Il liberalismo è l'arma del delitto
Il liberalismo può essere compreso solo in termini di negazione. Non è una forza costruttiva, ma una ribellione contro la nozione di autorità. La sua pietra angolare, la tanto sbandierata idea di “libertà” (o “libero-idiota” per gli iniziati), è intrinsecamente negativa, rappresentando la libertà dai vincoli piuttosto che l'affermazione positiva di qualcosa di benefico. Questa nozione di libertà non è altro che un percorso verso la disintegrazione dell'organismo sociale. Nelle sue fasi più avanzate, il liberalismo genera una forma di cancro, in cui non solo l'autorità dello Stato viene messa in discussione, ma anche le strutture fondamentali della società e della famiglia vengono sovvertite. Di conseguenza, secondo Francis Parker Yockey, il divorzio viene equiparato al matrimonio e il rapporto gerarchico tra genitori e figli viene smantellato.
Per comprendere appieno la profondità di questo declino, bisogna pensare al Medioevo. Era un'epoca in cui l'esuberanza della gioventù si manifestava non solo nei costumi della società, ma fioriva anche nelle arti, nella poesia, nella filosofia e nella religione. La cultura del Medioevo si fondava su pilastri di spirito collettivo e finalità superiori, in netto contrasto con la frammentazione individualista che caratterizza il liberalismo moderno. Il Medioevo era un'epoca in cui ogni aspetto della vita era pervaso da un senso di appartenenza a qualcosa di più grande - Dio e una comunità di anime eterne - un principio che unificava e guidava tutti gli sforzi umani.
Il liberalismo, nella sua visione miope, vede erroneamente l'umanità come fondamentalmente armoniosa e buona, portando alla conclusione che gli individui dovrebbero essere lasciati a se stessi. Di conseguenza, i vari aspetti dell'attività umana diventano egocentrici e scollegati, funzionando in modo indipendente fintanto che non interrompono o superano le linee guida minime e lasche stabilite dalla società. Questa prospettiva nega la necessità di un'entità che leghi gli individui in un insieme sovra-personale e coeso che dia senso e direzione alle esistenze individuali.
In questo modo, l'arte diventa un'isola a sé stante, trasformandosi in una ricerca che esiste solo per se stessa, distaccata da scopi sociali più ampi. Ogni sfera del pensiero e dell'azione, dalla religione alla scienza, dalla filosofia all'educazione, funziona in modo isolato, separata da qualsiasi autorità superiore o principio unificante. La religione è ridotta a mero rituale, privata del suo potere di trasmettere verità metafisiche, mentre la letteratura e la tecnologia esistono in domini autonomi, guidati da obiettivi autoreferenziali. Lo Stato, ridotto a un ruolo di custode, in particolare nell'economia e nel diritto, tutela queste attività disparate attraverso brevetti e diritti d'autore, trascurando l'autorità organica essenziale.
Questa frammentazione richiama alla mente la critica di William Burroughs alla società contemporanea, dove la compartimentazione delle esperienze e delle attività porta alla perdita di connessioni significative e di coesione collettiva. Burroughs ha osservato che la società moderna, come la sua arte, è diventata un mosaico di frammenti isolati, ognuno dei quali è scollegato dall'esperienza umana più ampia. Questa atomizzazione può essere vista anche nel lavoro di Kathy Acker. Acker ha esplorato la scomparsa della narrazione lineare e dell'identità coerente, che può essere interpretata come la dislocazione e la perdita di significato in un paesaggio culturale frammentato e simboleggia anche la più ampia rottura dell'autorità organica che un tempo forniva coerenza e direzione alla società.
Gli esseri umani, soprattutto, temono il potere dell'intelligenza. Spinti da questa paura, si affannano a raccogliere e confinare la conoscenza entro rigidi schemi di cosiddetti “fatti”. Nel loro terrore, spogliano l'intelligenza del suo potenziale di sfida e di superamento dello status quo, imprigionandola in un deposito centrale di “verità” accettate. Questa paura dell'intelligenza evidenzia ulteriormente i limiti di una visione del mondo liberale che non riconosce la necessità di uno scopo centrale che possa guidare gli individui e le società al di là della mera adesione alle norme stabilite.
Il pacifismo liberale, proprio come il proverbiale struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia, evita di confrontarsi con la pressante realtà di proteggere gli innocenti dai predatori. Si aggrappa all'ingenua e irrealistica convinzione che i lupi rinunceranno in qualche modo alla loro natura predatoria e abbracceranno la coesistenza pacifica. Questa illusione riflette un'incomprensione categorica della natura fondamentale del potere e dell'autorità e il rifiuto di riconoscere la necessità di difendere i vulnerabili da coloro che li vorrebbero sfruttare.
Il multiculturalismo liberale può essere visto come un'espressione dell'ideale occidentale proiettato sulla scena globale. Questa ideologia, nonostante l'intenzione di promuovere “inclusività e tolleranza”, incarna un sottile ma pervasivo etnocentrismo e persino razzismo. Segnala una convinzione implicita, e talvolta esplicita, della superiorità e dell'universalità dei “valori occidentali”, spesso ignorando le ricche complessità e le diverse realtà delle altre culture. Questa proiezione non solo non riesce ad apprezzare i contesti storici e culturali unici che danno forma alle diverse società, ma tende anche a imporre una narrazione omogeneizzante che trascura le particolarità e il valore intrinseco delle tradizioni non occidentali.
L'idea di un quadro culturale unico e dominante in grado di comprendere tutte le esperienze umane è emblematica di un'arroganza profondamente radicata, che può inavvertitamente perpetuare l'egemonia culturale e sminuire l'autenticità della diversità culturale globale. Tentando di universalizzare concetti come individualismo, secolarismo e razionalità - spesso considerati come tratti distintivi del pensiero occidentale - questa ideologia rischia di emarginare altre visioni del mondo e di minare la costruzione pluralistica della civiltà globale. Questo approccio, molto simile agli atteggiamenti coloniali del passato, suggerisce una forma di imperialismo culturale che presuppone l'adattabilità di tutte le culture a un paradigma occidentale, trascurando così i tratti che si trovano all'interno di ogni patrimonio culturale unico. In sostanza, la presunzione che gli ideali occidentali abbiano una pretesa superiore di universalità non tiene conto dell'importanza del concetto di relativismo culturale di Franz Boas, ancora valido.
I liberali di sinistra, arroccati nel loro dogma, rimangono ciechi di fronte alle conseguenze negative dell'immigrazione di massa. Non sono in grado di vedere la foresta per gli alberi, non riuscendo a riconoscere i modelli più ampi di disunione della società. La loro singolare attenzione a un concetto ristretto di “moralità” li rende ciechi di fronte alla natura multiforme dell'esistenza umana e li porta a trascurare le lezioni della storia. Nella loro fede quasi religiosa nella malleabilità e nell'educabilità degli esseri umani, cercano di rimodellare le norme sociali attraverso l'ingegneria linguistica e culturale. Questa fede mal riposta nell'illimitato potenziale di trasformazione umana non solo si distacca dalla saggezza storica, ma ricorda anche l'antico monito greco: coloro che gli dei vogliono distruggere, prima li rendono folli. La strada tracciata dal liberalismo non è quindi quella del progresso, ma quella del declino, che porta inevitabilmente all'implosione dell'involucro culturale e sociale che un tempo teneva insieme la civiltà occidentale.
Articolo originale di Constantin Von Hoffemeister:
Traduzione di Costantino Ceoldo