Il Fondamento dell’Imperium è la Fraternitas

23.06.2023

Il fenomeno umano del Cameratismo

     La parola “cameratismo”, nell’ambito della Terza Teoria Politica propria dei Fascismi, rappresenta una trasposizione di ordine ideale e ideologico di un concetto e di una realtà naturale ripresi dalla vita militare d’epoca moderna, ancora attuale negli eserciti del mondo postmoderno che ora andiamo a scoprire. I “camerati” sono sostanzialmente dei compagni d’arme con cui si condividono tutti i momenti della vita quotidiana militare, il cibo, il sonno, l’addestramento e, soprattutto, i pericoli di guerra e gli scontri cruenti nelle battaglie contro i nemici, attraverso una condivisione esistenziale totalizzante che crea un fortissimo legame naturale di fratellanza, di appartenenza e di mutuo soccorso. Chi ha fatto il militare di leva o la ferma volontaria ben conosce il senso del termine “camerata”: sia quale luogo dove i militari dormono insieme nelle brande o nelle cuccette a castello, sia soprattutto come sostantivo che denota un’appartenenza profonda di vita, di incertezze, di pericoli, di rischio della vita vissuti collettivamente nell’ambito della difesa della propria Patria. A tal proposito, la reporter responsabile della Comunicazione Difesa dell’Esercito svizzero Nicole Anliker, così descrive l’essenza del cameratismo vissuto “oggi” nell’esercito elvetico:

     «La quotidianità militare offre momenti intensi, avvincenti e stimolanti: le premesse migliori per vivere il cameratismo. Qui appare chiaro cosa significhi dipendere gli uni dagli altri e dover collaborare per riuscire a portare a termine i compiti ricevuti, che possono essere risolti soltanto insieme. In questi frangenti nascono rapporti di cameratismo che spesso durano per tutta la vita. (…) Per il soldato Ammon è stato difficile non poter rientrare a domicilio durante le prime tre settimane di scuola reclute. La mancanza della sua sfera intima, il fatto di non poter decidere da solo su nulla e la quasi totale assenza di individualità gli ha dato filo da torcere. Al tempo stesso è però rimasto impressionato dalla rapidità con cui si è sviluppato un senso di vicinanza con i camerati. Fianco a fianco tutto il giorno e tutta la notte, molte discussioni e tante esperienze vissute insieme – come pontonieri si trovavano letteralmente tutti sulla stessa barca. La mano amica tesa quando ne hai bisogno, l’occhiata eloquente nelle occasioni in cui il colonnello ci indica da che parte spunta il sole, oppure le parole di conforto quando si sfora (eccezionalmente) nella zona rossa. Le sfaccettature del cameratismo sono molteplici e variegate. (…) Chi ha avuto la possibilità di osservare da vicino una partenza dopo un periodo di servizio prolungato sa esattamente di cosa stiamo parlando. Un urlo di gioia per quello che si è riusciti a fare, una stretta di mano e parole di ringraziamento, come pure calorosi abbracci e tante emozioni. Il cameratismo raggiunto è visibile e commovente». [1]

     A partire dal Primo Conflitto mondiale, il “cameratismo” assume toni sempre più ideologici, legandosi tra l’altro al culto della Morte visto come prospettiva esistenziale di tipo eroico, come convivenza nelle trincee della sua fosca presenza spirituale, come estetica della divisa e dei simboli militari.  Per quanto riguarda la realtà propriamente italiana, il cameratismo si lega inizialmente al fenomeno militare nazionalista proprio dell’Arditismo formato dalle truppe d’assalto volontarie italiane degli Arditi. Infine con un ulteriore salto ideologico diventa contenuto essenziale del credo metapolitico proprio dei Fascismi, in primis quello italiano e poi nell’ambito del nazionalsocialismo tedesco, il quale mutua il termine kamerad, kameraden e Kameradschaft dal vecchio esercito prussiano e dall’esercito imperiale germanico. La sostanza profonda del termine camerata così come viene inteso nel senso dei Fascismi, ci viene illustrata da Léon Degrelle, fondatore e capo del rexismo belga e successivamente volontario anticomunista in Russia, comandante prima della Legione Wallonien nella Wehrmacht e infine della 28. SS-Freiwilligen-Grenadier-Division der SS “Wallonien”:

     «Il camerata non è un compagno d’arme o di partito, ma un fratello di sangue, di cui si ha piena fiducia. Il più grande atto di fiducia che un uomo può fare è affidare la propria vita ad un’altra persona. Ebbene un camerata guarda alla vita dell’altro camerata come fosse la sua, e viceversa. Adoro questi ragazzi». [2]

     Da questa esemplare affermazione di Léon Degrelle si viene a comprendere che, in realtà, i Fascismi hanno recuperato nel periodo ideologico della tarda Modernità un concetto che ha radici naturali pagane e cristiane, e che da un punto di vista antropologico rappresenta quella struttura interiore e di relazione, ossia quel complesso di ordine psicologico e sociologico, il quale attraverso l’appartenenza all’ethnos e/o la partecipazione alla guerra di difesa o di conquista ha dato origine al legame della Fraternitas, ossia a quella fratellanza del sangue, della fedeltà e dell’onore che nei secoli ha caratterizzato questo singolare rapporto di ordine naturale extrafamiliare e extrasociale, stabilitosi durante gli eventi bellici tra i guerrieri che combattono per difendere la Patria, per l’espansione territoriale, o per l’affermazione di un’Idea metapolitica o spirituale.

