I Giovani, le Donne, gli Omosessuali e i New Global nella società di mercato
Come il regime del politically correct strumentalizza le minoranze globaliste
L’Unione europea, con le sue politiche improntate alla socializzazione conformistica di massa, tende a rimuovere le culture tradizionali dei popoli (considerate un ostacolo alla costruzione del mercato unico delle identità mercificate) e, contestualmente, a promuovere l’omogeneizzazione di moltitudini astratte, volutamente deterritorializzate (guai a parlare di patria originaria e di legami comunitari nell’Europa di banchieri e affaristi transnazionali), senza confini e standardizzate all’insegna di stili di vita, gusti musicali, abbigliamento e modi di comunicazione ormai identici a prescindere dalla nazionalità e dalla cultura di appartenenza dei singoli. La società del capitale asseconda mode create ad hoc sui canali mediatici postmoderni da parte delle classi professional del globalismo, della mercantilizzazione e della frammentazione di tutto ciò che può essere collocato all’interno di una nicchia di mercato. È il mercimonio delle identità, pensabile esclusivamente in un mondo che, ormai, ha messo tutto in saldo, in svendita. In particolare, quando, nei miei libri, effettuo rimandi alle classi professional del capitalismo cognitario contemporaneo che creano, ipso facto, i gusti e il tono di vita cui “Oi Polloi” (i molti, le nuove moltitudini alienate e spersonalizzate, ma va bene, in questo caso, anche la “traduzione” con “i polli”, ossia i poveri di spirito, senza offesa agli amici pennuti...) vanno adeguandosi, mi riferisco anche a quanto più sopra affermato. L’industria ultramilionaria del porno, ad esempio, crea i gusti sessuali dei suoi utenti, li manipola, ci costruisce sopra un trend, li adatta a diventare un marchio di consumo “pop” cui “Oi Polloi” possono affidarsi per dar libero sfogo a tutta una serie di repressioni della sfera erotica individuale suscitate ad hoc, nell’utenza, dalla fabbrica pubblicitaria della centrifugazione volontaria delle identità collettive. L’industria multinazionale del porno è oggi una sorta di vero e proprio oppio per le moltitudini frustrate, represse e spaesate, facente funzione di narcotico di massa per inibire ogni pulsione giovanile, virile, alla ribellione nei confronti del mondo così com’è. Naturalmente, quelle donne che, in maniera più o meno riflessiva, accettano, rinunciando alla propria sovranità di genere, l’assunto secondo cui «milf è diventato settore di consumo, fetta di mercato, pubblico di riferimento cui dedicare libri, film, canzoni, serie TV»[i], pensando magari che a ciò corrisponda un processo di emancipazione in quanto la milf postmoderna è finalmente “libera” di “fare sesso come gli uomini”, rappresentano i peggiori nemici (in questo caso, le peggiori nemiche) di chi, uomo o donna che sia, si batte per la concreta emancipazione di genere. L’emancipazione di genere è infatti presa di coscienza, individuale e collettiva, della necessità di combattere e rifiutare ciò che l’industria pubblicitaria e il mercato dei desideri costruiti ad hoc per “vendere, vendere, vendere”, propongono e impongono alla stregua di dispositivi volti a stabilire l’equazione, falsa e interessata, “progresso uguale modernizzazione dei costumi sessuali borghesi”. Il femminismo ha fallito, ed è ormai uno dei tanti dispositivi capitalistici di controllo e dominio sociale, nel frangente in cui ha delimitato nel momento dello shopping e del consumo sessuale più o meno bulimici gli spazi, pubblici e privati, di liberazione della donna da precedenti “vicoli patriarcali” di sorta. Il femminismo ha fallito nel frangente in cui è divenuto religione civile di integrazione di donne sedicenti “liberate” da presunti vincoli patriarcali e incatenatesi, ipso facto, a ceppi ben più difficili da sciogliere di quelli costituiti dalla civiltà borghese “vecchio stampo”, ovvero i ferri imposti dalla società liquido-moderna, di sradicamento, deprivazione e svilimento di ogni identità precostituita. Le donne sono, oggi, “liberate” nella stessa misura in cui si trovano a esserlo i Paesi sottoposti al protettorato amerikano seguito alle guerre coloniali spacciateci, dai corifei politico-giornalistici della società di mercato, come interventi “umanitari” per emendare quei Paesi, e quei popoli, dai presunti “dittatori antioccidentali” di turno... I frutti del femminismo come vettore di integrazione individuale nei dispositivi di comando e di controllo della free market democracy sono i seguenti: tu, giovane donna precaria, insicura e privata della tua sovranità politica, economica, culturale, alimentare e di genere, sei costretta, per tirare a campare, a lustrare le scarpe al padroncino di turno (indipendentemente dal genere sessuale di appartenenza di costui) ma, se lo desideri, puoi sposare la tua collega, ugualmente povera, precaria, umiliata e frustrata e, inoltre, se te lo puoi permettere, puoi vagabondare liberamente per ogni angolo del globo poiché la pseudo-cultura della mobilità ha sostituito, previo ed entusiastico consenso degli attori politici nominalmente deputati a difendere i diritti sociali collettivi, benefit e garanzie previsti, per i consociati, dallo Stato sociale moderno. Nel 1994, l’attore Paolo Villaggio ebbe a dire, commentando la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi e della sua coalizione: «Ormai è la fine della cultura di sinistra: per i tossici, le donne e gli omosessuali si può tornare indietro di vent’anni». Tossicodipendenti, femministe glamour e gay: ecco la triade sociologica cui la sinistra postmoderna aveva ormai indirizzato il proprio discorso pubblico... La fine della cultura di sinistra non fu dovuta alla vittoria elettorale di Berlusconi bensì alla metamorfosi della sinistra da partito dei diritti sociali collettivi dei lavoratori a movimento d’opinione dei ceti in qualche modo più affini ai nuovi stili di vita, di consumo e di desiderio dettati dalle logiche del globalismo e dalla catechesi dei cosiddetti diritti di libertà individuali. Insomma, il femminismo ha avuto la pretesa, e in larga parte vi è riuscito, di omologare e incorporare le donne nel perimetro della società neoliberista di mercato, dei consumi e dei desideri liberalizzati. L’industria multinazionale dei desideri e dei “gusti” sessuali liberalizzati strumentalizza gli esseri umani, uomini o donne che siano, per fini meramente economici, affaristici. All’ombra dei meccanismi di controllo sociale e di conquista delle coscienze individuali imposti dall’industria multinazionale dei desideri e dei gusti sessuali “liberalizzati” si consumano giganteschi processi di de-emancipazione e repressione di massa di un approccio sano, gioioso e, mi si permetta, epicureo nei confronti della sfera intima e affettiva. Anche gli omosessuali, così come le donne e le altre minoranze globaliste (studenti, lavoratori precari e nomadi, migranti, ecc.), venivano scientemente manipolati e strumentalizzati, a fini politici di consolidamento dello stato di cose presenti, da parte del regime del capitale transnazionale e degli intellettuali promotori dell’ideologia unica del politically correct. La consapevolezza sociale e di classe, infatti, regredisce all’avanzare del capitalismo e delle logiche tese alla mercificazione di tutto, sessualità compresa. Vorrei essere preciso a riguardo: omosessuale e gay non sono necessariamente sinonimi. Il gay, o meglio, global gay, è un adattamento dell’omosessualità ai codici postmoderni della società di mercato e l’atteggiarsi a global gay non è ipso facto connesso a una tendenza “omoaffettiva”… Non pochi omosessuali rifiutano, per se stessi, l’appellativo “gay” e non prendono parte, reputandole liturgie spettacolistiche di adattamento ai conformismi tipici di una società integralmente mediatica, a manifestazioni, come il gay pride, tese a celebrare lo sciovinismo dell’esistenza commerciale di chi, omosessuale o meno, interpreta la vita come una sorta di passerella ininterrotta sugli schermi televisivi o le bacheche di qualche social network. Secondo la mia opinione, i peggiori nemici degli omosessuali, oggi, non sono certo le normative russe che sanzionano, tra l’altro con pene pecuniarie, la “propaganda gay in presenza di minori” bensì i promotori, occidentali, delle politiche gender mainstreaming volte a favorire l’inserimento, l’integrazione, degli omosessuali nel perimetro, ormai sempre più tragicamente allargato, della società di mercato. In tale contesto, la nozione di “giudizio sociale” assume un valore fondante. In Russia, il giudizio sociale concernente la vulgata gay-friendly è negativo, mentre in Occidente è perlopiù positivo. Il giudizio positivo caratterizzante il metaracconto gay-friendly in Occidente si fonda su motivazioni riconducibili a lucrose prospettive di business per quel che concerne gli strati upper class, cognitari, knowlegde workers di fascia alta del comparto creativo della produzione materiale e immateriale del capitalismo di consumo e di desiderio e per ragioni aderenti agli esiti dei processi pubblicitari di conquista delle coscienze alle ragioni della vulgata open mind funzionale a costituire la giustificazione colta nei confronti delle dinamiche proprie di un capitalismo brutale e sfruttatore per ciò che riguarda gli strati middle class-proletariat teledipendenti e privi di coscienza infelice. Perché, oso domandarmi, un omosessuale, per avvertire se stesso come “emancipato”, deve avvalersi di politiche indirizzate a incanalare il suo modo di essere e di pensare nell’ambito del mainstream? Negli anni Settanta, gli omosessuali erano orgogliosi di non essere come gli altri, oggi invece fanno a gara per essere come gli altri, per raggiungere la soglia massima di adattamento ai ritmi imposti dalla società di mercato, ovvero per cercare di avvicinarsi, il più possibile, allo stereotipo commerciale dell’homo globalis, cioè l’idealtipo antropologico veicolato dalle fiction televisive americane di apologia dello stato di cose presenti e dei suoi quadri ideologici (danarosi, sfruttatori e cosmopoliti). Celebrities della società dello spettacolo “made in Usa”, aziende multinazionali dei servizi, dell’e-commerce e dell’entertainment e associazioni LGBT più o meno equivoche si sono autopromosse a sindacato internazionale per la promozione delle politiche gender mainstreaming e ciò dovrebbe indurre gli omosessuali a una profonda riflessione sugli interessi economici che muovono il business gigantesco celatosi al cospetto della vulgata politically correct riguardante la cosiddetta modernizzazione democratica dei costumi sessuali… Piuttosto che intonare il canto lamentoso riguardante la retorica del “matrimonio per tutti”, gli omosessuali dovrebbero, se veramente intendono portare avanti battaglie rivoluzionarie e di principio, condivisibili o meno ma indiscutibilmente oppositive rispetto a ciò che l’esistente propone e concerne, battersi per rivendicare la propria alterità rispetto ai gusti e alle abitudini stereotipate appannaggio del resto dei “consumatori” e contro l’istituto “borghese” del matrimonio… Gli omosessuali dovrebbero essere, a