Il ruolo dell’Europa nel nuovo ordine multipolare

06.02.2020

La recente crisi nei rapporti tra Stati Uniti d’America e l’Iran, con l’eliminazione fisica del generale iraniano Soleimani in Iraq, significa soltanto una cosa: che gli americani fanno la guerra senza neppure dirlo e fanno politica estera anche quando dicono di occuparsi prima di tutto di casa loro. Sarà forse ancora vero -  come sostengono alcuni commentatori - che l’obbiettivo finale per Trump resta pur sempre quello di estrarre gli USA dalla “guerre infinite” per concentrarsi sull’economia interna, ma intanto i soldati americani continuano a restare in Iraq, mentre il parlamento iracheno ha chiesto  il ritiro immediato di tutte le truppe americane  presenti sul territorio del Paese. Donald Trump è stato votato dal popolo americano non per continuare le politiche imperialistiche  di Bush e  di Obama ma contro di esse. E qualche volta pare scordarselo. 

Gli Stati Uniti non potranno comunque continuare ad esercitare quel ruolo imperiale che hanno esercitato dal dopoguerra fino ad oggi e dovranno riconoscere la realtà di un nuovo ordine globale multipolare. Credevano nella completa realizzazione di quel sogno imperiale dopo la caduta del Muro di Berlino: gli USA, l’ unico polo dopo il fallimento del sistema bipolare fondato a Yalta, la superpotenza  che avrebbe plasmato con i propri valori occidentali il mondo intero a propria immagine. C’è chi persino  parlò di “fine della storia”, ma più di recente  pare si sia ricreduto. In effetti la Russia di Vladimir Putin ha rialzato la testa e un nuovo impero è emerso nel frattempo  prepotentemente sulla scena della storia: la  Cina di Xi Jinping, che è ormai una grande potenza globale, sia in termini economici sia in quelli politici. Ammettiamolo: l’unipolarismo americanocentrico, di fatto, è già superato dalla storia.   

In Europa cosa succede? Ci troviamo di fronte ad una situazione complessa. Brexit ormai è una realtà. La Ue ha un membro in meno. Da Maastricht in poi l’Europa si è trasformata in una gabbia franco-tedesca, gli inglesi hanno  mostrato che è possibile uscirne. Ci sono problemi interni di leadership in Stati nazionali importanti: Merkel sulla via del tramonto, Macron assediato dalla rivolta del gilet gialli. L’Italia potrebbe, e a mio avviso dovrebbe a maggior ragione dopo l’uscita del Regno Unito, contrastare l’egemonia franco-tedesca nell’ Unione europea e far valere la propria posizione di forza nel mediterraneo.

In quanto europei restiamo ancora stretti “nella morsa” tra America e Russia, come aveva già scritto Heidegger tra le due guerre, e oggi la situazione è complicata dal nuovo fattore cinese, dalla strategia altamente  intrusiva della Via della seta, che mira in modo palese a staccare l’Europa dagli Stati Uniti. Per converso la Russia di Putin non rappresenta più per l’Europa il pericolo che rappresentava l’Unione Sovietica ai tempi della guerra fredda. Ma certo gli interessi russi non sono convergenti con quelli americani.

Venti di guerra? E come escluderli? Uccidere un generale, che rappresentava tra l’altro un simbolo, non è già un atto di guerra? L’unica cosa che appare realistico dire è che eventualmente i protagonisti del conflitto non saranno più gli Stati nazionali come nell’Europa del XIX Secolo ma questi grandi spazi geopolitici. Quale potrebbe essere il ruolo dell’Europa in questa nuova costellazione globale che si sta delineando? 

L’Europa potrebbe giocare un ruolo di equilibrio politico tra atlantismo (USA) ed euroasiatismo (Russia e Cina): senza ovviamente dimenticare  - in una situazione di contrasto sino-americano - il nostro rapporto storico con gli Stati Uniti, ma d’altro canto anche il fatto che la Russia, almeno in parte, è legata alla civiltà europea. La questione decisiva  per l’Europa resta la Russia. Ma per svolgere  questo ruolo “frenante” nel conflitto tra i nuovi titani l’Europa dovrebbe cambiare prospettiva, un vero e proprio cambiamento di paradigma. La “mutualizzazione” di carbone e acciaio nel secondo dopoguerra fu una ottima idea per porre fine alle guerre in Europa, al resto durante la “guerra fredda” pensavano gli americani con la NATO. Ma oggi la situazione è cambiata, anche se la NATO continua a persistere come se nulla fosse cambiato, come mostra la  recente inaugurazione a Sigonella del sistema AGS  avanzatissimo nella tecnologia militare. Certo è che se si vogliono avere rapporti di buon vicinato con la Russia la prima cosa da fare sarebbe  non alimentare conflitti ai suoi confini, proponendo, ad esempio, l’adesione alla NATO di Ucraina e Georgia. 