La realtà naturale, ideale e spirituale della Fraternitas

     Fratello, diminutivo di frate, rappresenta la contrazione del latino frates. Questa voce latina, trova a sua volta corrispondenza lineare nel sanscrito bhratar, con la radice bhar-, col significato di sostentamento e nutrizione, come d’altra parte l’etimologia della parola pater/padre. Strettamente correlata alla parola panem/pane, il cuore di questo vocabolo è la radice sanscrita pa-, sempre collegata al concetto di protezione e nutrizione, da cui pati, origine del latino pater. Perciò lo scopo naturale del fratello è quello di nutrire e di sostenere l’omologo, e questo concetto a partire da una accezione puramente materiale assumerà significati via via sempre più intensi e spirituali, tra l’altro presenti anche nella teologia dell’Apostolo Pietro, che così esorta i fratelli nella fede all’unione combattiva contro le potenze del male:

     «Fratres: Sóbrii estóte, et vigiláte: quia adversárius vester diábolus, tamquam leo rúgiens círcuit, quaerens quem dévoret: cui resístite fortes in fide. Fratelli, Siate sobri, vegliate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede». [3]

     La prima manifestazione della Fraternitas è quindi costituita da un legame di sangue che coinvolge la famiglia, il clan familiare, l’etnia sia nella pace sia nella guerra. Ed è solo da questo fondamento naturale, con il successivo sviluppo delle società da etnie tribali a Regni popolari e ad Imperi multietnici, che si stratificano nuovi significati ideali e spirituali della Fraternitas i quali porteranno il legame di sangue naturale di ordine tribale a trasformarsi in legame di sangue spirituale, consacrato nella Cristianità medioevale dal sangue del Signore Gesù Cristo, sparso cruentemente sulla Croce e rinnovato realmente in modo incruento sull’altare durante il Santo Sacrificio Eucaristico.

     Quando il modus barbarico di combattere in orda e a nuclei familiari, si scontrerà – perdendo ovviamente – con l’organizzato modus romano di inquadrare le etnie per gradi di abilità bellica e farle combattere in modo strutturato ed efficace per l’Idea della grandezza di Roma che si manifesta nell’Imperium dell’Urbe sul mondo conosciuto, la realtà della Fraternitas subirà una prima reale evoluzione in senso ideale. Perché qui non ci troviamo più davanti al chàos della libertas barbarica celta, ligure, germanica e di innumerevoli altri popoli, che si facevano guerra per motivi difensivi od offensivi legati in gran parte ai bisogni primari, mentre a causa di ciò il continente europeo restava in un continuo subbuglio tribale e in uno stato di apparente genocidio etnico. Qui ci troviamo invece di fronte ad un ideale, quello della Pax romana che funge da kosmos, da principio ordinatore del mondo che tende ad una libertas superiore che corrisponde alla tranquillità nell’ordine, a cui mirarono successivamente anche tutte le stirpi germaniche romanizzate o meno dopo il declino di Roma, adottandone in parte costumi ed istituzioni fino alla nascita del Sacro Romano Impero.

     Nella pienezza della Cristianità, quando nascono gli Ordini Militari dei monaci cavalieri nel Sacro Romano Impero e nel Regno di Francia in occasione delle Crociate, ecco che il senso della Fraternitas origina un nuovo salto qualitativo di ordine spirituale che racchiude in sé sia l’ethnos primigenio barbarico sia la weltanschauung cristianizzata dell’Imperium romano, ma che si distingue per la tensione della lotta cruenta contro il male identificato nei residui del paganesimo nordeuropeo e nella difesa della Terra Santa dal potere politico dei potentati islamici, Califfati e Sultanati, che perseguitano i cristiani ivi presenti e i pellegrini europei. La sintesi spirituale che racchiude quanto suddetto, la possiamo identificare nel motto dell’Ordine Teutonico: Unsere ehre heisst treue, che significa: Il nostro onore è la fedeltà. Un onore che prevede la rettitudine morale dei Dieci Comandamenti e delle Beatitudini evangeliche, che si esprime nella fedeltà alla Chiesa e all’Impero nelle figure del Papa e dell’Imperatore. Questi Ordini militari, soprattutto i Templari, i Teutonici e i Cavalieri di San Giovanni (Malta), temperarono sempre la loro tempra guerriera con l’istituzione degli ospedali in Terra Santa, dove alternavano le loro vicende belliche prestando un servizio ospedaliero nella cura dei feriti. Lo spirito di questi Ordini monastico cavallereschi detti Ordini Militari non era per niente quello di portare il Vangelo sulla punta delle spade come ad esempio viene ammesso dal Corano con la Jihād islamica, perché la Crociata o Guerra Santa, per la Chiesa e per gli Ordini Militari consisteva principalmente nella difesa della Cristianità e della libertà di culto per tutti i cristiani presenti in Terra Santa, prima che in una sua conquista militare che avrebbe dato poi naturalmente luogo ai Regni Cristiani d’Oriente con tutte le implicazioni politiche ed economiche del caso legate alle ricchezze presenti in Medio Oriente.