guisa, i più incazzati e i meno libertari di tutti, e invece si prestano, in larga parte, volontariamente e manifestando persino un certo qual entusiasmo esibizionistico in tal senso, alla serie di strumentalizzazioni a carattere prettamente neoliberale e sistemico cui sono creativi, soggetti e oggetti al contempo. Non è infatti lo Stato a dover legiferare per porre il veto allo svolgimento del gay pride. Sono gli omosessuali stessi che dovrebbero emanciparsi, denunciando la funzione squisitamente sciovinistica, spettacolistica e di adeguamento del gay pride, dall’egemonia esercitata, sul loro modo di essere e di venir percepiti nell’ambito dell’opinione pubblica generalista, dalla moda omologante costituita da questa sorta di americanata, di show esibizionistico a uso e consumo di TV, social network e business dell’entertainment. Gli stessi “valori europei” (european way of life) tanto cari alle élite del liberalismo transnazionale, nel cui seno il gay pride trova un posto di assoluto rilievo, non sono che una serie di prodotti pubblicitari di fruizione immediata, un volano per rilanciare ulteriormente i lauti guadagni scaturiti, per le corporations internazionali del consumo di mode e immagini a esse correlate, dalla produzione immateriale del capitalismo postmoderno. In altri termini, mi chiedo perché un omosessuale non possa conquistare il proprio diritto alla sovranità di genere fuori e non all’interno dei dispositivi di controllo sociale capitalistici (Gestell) predisposti ad hoc dai quadri ideologici del liberalismo totalitario contemporaneo per frammentare la società centrifugando, sistematicamente, ogni identità collettiva predeterminata. Il regime liberal-capitalista non vuole individui emancipati bensì atomi indistinti, anche a livello di consapevolezza di genere, dediti unicamente all’ideologia del denaro e al modo di essere centrato attorno ai diktat dell’esistenza commerciale. Comunque, per certi versi, le considerazioni di cui sopra saranno presto superate, di slancio, dall’avvento della fase suprema del globalismo, ossia il transumanesimo, che tenderà a sopprimere un’umanità ormai “di troppo” nel novero di una post-società integralmente annichilita dal dominio delle nuove tecnologie. Il transumanesimo sostituirà gli esseri umani con robot androgini e, infine, algoritmi e “intelligenze” artificiali… Dunque, addio forme, curve e sinuosità corporee, addio sessualità, sesso, piacere fisico e affettività… Tutto superato dall’avvento delle informazioni digitali (algoritmi, big data, ecc.) come surrogato degli esseri umani. Il transumanesimo è, oggi, come spiega il filosofo russo Aleksandr Dugin, propugnato da quelle forze, politiche e intellettuali, della Nuova Sinistra Globalista e Postmoderna, che interpretano l’abbattimento dei costi della comunicazione e i processi di modernizzazione tecnologica in atto come una sorta di apripista a scenari di palingenesi rivoluzionaria comunistica su scala mondiale:
[…] le tesi della Nuova Sinistra chiamano il sistema capitalistico globale “Impero” e lo identificano con il globalismo e il dominio mondiale americano. Secondo loro, il globalismo crea le condizioni per una rivoluzione universale, planetaria delle masse, che, sfruttando il carattere, appunto, “globale” del globalismo e le sue chance di comunicazione di ampia diffusione della conoscenza, creano un network per un sabotaggio mondiale, per una transizione dall’umanità (che spicca come soggetto e oggetto di oppressione, relazioni gerarchiche, sfruttamento e strategie impositive) alla post-umanità (mutanti, cyborg, cloni e virtualità) e la libera scelta del genere, dell’aspetto e del raziocinio individuale, a seconda della decisione arbitraria di ciascuno e per un periodo di tempo indeterminato. Negri e Hardt ritengono che ciò condurrà alla liberazione del potenziale creativo delle masse e allo stesso tempo alla distruzione del potere globale dell’“Impero” […]. L’intero movimento anti-globalizzazione ha proprio un simile disegno per il futuro […]. Molte azioni concrete – gay pride, proteste anti-globalizzazione, Occupy Wall Street, le dimostrazioni “di disturbo” degli immigrati nelle periferie delle città europee, i moti di ribellione degli “autonomisti” in difesa dei diritti degli occupatori abusivi, le diffuse proteste sociali dei nuovi sindacati (che ricordano un carnevale), il movimento per la legalizzazione delle droghe, i blitz ecologisti e le proteste e così via – fanno parte di questo orientamento. Inoltre, il postmodernismo è uno stile artistico, che è diventato mainstream nell’arte occidentale contemporanea ed esprime proprio questa filosofia politica della Nuova Sinistra, entrando nella nostra vita attraverso le fotografie, il design o i film di Tarantino e Rodriguez, senza una preliminare analisi politico-filosofica, bypassando la nostra scelta consapevole e facendo breccia nelle nostre menti senza il nostro apporto di conoscenza o di volontà. Questo obiettivo è raggiunto mediante un generale ampliamento delle tecnologie di comunicazione virtuale, che per loro stessa natura implicano un invito implicito alla postmodernità, e la dispersione in frammenti edonistici, post-umani. SMS e MMS, blog e video, flash mob e altri passatempi abituali della gioventù contemporanea rappresentano la realizzazione “rovesciata” del disegno della Nuova Sinistra […][ii].
Il transumanesimo era il programma politico che il nuovo governo serbo, guidato da una gay dichiarata, Ana Brnabić, si prefiggeva per condurre la Serbia a divenir pare del tanto vezzeggiato «mondo globale»[iii] a egemonia culturale liberal. Il programma politico ventilato da Ana Brnabić verteva infatti su «digitalizzazione, start-up, nuove tecnologie. Priorità: apertura al mondo, digitalizzazione, Europa»[iv] intesa come adesione della Serbia alla Ue. Il programma neoliberista del nuovo governo serbo guidato da una premier lesbica e, guarda caso, graditissimo all’establishment di Bruxelles (non tanto perché esecutivo presieduto da una lesbica bensì in quanto esecutivo presieduto da un esponente politico risolutamente liberal-globalista), era chiaramente improntato ad acuire le diseguaglianze di classe interne al Paese, poiché tutto incentrato sull’apologia del capitalismo digitale che, si sa, produce perlopiù frammentazione, precarietà, lavoro sottopagato e costituisce l’esatto opposto rispetto a politiche industriali serie e tese al raggiungimento della piena occupazione. In Francia, fu Emmanuel Macron, un politico apertamente neoliberista e promotore di leggi tese a precarizzare ulteriormente la forza lavoro (mercificando ancor di più l’esistenza dei propri consociati ridotti al rango di sudditi deprivati), a farsi paladino, nella cultura, dei diritti cosmetici per le fasce sociali urbane, abbienti, gaie e open mind… Macron difendeva i capricci della upper class parigina che pretendeva di poter vantare un surplus di godimento ancor più cinico e illimitato dei cespiti prodotti dall’industria internazionale hi tech dei desideri liberalizzati e, contemporaneamente, colpiva duro contro i deplorables appartenenti ai ceti operai tradizionali, periferici e autoctoni. Start-up e capitalismo digitale saranno anche termini, in parte neologismi anglofili, capaci di attirare, come un’esca fa col pesce, abboccamento da parte di fase sociali middle class attratte dalla retorica liberal concernente il nuovismo a ogni costo ma, sia chiaro, non generano occupazione di massa e condizioni salariali e di lavoro decenti per tutti. I lavoratori omosessuali, così come quelli eterosessuali, avrebbero subito, col programma neoliberista varato dal governo di Ana Brnabić, nuove e più traumatiche compressioni dei propri diritti sociali collettivi. Eppure, la comunità LGBT, sciovinistica com’era e per nulla interessata agli effettivi rapporti di forza interni alla struttura dio classe del capitalismo contemporaneo, esultò per la nomina, in Serbia, di un premier gay! La comunità LGBT è sciovinista e punta all’istituzione di un suprematismo postidentitario globale a carattere prettamente gay-friendly, e non ripone alcun interesse nei riguardi delle questioni inerenti la giustizia economica in un mondo egemonizzato dal neoliberismo. Di più: è lecito pensare che la comunità internazionale LGBT si configuri come liberal-globalista nella cultura e come neoliberista in economia poiché in grado di ravvisare, in una società frammentata da macroscopiche sperequazioni quantitative per censo, i prodromi di una più facile penetrazione di strategie mediatiche, pubblicitarie, tese a inverare quel caos morale di cui i sostenitori del suprematismo postidentitario gay-friendly sono profeti incalliti. Pertanto, gli omosessuali che hanno a cuore le sorti delle classi lavoratrici in quanto tali, dovrebbero assumere le distanze dalle associazioni della “nuova sinistra LGBT”, perlopiù soggetti politici sciovinisti, settari e promotori del globalismo imperialista, neoliberista e sradicante. La “nuova sinistra LGBT” è l’internazionale del liberalismo culturale, del globalismo, dello sciovinismo femminista e gay-friendly e del post-umano. I suoi interpreti principali sono i promoters, a vario titolo, dell’ideologia del nomadismo, della digitalizzazione del lavoro e della delocalizzazione permanente di tutto ciò che, in qualche modo, può essere allocato sul mercato come bene fruibile e passibile di un valore di scambio e d’uso. I quadri ideologici della “nuova sinistra LGBT” spaziano dalle leadership attuali dei partiti liberaldemocratici, socialdemocratici e della sinistra radicale di Usa e Paesi della Ue in politica, ai VIP dell’entertainment e dell’infotainment nella cultura (dai pagliacci colti sedicenti “intellettuali di sinistra” con cattedra universitaria incorporata, fino all’ultima starlette e socialite del circuito transnazionale di MTV) fino ai colossi del web e dell’e-commerce in economia. Il giornalista Fabio Torriero ha illustrato in maniera ineccepibile, con le parole che seguono, la connection ultracapitalistica realmente esistente tra liberalismo culturale all’origine del varo di politiche gender mainstreaming nei Paesi occidentali e major americane della new economy globalizzata, sfruttatrice e de territorializzata:
Il liberalismo, nel momento in cui si definisce tramite dell’esigenza della deregulation e della de-istituzionalizzazione di ogni attività umana, è il progetto politico di smantellamento dell’ordine e della legge e in questo uno dei più potenti motori del nichilismo. Il gender pertanto è figlio del capitalismo liberale […]. Dulcis in fundo, un’ultima annotazione: quando il business economico coincide col progetto ideologico globalista-libertario (non-luogo, non-popoli, non-uomini). Chi sono i principali finanziatori, sponsor del gender e della lobby LGBT? Quelle centrali, quelle oligarchie che, decenni fa, hanno contribuito finanziariamente alla diffusione del femminismo e alla liberazione sessuale sessantottina. Eccoli, sono sempre gli stessi: Goldman Sachs, JP Morgan, George Soros, Kodak, Apple, Merril Lynch, Motorola, Pepsi, Toyota, Fondazione Playboy, Amazon, Bill Gates, etc. Come volevasi dimostrare[v].