Noi europei continuiamo a “pensarci” a partire dagli anni Novanta come un grande mercato, secondo la teorie neoliberali del primato dell’economia sulla politica. “Più mercato e meno Stato”, e così alla fine abbiamo costruito una Unione che è solo un mercato e che ha preteso di distruggere gli Stati nazionali, senza peraltro offrire in cambio una alternativa politica. La società  civile  ha preso  il posto dello Stato, per dirla con Hegel, e la politica ha lasciare il posto all’ economia. L’Europa ha finito così con l’abbandonare i suoi valori, facendo dell’euro il solo valore, ma la moneta che avrebbe dovuto unire invece ha diviso ulteriormente. Chi oggi non è disposto ad ammetterlo bara: non siamo neppure disposti a “mutualizzare” i nostri debiti. 

Il risultato? È  sotto gli occhi di tutti. Indebolita da una  crisi economica permanente, da un costante calo demografico - all’inizio del Novecento l’Europa era un quarto della popolazione mondiale, e il Paese europeo in cui l’invecchiamento e più marcato è il nostro - e di converso sottoposta a immigrazione di massa, colpita al cuore nelle grandi città europee dal terrorismo jihadista. Questa è oggi l’Europa, bellezza! Il mondo si occupa di intelligenza artificiale e di “disruption”, noi di razzismo e di pareggio di bilancio. È incontestabile, da  protagonisti siamo ormai, in quanto europei, ai margini della storia universale. 

Una conferma? Proprio quello che è successo di recente in Libia dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, che l’Europa non solo non è in grado di affrontare seriamente la crisi economica ma è del tutto inesistente dal punto di vista politico. Ogni Paese va per la sua strada, i nostri attuali governanti, ad esempio,  non si sono neppure resi conto del fatto che i turchi hanno preso il nostro posto in Libia e che ora  per  disinnescare il pericolo di Erdogan, e dei flussi migratori che controlla, bisognerebbe intendersi anzitutto con il Cremlino.

Putin fa certo gli interessi del suo Paese. È intento non a prorogare ulteriormente il suo mandato, come molti commentatori occidentali scrivono, ma a progettare riforme strutturali. Mira a costruire una Russia “putiniana” dopo Putin, modificando l’assetto costituzionale, in un modo peraltro ancora difficile da decifrare, e rilanciando l’economia, attraverso la modernizzazione tecnologica. Dal “potere ai soviet più elettrificazione” di leniniana  memoria  si passa al “potere allo Stato più informatizzazione”. Anche se non è ancora chiaro che modello di Stato Putin intenda costruire con le modifiche costituzionali. Come che sia la Russia vuole controllare il suo spazio, senza mire egemoniche mondiali.
  
Nel Medio Oriente i danni - penso proprio alla Libia - li ha fatti la NATO nel 2011 e oggi, noi per primi, ne paghiamo ancora le conseguenze, mentre la Russia rappresenta da tempo nella regione un fattore di stabilità. Proprio il nostro Paese potrebbe svolgere un ruolo decisivo in quella regione e invece ci troviamo Erdogan al nostro posto. Sarebbe l’occasione giusta per riprendere un  dialogo costruttivo con Putin - un po’ come  peraltro  sta cercando di fare la Germania -  proponendo a livello europeo il superamento delle sanzioni commerciali, che tra l’altro tanto ci danneggiano.  

Beninteso, nessuno vuole mettere in discussione il nostro legame con gli Stati Uniti, ma non dobbiamo neppure diventare la testa di ponte degli americani sul vecchio continente, essere ancora una volta vassalli dell’impero americano, come invece alcuni propongono. Il nostro interesse nazionale sarebbe quello di stringere accordi con  gli Stati Uniti contro tedeschi, francesi e russi? A mio avviso in questo modo più che fare il nostro interesse nazionale favoriremmo ancora una volta l’egemonia americana. Non  è questa la strada da seguire. Possiamo invece - e dovremmo anche farlo -  posizionarci politicamente all’interno dello spazio europeo. Bisogna,  certo, ripensare il senso della nostra appartenenza a questo spazio, non negando la nostra sovranità, anzi recuperando margini di sovranità economica, ma riconoscendo una idea di civiltà europea che partendo dal riconoscimento degli Stati nazionali, e non dalla loro negazione, miri alla costruzione di un’Europa delle Nazioni e dei Popoli, dotata di una propria comune politica estera.