La Fraternitas nell’ideale Templare

      Per comprendere l’ideale spirituale della Fraternitas che è il fondamento umano dell’Imperium e ingloba Ethnos, Idea e Spirito delle stirpi europee, concludiamo questo nostro breve XLVIII ed ultimo Articolo su Idee&Azione prima della meritata pausa estiva, lasciando la parola conclusiva all’Abate cistercense San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153). Egli, nei primi cinque Capitoli – che qui pubblichiamo stralciandoli integralmente dal De Laude Novae Militiae [4], ossia il Documento fondativo teologico spirituale dell’Ordine dei Templari, che funge anche come Introduzione alla Regola primitiva dell’Ordine medesimo scritta qualche anno prima dallo stesso santo –, ci dà un’idea di come in piena Cristianità venne vissuto, amato e coltivato l’ideale decisamente cristiano indoeuropeo della Fraternitas dagli stessi monaci cavalieri, quali nuovi ed ultimi eredi della weltanschauung cristiana imperiale, prima della decadenza della stessa nei marosi tardo medioevali degli scontri e delle beghe tra guelfi e ghibellini. Possa questa immensa spiritualità di ordine angelologico essere humus, ispirazione e fonte di acqua viva per tutti quegli Uomini che in piedi tra le rovine del Postmoderno, hanno deciso in cuor loro di seguire la Via per aspera ad astra del Soggetto Radicale.

     Grazie a Lorenzo Maria Pacini, Direttore di Idee&Azione e a tutto lo staff della Redazione di avermi sopportato e grazie a Voi lettori. Sarà per me una velocissima estate di ricarica con la preghiera profonda, la meditazione silenziosa, gli scritti di Aleksandr Dugin, l’incontro telefonico e vis a vis con gli Amici, alternato al lavoro con gli Anziani che sono le nostre radici…

A Dio piacendo, arrivederci al prossimo Settembre… Dio è con noi!

I – ESORTAZIONE AI CAVALIERI DEL TEMPIO

Da qualche tempo si diffonde la notizia che un nuovo genere di Cavalleria è apparso nel mondo, e proprio in quella contrada che un giorno Colui che si leva dall’alto visitò essendosi reso manifesto nella carne; in quegli stessi luoghi dai quali Egli con la potenza della sua mano (Is, 10,13) scacciò i principi delle tenebre, possa oggi annientare con la schiera dei suoi forti seguaci di quelli, i figli dell’incredulità, riscattando di nuovo il suo popolo e suscitando per noi un Salvatore nella casa di David, suo servo. (Ef, 2, 2; Lc, 1, 69). Un nuovo genere di Cavalieri, dico, che i tempi passati non hanno mai conosciuto: essi combattono senza tregua una duplice battaglia, sia contro la carne ed il sangue, sia contro gli spiriti maligni del mondo invisibile. (Ef, 6, 12). In verità quando valorosamente si combatte con le sole forze psichiche contro un nemico terreno, io non ritengo ciò stupefacente né eccezionale. E quando col valore dell’anima si dichiari guerra ai vizi o ai demoni, neppure allora dirò che questo è segno di ammirazione, sebbene questa battaglia sia degna di lode, al momento che il mondo è pieno di monaci. Ma quando il combattente ed il monaco con il coraggio si cingono ciascuno con forza la propria spada e nobilmente si fregiano del proprio cingolo chi non potrebbe ritenere un fatto del genere davvero degno d’ogni ammirazione, per quanto finora insolito? É davvero impavido e protetto da ogni lato quel cavaliere che come si riveste il corpo di ferro, così riveste la sua anima con l’armatura della fede (I Ts, 5, 8). Nessuna meraviglia se, possedendo entrambe le armi, non teme né il demonio né gli uomini. E nemmeno teme la morte egli che desidera morire. Difatti cosa avrebbe da temere, in vita o in morte, colui per il quale il Cristo è la vita e la morte un guadagno? (Fil, I, 21). Egli sta saldo, invero, con fiducia e di buon grado per il Cristo; ma ancor più desidera che la sua vita sia dissolta per essere con Cristo (Fil, 1, 23): questa è infatti la cosa migliore. Avanzate dunque sicuri, cavalieri e con intrepido animo respingete i nemici della croce del Cristo! (Fil, 3, 18). Siate sicuri che né la morte né la vita potranno separarvi dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù. (Rm, 8, 38). E ripetete nel momento del pericolo, ben a ragione: sia che viviamo sia che moriamo apparteniamo al Signore. (Rm, 14, 8). Con quanta gloria tornano i vincitori dalla battaglia! Quanto beati muoiono i martiri in combattimento! Rallegrati o forte campione se vivi e vinci nel Signore: ma ancor più esulta e sii fiero nella tua gloria se morirai e ti unirai al Signore. Per quanto la vita sia fruttuosa e la vittoria gloriosa a giusto diritto ad entrambe è da anteporre la morte sacra. Se, infatti, sono beati quelli che muoiono nel Signore (Ap, 14, 13), quanto più lo saranno quelli che muoiono per il Signore?