Gli omosessuali dotati di un minimo di autostima e senso critico possono veramente pensare che una banca d’affari privata internazione come Goldman Sachs, uno speculatore senza scrupoli come George Soros e una multinazionale dell’e-commerce esclusivamente devota all’ideologia del massimo profitto da ottenersi estorcendo il più elevato surplus di pluslavoro in termini relativi e assoluti dai suoi dipendenti come Amazon possano davvero battersi, disinteressatamente, per la causa concernente l’emancipazione di genere? Le centrali oligarchiche globali del denaro hanno come obiettivo principale lo sfruttamento fino all’estinzione del genere umano e finanziano unicamente quei comportamenti individuali connessi con, e strumentali alla, «società radicale di massa, totalmente ateizzata, secolarizzata e laicizzata. E disumana»[vi]. Le centrali oligarchiche internazionali del denaro non vogliono “più diritti per tutti” bensì più capacità performativa per i potenziali acquirenti dei loro prodotti (materiali e digitali). La rivoluzione “globalista” propugnata dalla setta messianica internazionale rispondente al nome di Nuova Sinistra non è altro, alla prova dei fatti, che una controrivoluzione di moltitudini cosmopolite, gadgettizzate e “colorate”, avente per obiettivo quello di radicalizzare, fornendo al contempo a siffatte dinamiche una copertura ideologica intellettualoide e pseudo-democratica, i processi di transizione al postumanesimo propri delle élite cognitarie, transnazionali e transgender, che creano e determinano il modo di produzione, speculativo, del capitalismo contemporaneo. Per cui, stante lo scenario ivi descritto, credo che ogni persona di buona volontà, a prescindere dai propri gusti in fatto sessuale, dovrebbe combattere una battaglia di resistenza culturale ed esistenziale contro il mondo così com’è e così come sarà, sfidando apertamente la società di mercato, il dominio delle nuove tecnologie di comunicazione digitale di massa sulle coscienze dei singoli e il politically correct. Il regime liberaldemocratico globalista contribuisce a veicolare presso le nuove generazioni, attraverso i dispositivi di costruzione del consenso propri della società dello spettacolo, stili di vita e modi di pensare e consumare perfettamente funzionali a rammollire e a narcotizzare, nel vuoto a perdere del nichilismo più spinto, ogni pulsione giovanile alla (giusta peraltro) rabbia ribellistica contro il sistema. Oggi come negli anni Settanta del XX secolo, è l’antifascismo, quarant’anni fa declinato nella sua variante “militante” e oggi coniugato in un’accezione più propriamente commerciale, ossia adeguata alle esigenze di comunicazione tipiche della società liquido-moderna, a costituire uno tra i principali dispositivi ideologici creati e utilizzati dalle classi dominanti per costruire la gabbia di acciaio in cui imprigionare le velleità antisistemiche a vario titolo ancora presenti in determinate fasce sociali pauperizzate e in alcuni frammenti di elettorato giovanile. Negli anni Settanta del XX secolo l’antifascismo fu il principale viatico politico-culturale di legittimazione del regime democristiano e della strategia di “caccia al fascista” posta in essere dai servizi d’ordine e di sicurezza dei gruppi della sinistra pseudo-rivoluzionaria cui la narrativa DC di interessata denuncia del cosiddetto “estremismo nero” aveva offerto, sul piatto d’argento, una importante sponda e copertura politica tesa a sedimentare e consentire l’agire indisturbato delle logiche di guerra civile interna alle giovani generazioni dell’epoca. La DC prese a denunciare il cosiddetto “estremismo nero” nel momento in cui il MSI, rafforzando le proprie posizioni sulla scorta del varo del progetto almirantiano della Destra nazionale riformista, perbenista, atlantista e in doppiopetto, si apprestò a ricoprire il ruolo di potenziale competitor, da destra, dell’egemonia politico-elettorale democristiana nei confronti delle classi borghesi sostenitrici di politiche law and order funzionali alla perpetuazione dei propri privilegi economici e di status. La DC tacciò il Movimento Sociale Italiano di rappresentare una sorta di fucina di “squadristi” proprio nel momento in cui questo partito, inaugurando una fase politico-programmatica cosiddetta di “inserimento nel sistema” democratico-borghese, rischiava di insidiare l’egemonia politico-affaristica esercitata dal ceto dominante democristiano sulla società politica italiana. In questo senso, la teoria degli opposti estremismi come fattore di potenziale destabilizzazione, da destra e da sinistra contemporaneamente, degli equilibri di sistema e dei rapporti di forza gestiti dalla Democrazia Cristiana e dai suoli alleati filoamericani di centrosinistra (PLI, PRI, PSDI e, sebbene in posizione ogni tanto più defilata, PSI) fu elaborata dall’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni, ossia dal servizio segreto civile, allo scopo di puntellare, manipolando e strumentalizzando le rivendicazioni ribellistiche dei giovani di destra e di sinistra, il regime capitalistico-assistenziale e atlantista incarnato da DC e vassalli “laici”. Negli anni Settanta, la DC e i servizi segreti italiani, di provata fedeltà atlantica, alimentarono, attraverso il varo della teoria degli opposti estremismi, la guerra civile tra giovani di sinistra e di destra, al preciso scopo di scongiurare possibili convergenze antisistemiche, passibili di minare alla radice il potere costituente del regime, tra militanti ribelli appartenenti a schieramenti ideologicamente eterogenei (e per molti aspetti finanche inconciliabili) ma inclini alla critica sociale dei rapporti di forza e della struttura di classe esistenti. La DC e i servizi segreti, negli anni Settanta, strumentalizzarono i giovani per i propri fini politico-affaristici, mandandoli al macello in una serie di sanguinari e raccapriccianti episodi di guerra civile intergenerazionale, esattamente come, oggi, le classi dominanti del globalismo imperialista strumentalizzano i nuovi ceti affluenti della mondializzazione liberale (teenager, studenti internazionali, migranti permanenti, precariato cognitario, donne sedicenti disinibite e in carriera, omosessuali, ecc.) per promuovere ulteriormente l’espansione del capitalismo speculativo e della società di mercato. Lo storico Massimiliano Capra Casadio riassunse, avvalendosi tra l’altro dell’importante testimonianza del professor Giorgio Galli, il percorso di costituzione della teoria degli opposti estremismi e dell’avvento, conseguente, della stagione dell’antifascismo militante:
Si era cristallizzata, in sostanza, la teoria degli opposti estremismi, «ossia del pericolo che per le istituzioni democratiche veniva indistintamente da destra, come da sinistra», che era stata «elaborata in seno all’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno» […]. Per usare le parole di Giorgio Galli, la teoria degli opposti estremismi esaltava la «centralità equilibrata della DC», ma rispondeva anche a una necessità speculare sia del governo di centro che dell’opposizione di sinistra, entrambi interessati a «riprendere la denuncia del “neofascismo” come fonte del disordine: il primo per indebolire il MSI e ottenere il consenso dei settori moderati […]; la seconda per imputare soprattutto alla DC e ai “servizi” la tolleranza verso l’estremismo di destra da Piazza Fontana in poi», con la conseguenza che questo modello di interpretazione del conflitto politico avvallò «la convinzione che vi [fosse] un pericolo autoritario potenzialmente fascista da fronteggiare e che quindi “l’antifascismo militante dei servizi d’ordine della nuova sinistra [avesse] una funzione positiva» […]. Nacque in questo modo la stagione dell’antifascismo militante, percorsa da un’ideologia alimentata da una campagna condotta dal 1974 dalle formazioni extraparlamentari e da alcune organizzazioni sindacali per raccogliere le firme a sostegno del procuratore Luigi Bianchi d’Espinosa nel suo impegno per ottenere lo scioglimento immediato del MSI, e interprete di un sentimento diffuso destinato ad acuire in maniera sempre più profonda la sensazione di isolamento dei missini rinchiusi nel proprio ghetto, che si riassumeva negli slogan violenti e provocatori urlati nei cortei: «uccidere un fascista non è un reato»; «le sedi missine si chiudono con il fuoco, con i fascisti dentro se no è troppo poco»; «il MSI fuorilegge ce lo mettiamo noi e non chi lo protegge». Per usare le parole di Luca Telese, per «una intera generazione di militanti l’idea che i fascisti» dovessero venire «combattuti e schiacciati con ogni mezzo» era divenuta «gradualmente una verità indiscutibile e acclarata»[vii].
