Il sacrificio di Darya Dugina: Il cordone d'oro che unisce la nostra “cavalleria”

20.08.2024

Due anni fa, Darya Dugina è stata uccisa, la sua vita è stata portata via dalle fiamme in un attacco terroristico organizzato dall'Ucraina insieme alle agenzie di intelligence occidentali.

All'epoca svolgeva un ruolo importante nel giornalismo investigativo russo, approfondendo temi pericolosi che riguardavano i legami tra le élite occidentali e alcuni loschi interessi. Ma era anche una filosofa neoplatonica e una militante dell'eurasiatismo, del tradizionalismo e del patriottismo russo.

Non era, appunto, una “civile”. E sarebbe disonorevole trattarla come se non avesse “nulla a che fare”. Al contrario, era una combattente spirituale e intellettuale nella guerra che i popoli del mondo stanno conducendo contro le élite globaliste dell'Occidente e i loro eserciti di zombie.

Era quindi una compagna.

Alcuni calunniatori ci chiedono “perché” ricordiamo ed esaltiamo sempre la memoria di Darya Dugina. A loro sembra “ridicolo” che i “brasiliani” ricordino una “russa” morta “dall'altra parte del mondo”. Sono cinici zombie e golem, sono uomini-animali, e Yukio Mishima ha già detto ciò che va detto su queste persone: “Il cinismo che considera comico il culto dell'eroe è sempre accompagnato da un senso di inferiorità fisica”. Chi si trova nel fango, nella palude, cercherà sempre di trascinare tutto al proprio livello.

Il “cameratismo” non è “amicizia”, perché non è un sentimento. Non è nemmeno un semplice “accordo politico”, perché non è razionale. Il cameratismo è un legame di sincronicità spirituale che unisce, in un cordone d'oro, tutti coloro che combattono nella stessa guerra eterna e planetaria delle forze della Tradizione contro le forze parassitarie della Modernità.

In questo senso, è la fondazione di una “Patria spirituale” i cui “cittadini” sono come un invisibile “ordine di cavalleria”, che conduce una guerra disperata contro l'avanzata delle schiere sotterranee.

L'etica di questa “Patria” e di questo “ordine” è follia e delirio per gli uomini-animali. È un'etica del sacrificio, della dedizione e del fanatismo, dove le minacce di morte, i ricatti economici, le promesse di ricompensa, la repressione giuridico-poliziesca non significano assolutamente nulla. Dove ogni colpo subito è un onore, perché indica che siamo sulla strada giusta; dove ogni inconveniente causato dal nemico rafforza il fanatismo; dove la morte nella linea del dovere rivoluzionario è sempre gloriosa e serve a incoronare con un'aureola dorata e augusta il compagno che è diventato un eroe.

È in questo senso che non ricordiamo Darya con un “lamento per una vittima della violenza”, ma, al contrario, celebriamo la sua memoria e vediamo la sua morte come l'apoteosi di un compagno. Apparteniamo a un “mondo”, diverso da quello borghese, in cui il “Valhalla” è speranza e desiderio, non paura, e in cui ricordiamo ogni compagno asceso con un brindisi.

Naturalmente, non è la prima compagna a morire. Sia in Brasile che in altri luoghi in cui siamo presenti, abbiamo i nostri “memoriali” ai compagni caduti. Tuttavia, la morte di Darya Dugina è significativa e fa da spartiacque.

È particolarmente significativa perché avviene nel quadro di una guerra aperta in cui la dualità Tradizione/Modernità si è finalmente incarnata in modo assoluto nella geopolitica, con il confronto tra l'Asse contro-egemonico, guidato dalla Russia, e la NATO, guidata dagli Stati Uniti. Non è una guerra qualsiasi, non è una guerra per interessi economici, per le azioni in borsa o per altre sciocchezze del genere, è la guerra fondamentale, quella che inaugurerà un nuovo periodo o semplicemente ci farà sprofondare nella schiavitù.

È significativa anche per il profondo simbolismo della morte: una fanciulla guerriera-filosofa, dotata di una profonda coscienza spirituale e di un patriottismo incrollabile, inghiottita dalle fiamme (eppure il suo corpo è rimasto quasi intatto, come abbiamo visto nel rito funebre!). Ci viene subito in mente Giovanna d'Arco, per esempio.

Nel tipo di lotta che stiamo combattendo, le donne martiri sono molto più rare degli uomini. E quindi infinitamente più preziosi. Sono così rare che ci fanno quasi credere che siano state un angelo o un emissario degli dei piuttosto che una persona comune. Ricordiamo qui il ruolo di proiezione esteriore della “fanciulla interiore” nei miti e nei riti della cavalleria medievale, o le valchirie scandinave e le fravashis persiane, tutti “spiriti femminili” legati agli “ordini” degli eroi guerrieri.

C'è quindi un mistero nel sacrificio di Darya Dugina che si lega a questi antichi simboli e che consacra, con il suo sangue, questa lotta internazionale contro i nemici dei popoli.

Naturalmente, per il professor Aleksandr Dugin tutto questo è ancora più profondo e viscerale. Perché anche lei era sangue del suo sangue. Il suo sangue, versato, era anche il suo, ed era anche una parte di lui che è morta con Darya Dugina.

Eppure, quello che abbiamo visto da Dugin negli ultimi due anni è una dedizione ancora più grande e fanatica alla causa per cui ha combattuto e si è sacrificato per decenni. In questo senso, è un onore condividere la trincea con un uomo così nobile.

Non solo in Russia, ma dal Brasile al Giappone, dall'Italia al Perù, dall'Argentina alla Turchia, dalla Francia all'Iran, dal Venezuela alla Cina, oggi ricordiamo Darya Dugina e manteniamo viva la sua memoria, affinché continui a ispirarci e a darci coraggio nella nostra lotta conservatrice-rivoluzionaria globale.

Traduzione a cura di Lorenzo Maria Pacini