É senza dubbio preziosa al cospetto di Dio la morte dei suoi santi (Sal, 115, 15) ma la morte in combattimento ha molto più valore in quanto è più gloriosa. Oh, vita sicura, quando vi sia coscienza pura! Oh, dico io, vita sicura quanto la morte è attesa senza terrore, ma è addirittura desiderata con gioia ed accettata con devozione! Oh, Cavalleria veramente santa e sicura e del tutto immune dal duplice pericolo nel quale gli uomini corrono spesso il rischio di cadere quando la causa del combattimento non è solo in Cristo. Infatti, tu che sei cavaliere secondo le norme della cavalleria secolare, ogni volta che entri in battaglia devi soprattutto temere di uccidere te stesso nell’anima se uccidi Il nemico nel corpo o di essere ucciso nell’anima e nel corpo se è il tuo nemico ad ucciderti. Inoltre, per il cristiano, il pericolo o la vittoria vengono giudicati non dal successo delle azioni, ma dalla disposizione del cuore Se la causa per la quale si combatte è buona, l’esito della battaglia non potrà essere cattivo, allo stesso modo non sarà stimata buona conclusione quella che non sia stata preceduta da una buona causa e da una retta intenzione Se nell’intenzione di uccidere l’avversario ti succederà invece di essere ucciso, tu morirai da omicida. E se avrai il sopravvento nel desiderio di sopraffare e di vendicarti, vivrai da omicida. L’omicidio non giova né a chi vive, né al vinto né al vincitore. Infelice vittoria quella mediante la quale, vincendo un uomo, soccombi al peccato! E dal momento che sei dominato dall’ira o dalla superbia, invano ti glorierai di aver dominato il tuo avversario. Vi è tuttavia chi uccide non per desiderio di vendetta né per brama di vittoria, ma solo per salvare la propria vita. Ma neppure questa affermerò essere una buona vittoria: dei due mali il minore è morire nel corpo che nell’anima. Infatti l’anima non muore per l’uccisione del corpo: ma l’anima che avrò peccato morrà (Ez, 18, 4).

II – DELLA CAVALLERIA SECOLARE

Qual è dunque il fine ed i vantaggi di quella cavalleria secolare che io non chiamo “milizia” ma “malizia” dal momento che l’uccisore pecca mortalmente e chi muore perisce per l’eternità? Infatti, per usare le parole dell’Apostolo: chi ara deve arare nella speranza e chi batte il grano nella speranza di coglierne i frutti (I Cor, 9, 10). Pertanto, cos’è, cavalieri questo errore tanto sbalorditivo, questa follia tanto insopportabile: compiere la vostra milizia con tante spese e fatiche senza nessun’altra ricompensa se non la morte ed il crimine? Bardate di seta i cavalli, e sopra le vostre armature indossate non so quali bande di stoffa ondeggianti; dipingete le lance e gli scudi e le selle; abbellite con oro, argento e gemme i morsi e gli speroni E con tanto sfarzo, con un furore vergognoso e una stupidità che vi impedisce la vergogna vi precipitate alla morte. Ma sono questi ornamenti militari o piuttosto abbigliamenti da donne? Credete forse che la spada del nemico rispetterà l’oro, risparmierà le gemme e non sarà in grado di trapassare la seta? Ed infine tre sono le qualità principalmente necessarie al combattente – cosa che voi stessi molto spesso e concretamente avete sperimentato – cioè che il cavaliere sia risoluto, abile e circospetto per la propria salvezza, libero da impedimenti per poter correre e pronto a colpire. Voi, al contrario, lasciate crescere con uso femmineo la chioma a molestia degli occhi, impacciate i passi con camicie lunghe e fluenti, seppellite le mani tenere e delicate in maniche ampie e svolazzanti. Ma, al di sopra di tutto ciò, vi è – cosa che maggiormente atterrisce la coscienza d’un uomo d’armi – la causa leggera e frivola per la quale intraprendete la vita di cavalleria tanto pericolosa. Tra voi null’altro provoca le guerre se non un irragionevole atto di collera, desiderio d’una gloria vana, bramosia di qualche bene terreno. E certamente per tali motivi non è senza pericolo uccidere o morire.