L’antifascismo militante fu in un certo qual senso propedeutico a legittimare e a conferire agibilità alla teoria, di matrice centrista e governativa, degli opposti estremismi e, contemporaneamente, contribuì, ennesimo caso di eterogenesi dei fini intrinseco alla prassi del frammentato movimento internazionale dei lavoratori, a gettare discredito sull’intera area politica della sinistra che l’opinione pubblica moderata tendeva ormai semplicisticamente a equiparare alle frange staliniste interne ai servizi d’ordine dei gruppi extraparlamentari. Il movimento della “maggioranza silenziosa”, odioso agli occhi dei ceti intellettuali della sinistra che si pretende custode unico dei valori democratici fondanti la repubblica cosiddetta antifascista, sorse in risposta al clima di terrore scaturito dall’agire indisturbato dei gruppi animanti la stagione criminale e per molti aspetti “eterodiretta” dell’antifascismo militante. La sinistra uscì politicamente a pezzi dagli anni cosiddetti di piombo e fu responsabile della propria sconfitta in quanto cercò, ostinatamente, il dialogo e l’accordo politico, in stile CLN, con le forze (cattoliche e laico-socialdemocratiche) che erano maggiormente interessate all’estinzione di una prospettiva politica di alternativa avente, come suo fulcro programmatico, la fuoriuscita dell’Italia dagli equilibri di potere internazionali stabiliti dal Patto Atlantico. I reiterati tentativi delle forze di sinistra di contaminarsi con i soggetti politici espressione, a vario titolo, del liberalismo e del riformismo-assistenzialistico italiota hanno accelerato i processi di crisi di identità ideologica dei partiti socialisti e comunisti europei, tant’è vero che, nella fase attuale, come scrive il filosofo russo Aleksandr Dugin, il marxismo «è divenuto, in pratica, l’“ideologia di riserva” dell’Europa occidentale»[viii] e l’antifascismo si risolve a ricoprire il ruolo di giustificazione per semi-colti (knowledge class) dei prodotti di consumo mediatico posti in circolazione dalla fabbrica mainstream della delegittimazione dei nemici della mondializzazione capitalistica. L’adesione degli intellettuali, dei quadri e dei militanti della sinistra alla catechesi antifascista di integrazione democratica di massa impedì ai soggetti politici più marcatamente interessati a un profondo rinnovamento della tradizione del socialismo italiano (mentre i giovani dell’epoca si scannavano e il regime capitalistico-assistenzialista si rafforzava talmente fino a ristrutturarsi nel novero di un cambio di paradigma che lo svincolò da ogni limite compromissorio di sorta) di farsi interpreti di un confronto serio, articolato e di lungo periodo, con quelle forze della destra (Nuova Destra) emancipatesi dall’abbraccio mortale con il perbenismo, l’atlantismo e il conformismo del MSI almirantiano e dalla galassia organizzativa dei gruppi «fascisti antisistema a difesa del sistema»[ix]. D’altronde, la categoria politica di “destra” non può essere in alcun modo interpretata in senso univoco e la lezione impartita, in merito, sin dalla seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso, da Alain de Benoist e dal nucleo di intellettuali anticonformisti gravitanti attorno all’orbita del GRECE (Groupement de Recherche et d'Études pour la Civilisation Européenne), è preziosa e inequivocabile[x]. L’antifascismo è invece, oggi, una vera e propria religione identitaria neoliberale, conformista e a convenienza, costituita, nella propria variante più interessatamente volta alla mobilitazione politica di residui gruppi militanti appartenenti alla frastagliata e polverizzata famiglia politica della sinistra pseudo-rivoluzionaria, da una serie di riti e liturgie di giustificazione dell’esistenza di micropartiti supercomunisti e a vario titolo corrosi da un’insopprimibile vena di settarismo, come “baluardo democratico” contro ogni possibile “scivolamento a destra” della società. Il sociologo francese Christophe Guilluy ha, da parte sua, sottolineato l’aspetto della retorica antifascista (peraltro in totale assenza di fascismo) più marcatamente teso a legittimare lo status quo neoliberale e ultracapitalistico. Guilluy definisce infatti l’antifascismo odierno, di matrice liberal-progressista, un’arma di classe brandita dai ceti dominanti, agiati, cosmopoliti e glamour, per delegittimare gli avversari della globalizzazione unipolare e per consolidare lo stato di cose presenti attraverso la sistematica colpevolizzazione, attraverso l’uso politico e selettivo della memoria storica, di ogni forma di organizzazione improntata alla resistenza e alla ribellione nei confronti del mondo così com’è. La «retorica dell’antifascismo in stile Anpi, che viene diffusa in funzione meramente propagandistica e in assenza di ogni analisi rigorosa […] viene usata in chiave strumentale per assicurarsi una copertura a sinistra in assenza di fascismo stesso, sfruttando una sorta di riflesso pavloviano che scatta nelle menti di quasi tutti i simpatizzanti di questa parte politica»[xi]. Quella concernente l’antifascismo in assenza di fascismo è infatti una narrativa strumentale a effettuare, da parte dei ceti politico-intellettuali che la veicolano, «un’apologia del liberalismo»[xii] avente il preciso scopo di legittimare, come processo di «rinnovamento»[xiii], lo «spostamento a destra»[xiv], in materia economica, di una sinistra cosiddetta di governo impegnata, più che altro, sul fronte della «prassi politicista della cooptazione e del riciclaggio più spudorato»[xv]. Il filosofo Stefano G. Azzarà ha scritto parole molto interessanti riguardo l’estinzione di una parte politica, la sinistra, antifascista a convenienza ma ultratlantista, conquistata alla retorica liberale concernente il primato della società civile e della cittadinanza globale nei confronti di ogni precedente riferimento ai diritti sociali dei lavoratori delimitati all’interno delle strutture e delle istituzioni democratiche caratteristiche dello Stato nazionale moderno e divenuta, nei fatti, interlocutore privilegiato dei ceti sfruttatori riconducibili all’alveo della destra finanziaria internazionale:
[…] la sinistra italiana non muore affatto oggi con la vittoria di Matteo Renzi e la calata dei suoi barbari deculturati e opportunisti […]. La sinistra italiana ha cominciato a morire molti anni fa. Quando, in seguito a un cambio di fase del modo di produzione capitalistico e a una sconfitta strategica di proporzioni rivelatesi bibliche, invece di fermarsi a ripensare le proprie ragioni e le nuove forme possibili del conflitto politico-sociale in Occidente ha preteso di governare processi molto più forti di lei, confidando nelle virtù salvifiche di una cittadinanza che però nulla è e nulla può senza la forza del lavoro. Processi che erano causa e conseguenza a un tempo della tragedia dei propri ceti sociali di riferimento e di nuovi terribili rapporti di forza tra le classi. E che mai il mito anglosassone della società civile e delle pari opportunità, né tanto meno quello di un’inutile governabilità fine a se stessa, avrebbero potuto domare[xvi].
L’antifascismo codificato e veicolato dalle celebrities intellettuali occidentali si colloca interamente all’interno di quel «mito anglosassone della società civile» perfettamente aderente ai, e funzionale coi, piani imperialistici neocon tesi a suscitare insurrezioni “colorate” in quelle aree del globo i cui popoli si rivelano restii a farsi domare dall’idra neocapitalistica a stelle e strisce. Gli studenti che, nei Paesi della Ue, manifestano contro il “fascismo” di Trump, Putin e Marine Le Pen, inneggiando al contempo ai miti mediatici giovanilistici scaturiti dalla fiction occidentale relativa alla costruzione, ad hoc, di attori politici e sociali (dalle ONG ai singoli agenti “sorosiani” camuffati da giornalisti, dottorandi, professorini e mecenati smaniosi di favorire l’abbraccio tra i popoli coloniali e l’Occidente “democratico”) meglio noti come freedom pushers all’estero, non fanno altro che immolarsi politicamente sull’altare dei signori, multimilionari, del capitalismo liberale e della società sciovinistica di mercato. Riassumendo, l’antifascismo, nella sua accezione “militante” (supercomunista) così come nella propria declinazione più segnatamente liberale di sinistra è, oggi, il fattore ideologico alla radice della narrativa clintoniana sui deplorables e i gruppuscoli sedicenti rivoluzionari che se ne fanno interpreti e latori prestano sostanzialmente il fianco ai propositi, neoliberali, di tale metaracconto di apologia dell’esistente posto in essere dai ceti organizzatori e gestori della società nichilistica di mercato. Personalmente, se mi si permette questa chiosa, sono convinto, sulla scorta di quanto scrive il sociologo Roberto Pecchioli, che, oggi, come alternativa alla società radicale di massa, occorra «un’idea nuova per il Terzo Millennio»[xvii], lontana dai nostalgismi nei confronti del fascismo storico novecentesco così come nei riguardi di ogni forma di messianismo, sia esso liberale o comunistico. Credo che la Quarta Teoria Politica, o 4TP, (né liberale, né fascista, né comunista, ma tradizionalista e fautrice della democrazia organica) concepita dal filosofo russo Aleksandr Dugin possa rappresentare, al meglio, l’Idea Nuova di cui sopra[xviii], un’idea che si colloca, inevitabilmente, al di là dell’obsoleta dicotomia eurocentrica sinistra/destra (un’antitesi, quest’ultima, funzionale esclusivamente a perpetuare i rapporti di forza e di classe imposti dalla società liberale tecno-mercantile). E penso anche, con Dugin, che la Quarta Teoria Politica sia caratterizzata dal «rifiuto di qualsiasi tipo di nazionalismo, sciovinismo, eurocentrismo, universalismo, razzismo o atteggiamento xenofobo»[xix]. La Quarta Teoria Politica, infatti, respinge il nazionalismo borghese proprio della “vecchia destra” e si rifà, nella cultura, alla lezione, feconda e intramontabile, della Nuova Destra (Nouvelle Droite) metapolitica sorta in Francia[xx], attorno agli intellettuali radunati nel GRECE a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta del XX secolo[xxi]. La Quarta Teoria Politica, scrive Dugin,
è contro qualsiasi tipo di universalismo, e respinge ogni tipo di eurocentrismo, sia liberale che nazionalista […].La storia europea è stata sempre basata sulla pluralità delle sue culture e sull'unità delle sue autorità spirituali. Questo è stato distrutto, prima dalla riforma protestante e poi dalla modernità. La liquidazione dell'unità spirituale europea è stata parte dell'origine del nazionalismo europeo. Pertanto la 4TP sostiene l'idea di un nuovo impero europeo come impero tradizionale con un fondamento spirituale, e con la coesistenza dialettica di diversi gruppi etici. Invece degli Stati nazionali in Europa, un impero sacro: indoeuropeo, romano e greco […]. La 4TP afferma che la geopolitica è lo strumento principale che può essere utilizzato per comprendere il mondo contemporaneo. Quindi l'Europa dovrebbe essere ricostruita come una potenza geopolitica indipendente. Tutti questi punti coincidono con i principi fondamentali della Nuova Destra francese e con il manifesto del GRECE di Alain de Benoist. Pertanto dobbiamo considerare la Nuova Destra Europea come una manifestazione della 4TP[xxii].