È fallito il progetto di un’Europa postnazionale cosmo-  politica, voluto dalla sinistra. È fallito altresì il progetto di una Europa neoliberale fondata sul dominio dell’economia finanziaria, voluto dalla destra, ma non è (ancora) fallita l’idea di un’Europa dei Popoli che possa giocare un ruolo strategico importante all’interno del nuovo ordine politico mondiale multipolare. Il multipolarismo di cui parlo è del tutto compatibile con l’esistenza degli Stati nazionali. La ricchezza delle nazioni europee non va dispersa se concorre a creare un grande spazio. E questo è possibile perché esiste una comune civiltà europea. 

Il sovranismo non può significare il ritorno agli Stati nazionali chiusi, autarchici, centralisti, il sovranismo semmai è la risposta al fallimento del globalismo cosmopolita e del neoliberalismo con la sua ossessione del libero mercato su cui si è voluto costruire il progetto dell’Unione. L’enfasi sul patriottismo non deve spingerci verso il nazionalismo del secolo scorso e le sue derive sciovinistiche, come vorrebbe un rinnovato nazional- conservatorismo, bensì verso un nuovo “sovranismo delle identità e dei bisogni”  che sappia coniugare  insieme istanze autenticamente liberali e sociali in una prospettiva al contempo  nazionale  ed europea. Sto,  insomma cercando di delineare  un sovranismo di natura federalista, un federalismo che parte dal basso, formato da cerchi concentrici, volto a preservare e risaldare le identità locali, regionali, le piccole patrie e quelle grandi e aperto alla costruzione di una Confederazione europea.

Una Confederazione di Stati europei dovrebbe da un lato lasciare totale libertà a ciascuno degli Stati membri in materia di difesa interna di ordine pubblico, dall’altro però dovrebbe ampliare il potere a livello comunitario nella difesa esterna dei confini europei e nella sicurezza comune.  Il sovranismo - voglio ribadirlo - non va confuso con il nazionalismo. Pur avendo a cuore la difesa delle nazionalità, non vuole costruire muri ma porte, dalle quali sia possibile entrare ed uscire.

La Confederazione europea  potrebbe anche dar vita ad un esercito europeo senza che i singoli Stati rinuncino tuttavia alle proprie forze armate, un esercito  che provveda esclusivamente alla difesa dei suoi confini esterni,  capace quindi di offrire una difesa comune contro eventuali attacchi esterni, si pensi, ad esempio, al problema del terrorismo.

Medesimo discorso può essere fatto di politica estera, che già oggi è formalmente comune, ma del tutto inefficace. Una politica estera comune che si rispetti dovrebbe occuparsi di quelle tematiche che singoli Paesi non possono affrontare da soli. Si pensi, ad esempio, alla questione migratoria. Sul punto in particolare va modificato il cosiddetto Regolamento di Dublino III,  cioè l’atto giuridico europeo che  attualmente  regola i flussi migratori. Questo Regolamento, entrato in vigore nel 2014, prevede che alle richieste di asilo provveda lo Stato europeo di primo approdo, con la  conseguenza che la maggior parte dei migranti arrivano in Italia e presentano qui domanda d’asilo. Nonostante le domande accolte siano appena il 5%, il Paese di prima accoglienza  deve gestire da solo l’intero problema. Una situazione che è diventata col passare del tempo insostenibile. “Dublino III”  deve dunque cambiare e il nostro Paese dovrebbe battersi all’interno del Parlamento europeo per modificare il suddetto  Regolamento, introducendo l’idea che lo sbarco nel Paese più sicuro, secondo le norme del diritto internazionale sulla navigazione, non implichi automaticamente che coloro che sbarcano abbiano anche il diritto a fermarsi in quel Paese. Una politica d’asilo comune a livello europeo sarebbe  fondamentale per cercare di controllare e gestire in modo adeguato il fenomeno migratorio.

In conclusione, dobbiamo ripensare una politica di difesa e una politica estera dell’Italia anche all’interno del contesto europeo, senza rinunciare ovviamente ai nostri specifici interessi nazionali, ma tenendo conto del fatto che facciamo parte di un grande spazio europeo e che possiamo giocare un ruolo politico decisivo all’interno di esso. L’Europa, è vero, non è più il centro del mondo, ma è anche vero che questo mondo non ha più un centro.