III – DEI CAVALIERI DI CRISTO

I Cavalieri di Cristo, al contrario, combattono sicuri la guerra del loro Signore, non temendo in alcun modo né peccato per l’uccisione dei nemici né pericolo se cadono in combattimento. La morte per Cristo, infatti, sia che venga subita sia che venga data, non ha nulla di peccaminoso ed è degna di altissima gloria. Infatti nel primo caso si guadagna [vittoria] per Cristo, nel secondo si guadagna il Cristo stesso. Egli accetta certamente di buon grado la morte del nemico come castigo, ma ancor più volentieri offre sé stesso al combattente come conforto. Affermo dunque che il Cavaliere di Cristo con sicurezza dà la morte ma con sicurezza ancora maggiore cade. Morendo vince per sé stesso, dando la morte vince per Cristo. Non è infatti senza ragione che porta la spada: è ministro di Dio per la punizione dei malvagi e la lode dei giusti. (Rm, 13,4; I Pt, 2, 14). Quando uccide un malfattore giustamente non viene considerato un omicida, ma, oserei dire, un «malicida» e vendicatore da parte di Cristo nei confronti di coloro che operano il male, difensore del popolo cristiano. E quando invece viene ucciso si sa che non perisce ma perviene [al suo scopo]. La morte che infligge è una vittoria di Cristo; quella che riceve è a proprio vantaggio. Dalla morte dell’infedele il cristiano trae gloria poiché il Cristo viene glorificato: nella morte del cristiano si manifesta la generosità del suo Re che chiama a sé il suo cavaliere per donargli la ricompensa. Pertanto sul nemico ucciso il giusto si rallegrerà vedendo la vendetta (Sal, 57, 11). Ma sul cavaliere ucciso si dirà: Il giusto guadagna ad essere tale? Sì, perché Dio gli rende giustizia sulla terra. (Sal, 57, 12). Certo non si dovrebbero uccidere neppure gli infedeli se in qualche altro modo si potesse impedire la loro eccessiva molestia e l’oppressione dei fedeli. Ma nella situazione attuale è meglio che essi vengano uccisi, piuttosto che lasciare senza scampo la verga dei peccatori sospesa sulla sorte dei giusti e affinché i giusti non spingano le loro azioni fino alla iniquità.

E che, dunque, se ferire di spada fosse del tutto illecito per il Cristiano, perché dunque l’araldo del Salvatore avrebbe prescritto ai soldati di essere contenti dei loro stipendi (Lc, 3, 14) e non avrebbe piuttosto interdetto loro l’uso di ogni arma? Se invece è permesso a tutti – e ciò risponde a verità – o almeno a quelli ordinati espressamente per volere divino all’esercizio delle armi, e che non hanno fatto voto di maggior perfezione da chi, io chiedo, dovrebbe esser tenuta la nostra città di Sion, città della nostra fortezza, se non dal braccio e dal valore dei cristiani, per protezione nostra e di tutti? Così che, avendone scacciati i trasgressori della legge divina, con sicurezza vi entrino i giusti, custodi della verità. Siano dunque disperse senza timore le nazioni che vogliono la guerra (Sal, 67, 31); siano estirpati coloro che ci minacciano, e siano scacciati dalla città del Signore tutti i malfattori che tentano di portar via da Gerusalemme le inestimabili ricchezze del popolo cristiano ivi riposte, che contaminano i luoghi santi, che si trasmettono di padre in figlio il santuario di Dio. Sia sguainata la doppia spada dei fedeli sulle teste dei nemici per distruggere qualunque superbia (ad destruendam omnem altitudinem) che osi ergersi contro la conoscenza di Dio, che è la fede cristiana, affinché le nazioni non dicano: Dov’ è il loro Dio? (Sal, 113, 2)