A livello squisitamente politico, come sostenitore della 4TP, non mi reputo in alcun modo un simpatizzante di regimi o partiti contigui alla prospettiva etnonazionalista di “vecchia destra”. Dico di più: contrariamente ai deputati del PD, in gran parte fieri sostenitori del regime nazi-atlantista di Kiev (e dunque antifascisti prettamente a convenienza), mi schierai, apertamente e sin dal 2013, contro il golpe neonazista postmoderno che, nel volgere di pochi mesi, consegnò l’Ucraina mani e piedi alla Nato e all’Ue felici di accogliere, nel proprio seno, un Paese in cui i “nazi” incendiavano sedi del Partito comunista, picchiavano a sangue e massacravano i militanti cosiddetti filo-russi (strage di Odessa, Casa dei Sindacati, 2 maggio 2014) e inauguravano spedizioni militari punitive nel Donbass per reprimere, con le armi, la ribellione della popolazione russofona e antifascista della regione... In Ucraina la giunta di Kiev ha messo fuorilegge, per decreto, il Partito comunista ucraino (KPU) ma la Ue non ha avuto alcunché da ridire in merito. Alla Ue, e ai suoi vertici politico-affaristici, interessa soltanto che nei Paesi del blocco ex sovietico si celebrino, in perfetto “ordine”, le parate conformistiche e giovanilistiche del gay pride per la piena integrazione degli omosessuali nella società di mercato. Per la Ue democrazia è ormai sinonimo di gay-friendly. Fatta questa precisazione, esprimo un giudizio nettamente negativo sulla recente proposta di legge piddina volta, nelle intenzioni, a “proibire l’apologia di fascismo” in Italia. Si tratta infatti di una proposta di legge più fascista delle idee fasciste che vorrebbe reprimere, sostenuta unicamente da quel ceto intellettuale “de sinistra”, mainstream, sostanzialmente ignorante e cooptato che, all’ombra dell’antifascismo conformistico e a convenienza di cui sopra (l’antifascismo che strilla contro il “fascista” Putin ma plaude ai nazi-atlantisti di Kiev, definendo sfacciatamente costoro “giovani rivoluzionari” e “democratici europei”), ha costruito carriere universitarie lautamente retribuite e moderatamente prestigiose. In altri termini, il mio giudizio storico, negativo, sull’operato (soprattutto in termini di politica estera, coloniale, e di politica interna, ispirata a un nazionalismo borghese, savojardo e sostanzialmente liberale) del regime fascista mussoliniano (1922-1943) è direttamente proporzionale alla mia valutazione, altrettanto negativa, nei confronti di una legge, quella in questione, strumentale al compimento di due obiettivi politici ben precisi quanto contingenti: 1) consentire al PD di rifarsi una “reputazione” mediatica democratica e “antifascista” dopo le dichiarazioni para-populiste di Renzi in tema di immigrazione nel luglio 2017; 2) costituire il nefasto prologo di successivi provvedimenti repressivi nei confronti di qualsivoglia manifestazione di pensiero critico e in contraddizione rispetto ai rapporti di forza neoliberali esistenti. Ergo, al PD importa nulla di proibire i simboli “fascisti” altrimenti, è utile ripeterlo, questo partito non si sarebbe schierato a favore delle forze ultranazionaliste e di estrema destra (ma, guarda caso, filo-Nato) nel contesto della crisi ucraina. Al PD interessa “far politica” badando bene di sanzionare, a tappe successive, per via legislativa, tutte quelle forme di pensiero incompatibili con la catechesi postmoderna, veicolata dagli intellettuali “de sinistra” mainstream, centrata attorno all’ideologia dei “diritti di libertà” di un individuo astratto e fondamentalmente americanocentrico. Anzi, il PD aveva tutto l’interesse a che i critici delle politiche neoliberali della Ue esponessero, nel contesto dei loro raduni e convegni, simboli fascisti e nazisti poiché, in tal modo, i “democratici” potevano liberamente tacciare, dinnanzi all’opinione pubblica di ceto medio, gli oppositori della globalizzazione unipolare alla stregua di branchi di disadattati e di estremisti egemonizzati da simpatizzanti per i regimi accusati, dalle classi proprietarie anglosassoni, attraverso un ormai documentato eccesso di colpevolizzazione[xxiii], di aver scatenato il secondo conflitto mondiale. Insomma, nel momento in cui gli oppositori della globalizzazione liberale si ponevano nelle condizioni di venir accusati di neonazismo, il PD non poteva che trarre, da un simile scenario, determinati vantaggi politici poiché legittimato a veicolare la narrativa secondo cui al dominio del capitalismo di libero mercato non sarebbero concepibili alternative in quanto la rimozione di codesto sistema di potere e dominio avrebbe aperto, inevitabilmente, le porte a un (invero del tutto improbabile) ritorno del fascismo storico novecentesco. La legge piddina sul “divieto di apologia di fascismo” è pertanto il risultato dell’uso politico, da parte dei ceti dominanti, globalisti, dell’antifascismo come «arma di classe» per reprimere le rivendicazioni sociali delle fasce penalizzate dalla mondializzazione. La legge piddina sul “divieto di apologia di fascismo” è inoltre l’apripista legislativo di nuovi provvedimenti volti a istituire reati di opinione puniti con il carcere per mettere ulteriormente a tacere la voce dei deplorables invisi alle nuove classi medie cosmopolite (con, il più delle volte frustrate, velleità intellettualoidi pseudo-progressiste). Il prossimo “colpo”, c’è da scommetterci, sarà quello di vietare, pena la galera e multe salatissime per i trasgressori, ogni manifestazione di pensiero contrastante con quello che il ceto politico-affaristico transnazionale della Ue definisce “sistema di valori liberali europei” (european way of life). L’ideologia di riferimento della Ue transatlantica e neoliberale è infatti il cosmopolitismo e la sottocultura della mobilità illimitata di capitali ed esseri umani. L’ideologia di riferimento della Ue transatlantica è l’idea di progresso intesa come fine capitalistica della Storia. In questo senso, il liberalismo postmoderno è fatalistico almeno quanto il comunismo messianico dei secoli XIX e XX. Per i bolscevichi, infatti, il progresso consisteva nell’«avvento, in ogni popolo, di marxismo e comunismo»[xxiv]. Per i liberali, invece, il progresso coincide con l’avvento della mondializzazione capitalistica e la fine di ogni specificità connessa al carattere originario di ciascun popolo. Il liberalismo, inteso come totalitarismo soft, tende all’omogeneizzazione iperborghese così come il comunismo propendeva per la proletarizzazione forzata della società. Per i liberali, un nuovo tipo di borghesia, postmoderna, integralmente adattata e conquistata ai dispositivi di comando e controllo di massa tipici della civiltà hi tech, deve rappresentare il ruolo di classe egemone nell’ambito del modo di produzione, materiale e immateriale, del capitalismo contemporaneo, così come, per i bolscevichi, il proletariato avrebbe dovuto costituire il ceto rivoluzionario per eccellenza. In realtà, mentre il proletariato novecentesco era assai meno rivoluzionario del proprio omologo egizio ai tempi del Faraone Ramesse II, il talento e la propensione controrivoluzionari dei nuovi ceti medi privi di coscienza infelice erano fuori discussione. I bolscevichi presero un grande abbaglio nel riporre cieco fideismo nelle presunte virtù rivoluzionarie del proletariato urbano di fabbrica, mentre i liberali ebbero ragione, paradossalmente, a contare sul ruolo giocato dalle classi medie, proprietarie, agiate, nei processi di affermazione del capitalismo e del “libero commercio” sulle macerie delle precedenti organizzazioni sociali e istituzionali tradizionali. Borghesia non è ipso facto sinonimo di capitalismo. Sinonimo di capitalismo sono invece i processi di liberalizzazione dei costumi borghesi, ossia tutte quelle dinamiche tendenti a sciogliere i vincoli di fedeltà interni ai ceti borghesi “liberando” codesto ceto sociale dalla precedente condizione limitante impressagli dalla coscienza infelice tipica dei tempi di Joyce, di Proust, di Beethoven. In questo senso, il Sessantotto, controrivoluzione giovanilistica postborghese e momento culminante della transizione, in ambito culturale, a un capitalismo non più gestito in maniera consociativa da Stato, partiti, corporazioni e sindacati, bensì integralmente liberalizzato e proiettato in un orizzonte antropologico nuovo, desiderante, centrato sulla categoria di produzione immateriale accelerata e senza futuro[xxv], fu in realtà un passaggio storico apertamente reazionario e non la palingenesi comunistica di emancipazione universale attraverso i miti della “creatività al potere” e della “rivoluzione sessuale” quale grimaldello per abbattere l’idea stessa di autorità statale costituita dai poteri pubblici, immaginata dai giovani contestatori pseudo-rivoluzionari dell’epoca. Il movimento del Sessantotto, infatti, era indirizzato «soprattutto contro i valori borghesi ormai imperanti nei Paesi occidentali»[xxvi] ma si fece interprete al contempo di una critica artistica e libertaria dei tabù propri della borghesia dell’epoca, invocando «una maggiore libertà dei costumi»[xxvii] per superare le ipocrisie in ambito sessuale dei ceti borghesi del periodo. In questo senso, il Sessantotto fu una stagione di rivolta esistenziale certamente antiborghese ma ultracapitalistica, poiché la richiesta dei giovani protestatari di una liberalizzazione integrale dei costumi borghesi (soprattutto per quel che concerneva la sfera affettiva e sessuale) sarebbe inevitabilmente coincisa con una radicalizzazione dei processi di produzione immateriale di un capitalismo in procinto di transizione a una fase prettamente speculativa e, con buona pace degli studenti sessantottini, infatuati di aspettative volte alla democratizzazione radicale della società da attuarsi tramite la modernizzazione dei costumi borghesi, totalitaria. Il Sessantotto fu il mito generazionale di fondazione di un capitalismo assoluto, postborghese e postproletario, culturalmente senza classi sociali e di liberalizzazione politica, economica e a livello di mode e stili di vita, integrale. I giovani contestatari e i notabili in doppiopetto della destra conservatrice, attribuendo entrambi, sebbene con valutazioni di merito diametralmente opposte, una valenza marxista e potenzialmente rivoluzionaria al Sessantotto, commisero un macroscopico errore di travisamento. Il Sessantotto infatti incorporò Marx nell’ambito dei processi di transizione al capitalismo assoluto, introducendo la metafora del filosofo di Treviri come profeta della globalizzazione, estremista di sinistra, sindacalista incazzato, artefice della delegittimazione della categoria di famiglia, avversario della nozione di Stato e consigliere neokeynesiano. Oggi Marx è accettato dall’élite intellettuale mainstream soltanto in quanto interpretato come profeta della globalizzazione e, al limite, come un vecchio estremista di sinistra fautore di una critica serrata nei confronti dell’organizzazione patriarcale interna all’ambito della famiglia tradizionale. Oggi Marx è accettato dai ceti intellettuali della sinistra liberale in quanto la sua figura di profeta della globalizzazione e di avversario delle categorie di Stato e di famiglia tradizionali è stata in un certo qual senso manipolata, in sede di pubblicistica accademica mainstream, al fine di farla coincidere pericolosamente, per via mediatica, con quella di George Soros[xxviii]. I nemici comuni di liberali e radicali di sinistra sono lo Stato e la società organicamente costituiti[xxix]. Liberali e radicali di sinistra sono pronti, in ogni momento, a stringere alleanze e patti di mutua collaborazione per fronteggiare coloro i quali si prefiggono l’obiettivo politico di mantenere e, se del caso, rafforzare il ruolo dello Stato nell’organizzazione sociale ed economica della nazione. Per i liberali lo Stato deve degradarsi fino a risolversi a recitare il ruolo di una sorta di CDA di un’azienda privata. Per i liberali lo Stato deve intervenire nell’economia soltanto al fine di rimuovere gli ostacoli che in qualche modo limitano gli investimenti privati stranieri. Ergo, lo Stato deve, in questo senso, farsi carico degli oneri fiscali di norma gravanti sull’investitore privato e, al contempo, non deve pretendere alcunché da codesto investitore, neppure che rispetti le leggi vigenti, in materia di costo del lavoro e condizioni di vita e sicurezza dei lavoratori, nel Paese in questione. Per i radicali di sinistra, invece, lo Stato non è che un residuo autoritario, borghese e patriarcale da estirpare sulla via del progresso inteso come liberalizzazione dei costumi sessuali borghesi. Scriveva infatti, a riguardo e più in generale, sin dal 1968, Julius Evola, il filosofo della Tradizione:
Il marxismo porta alle ultime conseguenze la concezione societaria moderna, il risalto dato alla “società” con la democrazia, di cui l’ultima conseguenza è in fondo la negazione dello Stato in quanto tale. Già nel sistema democratico lo Stato viene concepito in termini di una gestione e di un’amministrazione (in America si evita perfino di parlare di un “governo”, si parla appunto soltanto di “amministrazione”, quasi che si trattasse di una grossa azienda economica). Secondo il comunismo utopico lo Stato un giorno dovrebbe cessare di esistere, dopo il periodo transitorio della dittatura del proletariato e del governo interinale dei soviet. Comunque, che lo Stato abbia e debba avere una realtà propria e indeducibile, un carattere sopraelevato e “trascendente”, che esso costituisca e debba costituire un punto superiore di riferimento per un insieme di ordinamenti, di attività e di discipline, ciò viene assolutamente negato dal marxismo. Invece è proprio ciò che contro di esso si deve affermare, con la naturale conseguenza, fra l’altro, di una preeminenza da riconoscere alla politica di fronte all’economia[xxx].
