di molte persone. Perfino buffo, alle orecchie degli stolti.
L’Hagakure parla della morte e di come affrontarla quotidianamente, per esempio esortando a guardare quotidianamente a sé stessi come se si fosse già morti: l’accettazione di questo fatto, secondo Tsunetomo, porta alla capacità di vivere con equilibrio e in modo etico. Questo è un punto interessante perché vi sono ordini religiosi cristiani i cui monaci hanno l’abitudine di salutarsi ricordandosi esplicitamente l’ineluttabilità della morte. Il richiamo alla caducità dell’esistenza umana dovrebbe portare la persona ad agire rettamente e con equilibrio nella sua vita quotidiana. Questo libro è anche una continua esortazione alla moderazione: dei sensi, dei sentimenti, delle aspettative, delle parole, degli atti, dei gesti. Perché se è facile cadere in una situazione critica a causa di una parola pronunciata con leggerezza o di un gesto fatto anche senza cattive intenzioni, può essere però difficilissimo uscirne. E l’unico modo di togliersi da una situazione critica può essere il seppuku, il suicidio rituale di cui junshu era una delle varianti.
Tsunetomo era intriso di sentimento buddhista e questo traspare nelle esortazioni al rispetto per tutte le creature viventi. Può sembrare un comportamento contraddittorio ma quella dei samurai è una figura complessa e il venir meno di uno stato di guerra continua fra clan feudali aveva favorito l’affermarsi di caratteristiche diverse nella stessa figura di guerriero. Non a torto alcuni lettori occidentali hanno colto delle assonanze tra certi insegnamenti ricordati nell’epica samuraica e quelli, per esempio, dei Padri del Deserto, i primi monaci cristiani che hanno abitato le zone desertiche del medio oriente quando il cristianesimo era agli albori.
L’Hagakure è un’opera scritta in un’epoca oramai passata ed alcuni riferimenti culturali sono difficili da comprendere per l’uomo contemporaneo ma nella sua essenza permane un’opera che offre molti spunti di riflessione. Può essere un ottimo strumento per la vita quotidiana sapendo scegliere e adattandolo allo spirito dei nostri tempi.
Vi sono infatti alcune sue parti che non è possibile trasporre direttamente nella società deforme e deformata nella quale viviamo oggi ma altre invece vi possono essere adattate. Coraggio, lealtà, rispetto, impegno, attenzione continua e precisa per l’attimo che stiamo vivendo: sono tutte caratteristiche che l’uomo contemporaneo può coltivare come le coltivava il samurai dell’antico Giappone. Si tratta in realtà di qualità senza tempo e senza appartenenza specifica perché appartengono alla natura umana, sono il fondamento dello stato di diritto e di una società rispettosa dei suoi cittadini.
La figura del samurai, il guerriero disposto al sacrificio supremo per lealtà al proprio Signore, ha visto una grande e variegata produzione cinematografica.
Tralasciando i film della sconfinata produzione nipponica come il già ricordato Harakiri, è interessante segnalare il bel film di Jim Jarmusch Ghost Dog nel quale un eclettico Forest Whitaker interpreta la parte di un samurai contemporaneo, di colore, curiosamente al soldo di un boss mafioso italoamericano.
Quello di Whitaker è un personaggio con tratti negativi e per alcuni versi condannato-votato al finale ineluttabile, ma non per questo primo di una sua morale e di una propria etica. Proprio dalla lettura dell’Hagakure, brani del quale si sentono recitati nel film, si intuisce lo sforzo di autocostruzione della propria personalità che Whitaker-Ghost Dog porta avanti. Quasi che la realizzazione dell’epica samuraica nella sua vita quotidiana fosse per lui l’unica via di fuga dall’ambiente oppressivo e senza futuro del ghetto in cui è nato e cresciuto e in cui vive ancora.
Come nella migliore tradizione samuraica, l’errore involontario nell’adempimento di un incarico, determina una catena di eventi che portano inevitabilmente alla morte del personaggio del film. Il samurai di colore si ribella al modo ingiusto in cui viene alla fine trattato trattato proprio da colui a cui si è consacrato ed esplode in tutta la sua furia omicida, possente quanto inutile. La morte inevitabile suggella la fine della ribellione del samurai Whitaker-Ghost Dog: ancora una volta, è la nobiltà della sconfitta a portare all’inevitabile finale.
Come ci insegna il vecchio Tsunetomo, alla fine si possono anche prendere decisioni in contrasto con quelle del proprio Signore ma bisogna sempre essere pronti a rispondere delle loro conseguenze.
Voglio ricordare per concludere, l’ultimo junshu di cui si ha notizia: alla morte dell’Imperatore Hitohito, nel 1989, un cittadino giapponese compì seppuku lasciando una breve spiegazione. Quell’uomo scrisse: “ero un soldato, molti anni fa avevo giurato di dare la mia vita per l’Imperatore”.