Quando tutti gli infedeli saranno stati scacciati riprenderà possesso della sua casa e della sua eredità quello stesso che a proposito di essa gridò con collera nel Vangelo: Ecco, la nostra dimora sarà lasciata deserta (Mt, 23, 38), e che per bocca del profeta si era lamentato: Ho lasciato la mia casa, ho abbandonato la mia eredità (Ger, 12, 7). Egli adempierà in tal modo quella profezia: Il Signore ha riscattato il suo popolo e lo ha liberato; verranno ed esulteranno sulla montagna di Sion e godranno i benefici del Signore (Ger, XXXI, 11-12). Rallegrati, Gerusalemme, e riconosci il tempo in cui sei stata visitata. Godete e lodate anche voi, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme; Dio ha mostrato la sua santa potenza al cospetto di tutte le nazioni (Is, 52, 9-10). Tu eri caduta, o Vergine d’Israele, e non c ‘era chi ti risollevasse: sorgi, dunque, o vergine, scuoti la polvere, o sventurata figlia di Sion! Alzati, ti dico, e tieniti eretta nello splendore (Is, 52, 2), e vedi la gioia che ti viene dal tuo Dio. Non ti chiameranno più derelitta, e la tua terra non sarà più a lungo detta desolata. Poiché il Signore si è compiaciuto di te (Is, 62, 64), ed il tuo territorio sarà ripopolato. Alza gli occhi attorno e guarda: tutti costoro si sono riuniti e sono venuti a te (Is, 49, 18). Dall’alto ti è stato inviato questo aiuto. Per mezzo di questi [cavalieri] perfettamente si compie l’antica promessa: Io ti conferirò una gloria che durerà nei secoli e la tua gioia sarà di generazione in generazione; tu berrai il latte delle nazioni, ti nutrirai alle mammelle riservate ai re (Is, 60, 15). Ed ancora: Così come la madre consola i suoi figli, così io vi consolerò, ed in Gerusalemme sarete confortati (Is, 66, 13). Non vedete, dunque, quanta abbondante testimonianza la nuova cavalleria ha ricevuto dai tempi antichi, e che quanto abbiamo udito lo vedremo compiersi nella città del Signore degli eserciti (Sal, 49, 7)? Ma non bisogna che l’interpretazione della lettera nuoccia alla comprensione dello spirito: le parole dei profeti, che noi speriamo di veder realizzate per l’eternità, le adattiamo a questi nostri tempi in modo che ciò in cui crediamo non svanisca a causa di ciò che vediamo, e affinché la pochezza dei beni di questa terra non faccia scemare la ricchezza della speranza e la testimonianza delle cose presenti non tolga speranza per l’avvenire. La gloria temporale della città terrena non distrugge i beni celesti, al contrario li garantisce; a patto che noi sappiamo riconoscere in questa [Gerusalemme terrena] l’immagine della città del cielo, nostra madre (cfr. Ap, 21, 9-27).

IV – COME VIVONO I CAVALIERI DEL TEMPIO

Ma ora, per dare un esempio e per confondere i nostri cavalieri secolari, che certamente non militano per Dio ma per il diavolo, trattiamo brevemente dei costumi e della vita dei cavalieri di Cristo: come essi si comportano in guerra e in pace, affinché appaia chiaramente quanto differiscano tra loro la cavalleria di Dio e la cavalleria del secolo. Innanzitutto certamente non manca la disciplina, né l’obbedienza viene mai disprezzata: poiché, secondo la testimonianza della Scrittura, Il figlio disobbediente perirà (Eccl, XXII, 3) e, opporsi alla disciplina è peccato pari all’esercizio della magia, e non voler obbedire è peccato quasi come l’idolatria (I Re, 15, 23). Ad un cenno del superiore si viene e si va, si veste di ciò che egli donò; né si attende da altre fonti il nutrimento e il vestito. Nel vitto e nell’atteggiamento ci si astiene da ogni cosa superflua, si provvede alla pura necessità. Si vive in comune, con un genere di vita sobrio e lieto senza spose e figli. E affinché la perfezione evangelica sia completamente realizzata, essi abitano in una stessa casa, con una stessa regola di vita e senza possedere niente di proprio solleciti di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace (Ef, 4, 3). Diresti che tutta questa gente abbia un cuore solo ed un’anima sola: a tal punto ognuno si sforza di seguire non la propria volontà ma quella di chi comanda. Non siedono mai oziosi, né gironzolano curiosi; ma quando non sono occupati in guerra (cosa che succede davvero di rado), per non mangiare il pane ad ufo riparano le armi e le vesti danneggiate, o rinnovano quelle vecchie, o mettono in ordine ciò che è in disordine, ed infine la volontà del maestro e la comune necessità dispongono il da farsi. Tra di essi nessuna preferenza: il rispetto è dato al migliore, non al più nobile di natali. Fanno a gara nell’onorarsi a vicenda (Rm, 12, 10); e vicendevolmente portano il loro fardello, per compiere così la legge di Cristo (Gal, 6, 2). Mai una parola insolente, un’azione inutile, una risata sguaiata, una mormorazione per quanto leggera e fatta sottovoce, quando vengono colte in fallo restano impunite. Detestano il gioco degli scacchi e dei dadi; la caccia è tenuta in spregio, né si rallegrano della cattura di uccelli per diporto cosa molto in voga [altrove]. Sdegnano ed aborriscono i mimi, i fattucchieri, i cantastorie, le canzoni scurrili, gli spettacoli dei giocolieri, e così pure le vanità e le follie contrarie alla verità. Tagliano corti i capelli sapendo che, come dice l’apostolo, è vergognoso per un uomo curarsi la chioma (I Cor, 11,4). Non si acconciano mai, si lavano di rado, ma sono piuttosto irsuti per la capigliatura negletta, bruttati di polvere, abbronzati dall’armatura e dal forte calore.