Liberali e radicali di sinistra hanno una concezione economicistica della Storia e pertanto la loro narrativa e il proprio modo di essere, di collocarsi all’interno della logica dei flussi di cui sono interpreti e sostenitori, è perfettamente aderente a ciò che la società di mercato prescrive ai suoi consociati, ossia l’attribuire a tutto ciò che può essere in qualche modo immesso in circolazione in quanto “bene” (materiale o immateriale che sia) un valore di scambio. Alain de Benoist, nel bel libro Minima moralia. Per un’etica delle virtù, ha contestualizzato con precisione, nell’ambito di una società prettamente utilitaristica, «l’idea liberale per cui il comportamento più normale, e dunque raccomandabile, consiste nel perseguire il proprio interesse nella maniera più estesa possibile»[xxxi]. I liberali e i radicali di sinistra (o comunisti futuristi) esprimono un giudizio univocamente positivo del capitalismo poiché, a loro dire, il capitalismo rappresenta «uno stadio più progredito rispetto al feudalesimo e al Medioevo»[xxxii] e, pertanto, pur criticando gli eccessi del liberismo in ambito economico, i radicali di sinistra «solidarizzano»[xxxiii] con il capitalismo contemporaneo poiché, come scrive Aleksandr Dugin, «secondo loro, pur aggravando l’alienazione e rafforzando la sua dittatura planetaria, esso comunque prepara, lentamente, la rivoluzione delle masse»[xxxiv], ovvero quel conato controrivoluzionario di moltitudini desideranti l’autogoverno mondiale di individui astratti e pienamente integrati nelle logiche alienanti caratteristiche del self-service generalizzato. I liberali e i radicali di sinistra, al di là delle dichiarazioni di comodo dei sindacalisti a parole più arrabbiati e poi schieratisi a favore di Macron a causa del riflesso condizionato antifascista in assenza di fascismo di ritorno, si collocheranno, sempre e comunque, all’interno di quello che il sociologo Carlo Formenti definisce il «mondo “immateriale” e “leggero” – in realtà materialissimo e pesantissimo – dei flussi (di segni di valore, merci, servizi, informazioni e membri delle élite che li governano»[xxxv] e si disinteresseranno e avverseranno il «mondo dei luoghi in cui vivono i corpi di coloro che chiedono cibo, casa, lavoro e affettività»[xxxvi]. Agli pseudo-intellettuali di sinistra e ai teenager Erasmus Generation aspiranti tali importa soltanto “viaggiare”, scopare (chiedo scusa per l’inusitata volgarità), consumare liberamente qualsiasi cosa capiti loro a tiro e godere illimitatamente e cinicamente dei frutti della produzione materiale e immateriale, digitale, del capitalismo contemporaneo. I ceti intellettuali della sinistra postmoderna, per definizione cosmopoliti e apologisti del progresso inteso come presunto potenziale taumaturgico delle nuove tecnologie di comunicazione digitale di massa, considerano quella che Carlo Formenti definisce «un’idea “postnazionalista” di nazione, intesa cioè come comunità di tutti quelli che lavorano e lottano in un determinato territorio»[xxxvii], già di per sé una tentazione populista, da cui diffidare. In questo senso, i ceti intellettuali della sinistra mainstream si sottraggono, volontariamente, al confronto con le dinamiche reali proprie del conflitto di classe contemporaneo. I quadri ideologici del movimento new global (denominato così perché i suoi simpatizzanti si prefiggono l’obiettivo di una globalizzazione dei “diritti di libertà individuali” riguardo a tematiche quali liberalismo sessuale, uso di alcolici e droghe, mobilità planetaria, ecc., in luogo di una mondializzazione che i movimentisti alterglobalisti percepiscono come essenzialmente neoliberista in economia e “conservatrice” in ambito societario) infatti, sono “per il comunismo” (inteso nell’accezione, negriana, di comunismo del consumo libero) ma contro il populismo e, de facto, nel contesto della «guerra di classe dall’alto che il capitale ha condotto negli ultimi decenni – attraverso finanziarizzazione dell’economia, riforme del sistema politico, ristrutturazione tecnologica e battaglie culturali»[xxxviii], hanno recitato il ruolo di opposizione preferita di Sua Maestà, ovvero di chi, sostanzialmente, lavora per perpetuare il dominio del re di Prussia. Il rifiuto del capitalismo ostentato dai new global è puramente astratto e limitato al loro canto, lamentoso e reiterato, di critica degli eccessi del liberismo in ambito economico. La critica dei new global al capitalismo si risolve dunque in una sorta di incazzatura di masse nominalmente indignate, perlopiù giovanilistiche, nei confronti di una classe dirigente che non permette loro di accedere gratuitamente a tutti i beni di consumo e alle rendite di posizione in termini di status che la produzione materiale e immateriale del capitalismo contemporaneo concepisce e dispone. In altri termini, i new global vogliono il liberalismo societario anglosassone nella cultura ma anche i benefit caratteristici del welfare socialdemocratico scandinavo in economia. Insomma, i new global perorano la causa di quella che definiscono una democratizzazione, con accesso garantito a tutti, di quella società di mercato oggi considerata esclusivista e sciovinistica in quanto i frutti che dispone si caratterizzano come riservati a una sorta di upper class separata, per capacità di spesa individuale, dalle monadi desideranti ma pauperizzate costituenti quelle moltitudini cosmopolite di cui gli anarchici dei centri sociali okkupati si avvertono, in alleanza tattica con i quadri ideologici dell’editoria e dell’entertainment radical-progressista, avanguardia politicizzata con velleità dirigenti. La upper class dei locali alla moda di New York, Londra e San Francisco è a favore di una società di mercato sciovinistica ed escludente, i new global propugnano invece l’avvento di una società di mercato liberalizzata, ossia intesa come self-service generalizzato di beni di consumo e diritti di libertà di un individuo astratto, sradicato, cinico e irresponsabile. New global e magnati internazionali della finanza hanno infatti un nemico comune, contro cui serrare i ranghi in ibrido connubio in caso di necessità politica: l’idea stessa di frontiera che delimita i confini dello Stato nazionale moderno. Il capitale internazionale si alimenta delocalizzando, in maniera permanente e sistematica, esseri umani, assets finanziari e beni di consumo e, per perpetuarsi come agente strategico di riproduzione di un ciclo storico fondato sul dominio della merce creativa come soggetto della produzione, materiale e immateriale, contemporanea, necessita di sfornare, in serie, nuove generazioni culturalmente adepte della filosofia della delocalizzazione permanente di cui sopra. Il filosofo francese Jean-Claude Michéa ha ben delineato il nesso causale corrente tra la sottocultura della mobilità studentesca, l’incentivo dei tecnocrati della Ue nei confronti dei flussi migratori di ogni genere, i processi di deregulation economica e lo storytelling “dirittumanista” veicolato dalla sinistra radical-progressista, scrivendo, a riguardo:
La dérégulation progressiva dei flussi migratori (di cui l’abolizione di tutte le frontiere è il termine logico) si presenta sia come il segno di questa cultura della mobilità a proposito della quale Kristin Ross scriveva che era diventata “l’imperativo categorico dell’ordine economico” moderno, sia come il prodotto di una strategia padronale che mira a mettere in concorrenza i lavoratori del mondo intero […]. Il problema è che per l’estrema sinistra liberale, ogni messa in questione di questa ideologia della “mobilità” e della dérégulation capitalistica dei flussi migratori (concernenti, del resto, il 2 per cento della popolazione mondiale) è supposta comportare irrimediabilmente la “stigmatizzazione” degli stranieri e il “rifiuto dell’altro”. Tale argomento è palesemente assurdo[xxxix].
Il capitalismo di consumo è, per sua stessa vocazione e propensione, giovanilistico in quanto i giovani rappresentano i soggetti privilegiati cui si rivolge l’industria delle mode narcisiste contemporanee e tuttavia, come afferma il filosofo Diego Fusaro, «il giovanilismo è […] tra i massimi nemici dei giovani»[xl]. Il giovanilismo, infatti, laddove esalta la gioventù nelle sue «funzioni più inutili e oscene (spettacolarizzazione dei corpi e delle prestazioni fisiche, dalle “veline” ai calciatori»[xli], allo stesso tempo ricopre una funzione strumentale di fattore di adeguamento psico-politico dei giovani nei confronti della narrativa integrazionista (ovvero, di adesione incondizionata delle nuove generazioni al modo di essere veicolato dalla società di mercato e di “svago” odierna) propria del più brutale capitalismo (detto per inciso, pure gerontocratico a livello di classi dirigenti ideologiche, politiche ed economiche) di sfruttamento e alienazione di massa. Il giovanilismo è la cultura politica legittimata e imposta dalle classi dominanti per ridurre le nuove generazioni, con il consenso estorto a queste ultime per il tramite dei circenses loro offerti dal “divertimentificio” caratteristico di una società condannata alla vacanza e all’Erasmus permanenti (proprio perché irrimediabilmente privata della possibilità di accesso a qualsivoglia ipotesi di emancipazione attraverso il lavoro e la famiglia) allo stato di subalternità totale nei confronti dei propri stessi padroni, sfruttatori e, in quanto tali, nemici principali. Il regista Mario Monicelli denunciò, sin dal 2010, un’intera generazione definendola «bacata, morta, che non ha voglia più di far niente, che vuole solo cercare di divertirsi, di non lavorare…»[xlii]. Questa generazione di sfaccendati ha, come stereotipo odierno, l’agglomerato umano di «Islington, quartiere della parte nord di Londra dimora di studenti di sinistra»[xliii] il cui mandato politico è, assai chiaramente, quello di costituire un «argine contro il populismo»[xliv], ovvero quello di legittimare, attraverso una narrativa colta e progressista, le politiche di guerra di classe e di sradicamento attuate dalle classi dirigenti, finanziarie, del capitalismo contemporaneo contro i popoli, l’umanità e la natura in quanto tali. I teenager della Generazione Erasmus «anti-populisti» e sostenitori di «un mondo senza frontiere» e senza identità nazionali, religiose, di genere e di classe, lavorano, con falsa coscienza necessaria, per il re di Prussia (la Nuova Classe Globale del capitalismo “di terza fase”) esattamente come, negli anni Settanta del XX secolo, i seguaci del mito criminale dell’antifascismo militante agirono, pensando probabilmente di rappresentare l’avanguardia di una palingenesi comunista di emancipazione universale, in nome e per conto del consolidamento degli interessi politico-affaristici della Democrazia Cristiana e dei suoi alleati. Il giovanilismo ripudia qualsiasi ipotesi di pensiero autenticamente ribelle dei giovani rispetto al loro