Quando giunge l’ora della battaglia, essi si armano di dentro con la fede e di fuori col ferro e non con l’oro, affinché i nemici abbiano terrore di loro e non invidia, essi sono armati, cioè, e non ornati. Vogliono cavalli forti e veloci e non ricoperti da sgargianti gualdrappe e finimenti di lusso: essi si preoccupano infatti della battaglia e non dello sfarzo, della vittoria, non della gloria, e badano d’esser piuttosto causa di terrore che d’ammirazione. Pertanto non turbolenti ed impetuosi, senza precipitarsi con leggerezza, si ordinano ponderatamente e con ogni cautela e prudenza si dispongono in assetto di guerra, così come è stato scritto dai nostri padri, come veri figli del [nuovo] Israele pieni di pace s’avanzano per la battaglia (cfr. TI Mac, 15, 20). Ma al momento dello scontro, e allora soltanto, smessa la dolcezza di prima, come dicessero: Non devo forse odiare chi Ti odia, o Signore, e detestare i Tuoi avversari? (Sal, 138,21) fanno impeto contro i propri avversari, reputano i propri nemici branchi di pecore e mai, pur essendo pochissimi, temono la crudele barbarie e la schiacciante moltitudine. Essi hanno infatti appreso a non confidare nelle proprie forze, ma ad attendere la vittoria dal volere del Dio degli eserciti, al quale, secondo quanto è scritto nel Libro dei Maccabei, pensano sia molto agevole mettere molti nelle mani di pochi; e che per il Dio dei cieli non fa differenza salvare i molti o i pochi, poiché la vittoria non sta nel numero dei combattenti, ma nella forza che vien dall’alto (I Mc, 3, 18-19). E di ciò hanno fatto molto spesso esperienza, così che generalmente uno solo ne incalza quasi mille e due ne hanno messi in fuga diecimila (cfr. Sal 90). Così dunque per una singolare ed ammirabile combinazione sono, a vedersi, più miti degli agnelli e più feroci dei leoni, a tal punto che dubito se sia meglio chiamarli monaci o piuttosto cavalieri. Ma, forse, potrei chiamarli più esattamente in entrambi i modi, poiché ad essi non manca né la dolcezza del monaco né la fermezza del cavaliere. E di questa qualità cosa si potrebbe dire se non che è opera di Dio, ed è degna di ammirazione ai nostri occhi (Ct, 3,7-8)? Dio stesso ha scelto per sé tali uomini ed ha raccolto dai confini estremi del mondo questi Suoi ministri [ministri della Sua giustizia] tra i più valorosi d’Israele, per custodire con fedeltà e vigilanza il letto del vero Salomone – cioè il Santo Sepolcro – tutti armati di spada ed esperti quant’altri mai nell’arte della guerra (Sal, 117, 23).

V – IL TEMPIO

Il tempio di Gerusalemme, nel quale hanno comune dimora, è una costruzione senza dubbio più modesta dell’antico e di gran lunga più famoso tempio di Salomone, ma non gli è inferiore in gloria. Mentre lo splendore di quello consisteva in cose corruttibili d’oro e d’argento (I Pt, 1, 18), nella squadratura delle pietre, nella varietà dei legni, tutto il decoro di questo, al contrario, e l’ornamento che fa gradita la sua bellezza è la devota religiosità dei suoi abitanti ed il loro disciplinatissimo genere di vita. Il primo tempio s’imponeva all’ammirazione per la varietà dei colori; il secondo è degno di venerazione per le svariate virtù e le sante azioni. La santità conviene infatti alla casa di Dio, poiché Egli si compiace non tanto dei marmi lucidati a specchio, quanto dei costumi morigerati ed ama le menti pure più che le pareti dorate (cfr. Sal, 92, 5). Tuttavia l’aspetto di questo tempio è anch’esso ornato, ma di armi, non di gemme. Ed invece delle antiche corone d’oro, le pareti sono ricoperte di scudi appesi tutt’intorno; e invece dei candelieri, degli incensieri, dei vasi, la dimora è provvista d’ogni parte di freni, di selle, di lance. Queste cose dimostrano apertamente che i cavalieri fervono per la casa di Dio del medesimo zelo del quale una volta violentissimamente infiammato il Condottiero stesso dei cavalieri (militum dux) avendo armato la sua mano santissima non di spada ma di un flagello fatto di funicelle, entrò nel tempio e ne scacciò i mercanti, sparse il denaro dei cambiavalute e rovesciò i banchi dei venditori di colombe, giudicando cosa oltremodo indegna che una casa di orazione fosse macchiata da mercanti di tal fatta (cfr. Mt, 20, 12-13; Gv, 2, 14-16). Pertanto, trascinata dall’esempio del suo Re, questa armata consacrata, giudicando a ragione di gran lunga più indegno che i luoghi santi siano infestati dagli infedeli invece d’essere contaminati dai mercanti, vivono nella casa santa con armi e cavalli; e così, avendo rigettato da essa e da tutti i luoghi santi ogni sozza e tirannica rabbia degli infedeli, ci si intrattengono notte e giorno in occupazioni tanto utili quanto oneste. Essi onorano a gara il tempio di Dio con assiduo e sincero ossequio, immolando in esso con devozione perenne, non carni ovine secondo l’antico rito, ma vittime pacifiche: l’affetto fraterno e l’ubbidienza fedele, la povertà volontaria.

Questi fatti avvengono in Gerusalemme, ed il mondo intero ne è scosso. Le isole stanno in ascolto; i popoli lontani osservano e da Oriente ad Occidente ribollono come un torrente di gloria universale che straripa, e come l’impeto di un fiume che allieta la città di Dio (cfr. Is, 49, 1). Ma ciò che appare più bello ed offre più vantaggi è che, in quella folla tanto numerosa che confluisce a Gerusalemme, pochi sono certamente coloro che non siano stati scellerati ed empi, ladri e sacrileghi, omicidi, spergiuri, adulteri. E, come dalla loro partenza scaturisce un doppio beneficio, essa produce una duplice gioia: dal momento che essi danno tanta gioia al loro prossimo quando se ne vanno, quanta ne danno a coloro in soccorso dei quali si dirigono. Essi sono infatti ben accolti in entrambi i casi, non solo difendendo questi [i cristiani pellegrini a Gerusalemme] ma anche cessando di opprimere quelli [i loro conterranei]. Così si rallegra l’Egitto per la loro partenza, come pure si allieta il monte Sion di averli come protettori ed esultano le figlie di Giuda (Sal, 47, 12). Il primo si rallegra di esser stato liberato da loro, il secondo di esser liberato per opera loro. Quello di buon grado perde i suoi crudelissimi devastatori; questo con gioia ha accolto i suoi fedelissimi difensori, e mentre questa nazione viene con gran gioia consolata, quello intanto viene abbandonato con uguale grande vantaggio. Così Cristo sa vendicarsi dei suoi nemici, non solo trionfando su di essi, ma essendo anche solito spesso trionfare per mezzo di essi con tanta più gloria quanto maggiore è la potenza. È cosa lieta, a ragione, ed utile: che ora cominci a rendere suoi difensori quelli che sopportò a lungo come suoi persecutori, e Colui che trasformò un tempo Saulo persecutore in Paolo predicatore faccia del suo nemico un suo cavaliere (cfr. At, IX). Pertanto io non mi meraviglio affatto se quella corte celeste, secondo la testimonianza del Salvatore, esulta più per un peccatore pentito che per molti giusti che non hanno bisogno di penitenza (Lc, 15, 7): poiché la conversione di un malvagio e di un peccatore senza dubbio giova a tanti quanti erano quelli cui egli aveva nuociuto.

Salve, dunque, o Città Santa, che l’Altissimo in persona ha consacrato per sé come suo tabernacolo, in modo che in te e per te venissero salvate tante generazioni (cfr. Ap, 22, 19). Salve, Città del gran Re, dalla quale mai vennero meno fin dall’inizio ed in quasi tutti i tempi miracoli sempre nuovi e lieti per il genere umano. Salve, signora delle genti, guida delle nazioni, retaggio dei Patriarchi, madre dei Profeti e degli Apostoli, Iniziatrice della Fede, gloria del popolo cristiano, tu cui Dio sempre, fin dal principio, permise che fossi combattuta affinché potessi essere occasione di valore e di salvezza per i forti. Salve o Terra Promessa, che un tempo facevi scorrere latte e miele solo per i tuoi figli ed ora fai scorrere i farmaci della salvezza per tutto il mondo, il nutrimento di vita, O Terra, dico, buona ed eccellente, tu che hai ricevuto nel tuo fecondissimo seno il grano celeste dall’arca del cuore del Padre ed hai prodotto, da questa celeste semenza, tanto grande messe di martiri, e nondimeno tu, fertile gleba, hai prodotto frutto dal la stirpe dei fedeli moltiplicandolo trenta, sessanta e cento volte sopra ogni contrada. Lietissimamente saziati e abbondantemente nutriti dalla tua sconfinata dolcezza, coloro che ti hanno conosciuto diffondono ovunque il ricordo della tua soavità inesauribile e narrano a coloro che non ti hanno conosciuto la magnificenza della tua gloria fino agli estremi limiti del mondo. Essi raccontano le meraviglie che in te si compiono. Si dicono di te cose stupende, o Città di Dio! (Sai, 86, 3). Ebbene, anche noi diremo del tuo nome brevi parole di lode e gloria a proposito delle delizie delle quali sei colma fino a straripare.
[1] N. Anliker, Art.: Cameratismo – Un’esperienza molto preziosa, 25 giugno 22021, Website vtg.admin.ch .

[2] Citazione in Art.: Eroi dimenticati: Mario Tadini, l’aviere che morì invocando “l’Italia vittoriosa”, 9 ottobre 2018, sul Website: ilprimatonazionale.it

[3] Sacra Bibbia, Prima Lettera di Pietro Cap. 5, 8-9.

[4] Web Open Source, tratto dal Website: gianluigiprati.it 

Foto: Miniatura tratta dal «Book of Revelation» di San Giovanni (Inghilterra, 1310-1325) con Cristo che guida i cavalieri alla Prima Crociata

Fonte: IdeeAzione