essere organici al “divertimentificio” di cui sopra e ha il potere, tutto mediatico, di far percepire alle nuove generazioni i propri sfruttatori e nemici principali alla stregua di alleati e fornitori di circenses potenzialmente inesauribili, nei confronti dei quali poter riporre ammirazione e fiducia. Nell’epoca del giovanilismo trionfante, la gioventù irrevocabilmente metamorfizzatasi nel tipo antropologico postmoderno del “turista senza frontiere” e “permanente” della Erasmus Generation, vive un rapporto di dipendenza e assuefazione nei riguardi delle mode introdotte, sul mercato dei “divertimenti” senza confini né limiti, dai fautori della riduzione dei giovani a esercito industriale di riserva, disoccupati senza via d’uscita e lavoratori precari condannati all’insicurezza perpetua, non solo economica ma anche esistenziale. L’ipotesi della sottrazione, anche soltanto momentanea, dei circenses di cui sopra provocherebbe, nei giovani della Erasmus Generation, reazioni di volta in volta descrivibili come capricci tipici dell’infante o vere e proprie crisi di astinenza caratteristiche del tossicodipendente. Il capitalismo globale necessita, per potersi perpetuare a oltranza, di masse giovanili imbelli, succubi e devote nei riguardi della sottocultura della mobilità e dell’ideologia postmoderna del godimento immediato. Un esempio su tutti può essere utile per comprendere il perché del ricorso smodato, da parte di tecnocrati e opinion makers pro-Ue, alla retorica del giovanilismo e dell’Europa da intendersi come spazio e mercato unificato del divertimento senza frontiere. I giovani universitari ungheresi appartenenti alla cosiddetta Erasmus Generation, la generazione degli studenti che aveva fatto del “divertimento postmoderno” il proprio dio, affermavano infatti, come notava un articolo del quotidiano La Stampa del 2014, di sentirsi «più simili a un liberal spagnolo o americano che al compagno di banco ungherese e cattolico»[xlv] e identificavano nello spazio unificato della Ue «la chance per fuggire»[xlvi] dall’Ungheria, dal “provincialismo conservatore magiaro”, per costituirsi parte integrante del mercato delle mode e dei desideri individuali più sopra menzionato. Queste nuove generazioni di sradicati e di omologati sconcertano per la propria incapacità, nonché per la totale assenza di volontà, di assumere coscienza degli scenari in cui sono immerse. Interessante a questo riguardo citare l’analisi di un acuto osservatore che, sul sito Comedonchisciotte.org, ha giustamente scritto come codesti giovani «gozzovigliatori»[xlvii] di età compresa tra i 18 e i 40 anni non si assumano neppure la responsabilità di verificare il dato di fatto secondo cui le pensioni dei propri genitori anziani rappresentino, per loro, «l’unico ammortizzatore sociale cui potranno fare ricorso»[xlviii] sino al termine dell’esistenza biologica dei suddetti genitori. Il sito Comedonchisciotte.org ha offerto, per mano del citato osservatore delle odierne dinamiche di implosione collettiva della società nell’indistinta galassia virtuale del desiderio veicolato dal regime pubblicitario della mobilità planetaria e dell’internet senza frontiere, una descrizione ineccepibile di quello che sarà, di qui a pochi anni, il destino di una schiatta di teenager eternamente votati al culto dello svago, del divertimento, della distruzione di ogni forma di legame affettivo o comunitario, nonché dell’idolatria del denaro ereditato poiché guadagnato da altri in epoche storiche caratterizzate da un’organizzazione del lavoro e da una struttura di classe tramontate sotto i colpi di quella globalizzazione liberale interpretata, dai teenager postmoderni (Generazione Y) futuri homeless del XXI secolo, alla stregua di una palingenesi democratica di emancipazione individuale attraverso il consumo e il godimento immediati. Vale la pena di citare un passo della riflessione di cui s’è detto:
Tutti i giovani, la naturale carne da rivoluzione, vivono all’ombra dei padri e delle madri. Il loro respiro è ciò che li tiene in vita, come in una mostruosa placenta. E quando i padri non respireranno più? Cosa farà la menefreghista, bella gioventù? Quando si troverà di fronte il notaio che gli succhierà via metà patrimonio e li abbandonerà con uno stipendio da mille euro (se gli va bene) davanti ai grassatori istituzionali, alla sanità inesistente, al welfare inesistente, ai mille balzelli sulla casa, al nuovo mercato libero dei servizi, sempre più onerosi e truffaldini, all’inefficienza dello Stato, alla complicità omertosa dei sindacati? Cosa farà allora il ventenne che sarà trentenne, il trentenne divenuto quarantenne e il quarantenne sulla via del declino fisico? Cosa accadrà a tale generazione quando il grasso da tagliare sarà esaurito e ognuno, da solo, spietatamente solo, dovrà affrontare una società disastrata, in cui il vecchio ordine, tanto deriso, è stato sostituito dall’individualismo più feroce, dal darwinismo sociale, dal feudalismo plutocratico? In cui dovrà rappattumare la propria vita fra supermercati da quattro soldi, legami affettivi insidiati dall’edonismo straccione, perso senza nessun riferimento politico, religioso e culturale? Chissà se fra dieci o vent’anni l’ex giovane, con l’alito fetente per le carie che nessuno gli curerà più, ciarlerà di diritti civili, matrimoni gay, libertà un tanto al chilo […]. Solo un’implosione del sistema può donarci un barlume di speranza. Da noi non è lecito aspettarsi niente. Continueremo a vivere a spanne, un po’ cialtroni un po’ barricaderi da tastiera. Qualcuno, più avvertito degli altri, durante l’alta notte, si chinerà sui corpi dei padri e delle madri che riposano leggeri; farà questo con cautela, furtivo come un ladro, sospeso fra tenera nostalgia e interessata sollecitudine. Vuole sincerarsi disperatamente della regolarità di quel respiro, ultimo baluardo a una realtà senza preoccupazioni, lontano dai mostri di ogni giorno[xlix].
Allorquando gli odierni maîtres à penser della sinistra contemporanea si prodigano nell’apologia diretta delle nuove tecnologie di comunicazione globale, dei voli low-cost e dell’Unione europea stessa, significa che è in corso un’offensiva politica volta a ridurre, ulteriormente, lo spazio di agibilità e di manovra politica per i fautori dell’Europa delle sovranità e delle patrie originarie. Infatti, come osserva il sopraccitato editoriale del sito Comedonchisciotte.org, l’intellighenzia pseudo-progressista italiota, i ciarlatani dell’apologia indiretta dello stato di cose presenti, fa a gara nel silenziare ogni possibile conflitto e per sciogliere le contraddizioni frutto della ideologia distopica e totalitaria del liberalismo “puro” nel gossip rappresentato da «nostalgie da liceo, qualche cascame delle lotte comuniste, ciarpame da Beautiful, amoretti da Moccia, fantasy escapista, saggi politicamente corretti, stupidaggini contro la mafia, scemenze assortite»[l]. L’obiettivo delle caste culturali della sinistra postmoderna è infatti quello di creare un’intera generazione di giovani europei avulsa dalla realtà, irresponsabile, sciaguratamente persuasa di vivere nel “meno peggiore dei mondi possibili”, turista permanente di Internet e della scappatella low-cost. Teenager globalizzati che travisano la suddetta scappatella low-cost con il partner di turno per effettiva possibilità individuale di godere e avvalersi delle convenienze di “libertà” loro “garantite” dal mercato mondiale del turismo e del nomadismo illimitati. L’apologia diretta, da parte del circo mediatico globalista, della Generazione Erasmus, con la sua esplicita funzione di degradazione al rango di turista di massa della nobile, antica e benemerita figura del viaggiatore, si situa esattamente in quest’ottica e persegue una direzione precisa: vincolare al consenso di Bruxelles le nuove generazioni europee in cambio di 6-12 mesi (nel corso di una vita intera) di “divertimento” e di “svago” a zonzo per un continente integralmente pervaso e conquistato da mode, stili di vita e abitudini individuali americane, veicolate e promosse apposta per occultare, negare e delegittimare la storia e le tradizioni, millenarie, dei popoli e delle nazioni d’Europa. In tale contesto, ciò che Bruxelles ritiene necessario per rivitalizzare il consenso attorno alle politiche di lacrime e sangue imposte a popoli e nazioni d’Europa da Commissione Juncker e sodali è la costruzione di una qualche forma di sostegno pubblico ai piani “mondialisti” di scioglimento delle identità tradizionali nella galassia virtuale della società nichilistica di mercato (priva di memoria storica, dedita all’idolatria del presente e incapace, o impossibilitata, di immaginare una qualsiasi prospettiva di futuro). La ricerca di questa base di consenso pubblico nei confronti dei progetti politici della Ue si può certamente ravvisare nel tentativo di esaltazione mediatica della sopraccitata “Generazione Erasmus”. Mai come in questo periodo storico infatti, spaesati e sradicati “studenti internazionali” dal tasso di ignoranza individuale spesso spaventoso sono incappati, più o meno loro malgrado, in una dinamica di strumentalizzazione giornalistica (abilmente camuffata sotto le vestigia della santificazione di una “meglio gioventù” finalmente cosmopolita e integralmente devota all’ideologia della flessibilizzazione esistenziale di massa) volta, in sostanza, a elevarli a sorta di avanguardie (contro)rivoluzionarie di un programma politico transnazionale fondato sul dominio della speculazione finanziaria senza frontiere e sulla filosofia del progresso capitalistico illimitato della Storia. I teenager della Generazione Erasmus sono presentati, dal mainstream, come i “Che Guevara” di una pseudo-cultura della mobilità che, in realtà, ricopre il ruolo unicamente di fattore di promozione pubblicitaria e legittimazione libertaria del business internazionale legato ai processi di delocalizzazione permanente. I teenager della Generazione Erasmus, lungi dal muovere istanze di critica sociale nei confronti dei rapporti di forza interni al capitalismo contemporaneo, perorano esclusivamente la causa di un ulteriore superamento a sinistra, nella cultura, dei fattori caratterizzanti il sistema di compatibilità, già di per sé libertari e gauchistes, tipici dello stato di cose presenti e timidi aggiustamenti socialdemocratici, neokeynesiani, in materia economica (gli studenti internazionali della Erasmus Generation sono infatti, di norma, seguaci delle idee della rock-star del keynesismo postmoderno Thomas Piketty). Nel XX secolo i giovani furono, in Europa, portatori di una carica ribellistica che mise alle corde, in più di un’occasione, il potere (liberale prima e democristiano poi) costituito. All’inizio del XX secolo i partiti socialisti, comunisti e fascisti erano in maggioranza composti da giovani, mentre le élite liberali si distinguevano come spezzoni di un notabilato gerontocratico, clientelare, lassista e affarista. All’alba del XXI secolo invece, le nuove generazioni erano ormai i soggetti per antonomasia della produzione sociale di massa del capitalismo liberale, connotandosi come gli attori sociali più inclini a lasciarsi permeare e conquistare dalla narrativa open mind di giustificazione colta del modo di produzione speculativo contemporaneo. I giovani odierni sono psicologicamente nichilisti e problematici, ma politicamente e socialmente innocui e adattati. I giovani aderiscono alla narrativa di legittimazione democratica del capitalismo di consumo poiché sono stati persuasi del fatto che gli esiti, liberali di sinistra, della cosiddetta seconda rivolta delle élite (a partire dal 1979) rispondessero a una effettiva democratizzazione dell’impianto ideologico delle classi dirigenti del capitalismo neoliberista mentre invece, la conversione del vecchio padronato nazional-conservatore di fabbrica in una Global Class multinazionale dai tratti edonistici e libertari, rispondeva soltanto alle esigenze del cambio di fase del modo di produzione capitalistico, da antitetico/dialettico a speculativo e assolutista, da costretto alla compresenza con forze sindacali e nazionali che ne limitavano il dispiegarsi inarrestabile a svincolato da ogni precedente legame o compromesso con le forze di cui sopra (venute definitivamente meno a seguito dei fatti concernenti il “fatidico 1989”). In realtà, come scrive il politologo Marco Tarchi, la Generazione Erasmus è soltanto «un’altra costruzione retorica che trasfigura – e sfigura – una realtà assai più prosaica delle sue rappresentazioni di comodo»[li]. A prescindere infatti dalla propria, in verità assai risicata, portata numerica e dall’effettiva autopercezione di appartenenza capace di connotarne i componenti come parte di un “gruppo sociale” realmente esistente, la Generazione Erasmus è un progetto di ingegneria sociale e l’oggetto della produzione sociale di massa del capitalismo contemporaneo (in altri termini, la Generazione Erasmus è il prodotto della società in cui viviamo). Quanto più sopra affermato trova conferma nelle parole pronunciate in merito da alcuni maître à penser del liberalismo odierno, quali Daniel Cohn-Bendit e Umberto Eco. Furono infatti costoro a teorizzare l’istituzione obbligatoria della “società dell’Erasmus” finalizzata allo scioglimento di ogni identità collettiva dei popoli europei (identità nazionale, religiosa, di classe, persino di genere) nel magma volutamente confusionario, postnazionale e postideologico di Cosmopolis, il mondo unificato all’insegna dello stile di vita “disinibito”, cinico, disincantato, apolide e oggettivamente stravagante degli strati superiori della classe media delle megalopoli globali. «Io»[lii], esternò in proposito Cohn-Bendit, «vorrei che la Commissione Europea finanziasse ogni anno lo studio all’estero di un milione di studenti europei che poi statisticamente si fidanzerebbero tra loro: che nazionalità avrebbe il figlio di un’olandese nata ad Amsterdam da genitori turchi e un francese nato a Parigi da genitori marocchini? Europea»[liii]. In tal senso, l’idea di “identità europea” descritta da Cohn-Bendit non ha alcun punto di congiunzione con l’autentica, millenaria e pluralistica tradizione europea di popoli e nazioni ma ne invera, sull’altare del mercato globale delle mode contemporanee, la perfetta negazione. La tradizione europea potrebbe infatti trovare il proprio compimento in primo luogo in quello «Stato europeo identitario»[liv] concettualizzato da Dominique Venner, un pensatore di inequivocabile attualità e innegabile profondità, la cui opera è meritevole di continua riscoperta e incessante divulgazione. Daniel Cohn-Bendit reinventa invece il nobile concetto di “identità europea” in chiave prettamente postidentitaria (ossia, in perfetta continuità con la vulgata sessantottesca riadattata in accezione postmoderna, negando e delegittimando le categorie di nazione, famiglia tradizionale e religione). In una società di mercato, giovanilistica e postidentitaria, la cultura del “divertimento” illimitato (Erasmus Culture) funge infatti da rampa di lancio per la costituzione delle apatiche e subalterne “moltitudini desideranti” invocate dall’intellighenzia liberale di sinistra come i “nuovi europei” del XXI secolo. Nell’idea di Unione europea caldeggiata dalle élite di Bruxelles, le identità tradizionali di popoli e nazioni, secondo quanto scrisse il filosofo Costanzo Preve, dovevano infatti essere ridotte alla stregua di «semplici risorse turistiche di mercato»[lv] finalizzate al soddisfacimento degli esotici svaghi e sfizi della “nuova classe media globale” in cerca di “avventure” e commistioni culinarie e sessuali con mondi del tutto semplicisticamente percepiti come “altri”. La liberalizzazione integrale dei costumi borghesi, facilitata dall’abbattimento dei costi dell’informazione e dall’irrompere della sottocultura della mobilità planetaria era, per definizione, l’obiettivo di riferimento degli ideologi della società dell’“Erasmus permanente” e “obbligatorio”, tant’è vero che, già nel gennaio 2012, Umberto Eco affermò che l’Unione europea sarebbe dovuta scaturire proprio da una «rivoluzione sessuale»[lvi] propedeutica all’estinzione di ogni identità interpretabile come un potenziale ostacolo sulla via dell’estensione, senza limiti né confini, del mercato mondiale dei consumi e dei desideri “liberi”. Eco disse infatti che la «rivoluzione sessuale»[lvii] generata dalla cosiddetta Erasmus Experience avrebbe cancellato ogni retaggio identitario e agevolato la formazione di una cittadinanza universitaria globale culturalmente compatibile con i principi politici della narrativa liberal-progressista: «Un giovane catalano incontra una ragazza fiamminga, si innamorano, si sposano, diventano europei come i loro figli. L’Erasmus dovrebbe essere obbligatorio […]. Passare un periodo nei Paesi dell’Unione Europea, per integrarsi»[lviii]. Ai giorni nostri, “integrazione” è sinonimo di idolatria nei confronti degli stili di vita propri dei settori maggiormente benestanti, privi di coscienza infelice e snob delle megalopoli globali (Parigi, Londra, New York, ecc.). Essere “integrati” significa infatti, soprattutto per le nuove generazioni, ciniche e totalmente conquistate alla religione postmoderna del denaro e della mobilità, “essere come gli altri”, ossia seguire le stesse mode (perlopiù americane) in fatto di abbigliamento e gusti musicali, nonché condividere gli stessi “divertimenti” e desiderare gli stessi beni di consumo, a prescindere dall’appartenenza nazionale d’origine. Assistiamo, attualmente, a una corsa frenetica, da parte delle nuove generazioni, verso l’adesione al conformismo più ostentato. “Essere come gli altri” è infatti la condicio sine qua non per sentirsi socialmente accettati, integrati e, pertanto, “parte di un tutto”. Generazione Erasmus è, soprattutto, sinonimo di una vera e propria controrivoluzione avente l’obiettivo di affossare qualsiasi ipotesi di antagonismo non soltanto di destra, ma anche di sinistra, rispetto allo stato di cose presenti, al mondo così com’è. La soppressione di ogni identità tradizionale rischia infatti di abolire irrimediabilmente non soltanto i tratti “conservatori” tipici delle moderne società borghesi ma anche quei valori cavallereschi (onore, fedeltà, solidarietà, autenticità ed eroismo) propri del socialismo delle origini. L’ascesa, anche politica, di coloro i quali percepiscono se stessi come interni alla sottocultura della Generazione Erasmus condurrà, inevitabilmente, in direzione di quella che il filosofo francese Olivier Rey ha a buon diritto definito «la marcia infernale del progresso»[lix] verso il baratro nichilistico della Storia.
[i] S. Sciandivasci, La pornografia online non riproduce i tuoi gusti sessuali, li inventa. La pornografia è ormai insita nella nostra cultura. Parole come Milf, che prima del film American Pie non esistevano, sono oggi di uso comune. E il porno continua a creare tendenze, in «Linkiesta», 17 giugno 2017.
[ii] A. Dugin, La Quarta Teoria Politica, a cura di Andrea Virga, NovaEuropa Edizioni, Milano, 2017, p. 189-191.
[iii] A. Tarquini, Serbia, la sfida di Ana Brnabić: “Io, premier lesbica, un bel segnale per il Paese”. L’economista di rango europeista e di solida formazione accademica nel Regno Unito, omosessuale dichiarata: “La mia elezione è importante, i miei concittadini non sono omofobi. Ora via alle riforme”, intervista ad Ana Brnabić, in «la Repubblica», 12 luglio 2017.
[iv] Ivi.
[v] F. Torriero, Il futuro dei cattolici in politica. Dalla Dc al Family Day, la sfida alla società radicale di massa, Giubilei Regnani, Roma-Cesena, 2017, p. 50-51.
[vi] Ivi, p. 50.
[vii] M. Capra Casadio, Storia della Nuova Destra. La rivoluzione metapolitica dalla Francia all’Italia (1974-2000), CLUEB, Bologna, 2013, p. 84 e 85-87.
[viii] A. Dugin, La Quarta Teoria Politica, op. cit., p. 169.
[ix] Cfr. P. Neglie, Il pericolo rosso. Comunisti, cattolici e fascisti fra legalità ed eversione 1943-1969, Luni Editrice, Milano, 2017, p. 330-350.
[x] Cfr. A. de Benoist, Visto da destra. Antologia critica delle idee contemporanee, Akropolis, Napoli, 1981; A. de Benoist, Le idee a posto, Akropolis, Napoli, 1983.
[xi] S. G. Azzarà, Democrazia cercasi. Dalla caduta del Muro a Renzi: sconfitta e mutazione della sinistra, bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia, Imprimatur editore, Reggio Emilia, 2014, p. 90-91.
[xii] Ivi, p. 90.
[xiii] Ivi, p. 5.
[xiv] Ivi.
[xv] Ivi, p. 90.
[xvi] Ivi, p. 12.
[xvii] Cfr. R. Pecchioli, Uscire dal XX secolo. Un’Idea Nuova per il Terzo Millennio. Per una Quarta Teoria Politica, in «Geopolitika.ru», 28 aprile 2017.
[xviii] Cfr. A. de Benoist, A. Dugin, Eurasia. Vladimir Putin e la grande politica, Controcorrente, Napoli, 2014.
[xix] A. Dugin, Alcuni suggerimenti riguardanti le prospettive per la Quarta Teoria Politica in Europa, in «Geopolitika.ru», 3 luglio 2017.
[xx] Cfr. P. A. Taguieff, Sulla Nuova Destra. Itinerario di un intellettuale atipico, Vallecchi, Firenze, 2003; F. Germinario, La destra degli dèi. Alain de Benoist e la cultura politica della Nouvelle Droite, Bollati Boringhieri, Torino, 2002; M. L. Andriola, La Nuova Destra in Europa. Il populismo e il pensiero di Alain de Benoist, Paginauno, Milano, 2014.
[xxi] La Nuova Destra ebbe anche, nel periodo compreso tra il 1974 e il 1994, un importante sviluppo politico-culturale in Italia. Sul tema, vedasi infatti: M. Capra Casadio, Storia della Nuova Destra. La rivoluzione metapolitica dalla Francia all’Italia (1974-2000), op. cit.; M. Tarchi, a cura di, La rivoluzione impossibile. Dai Campi Hobbit alla Nuova Destra, Vallecchi, Firenze, 2010; G. Tarantino, Da Giovane Europa ai Campi Hobbit. 1966-1986. Vent’anni di esperienze movimentiste al di là della destra e della sinistra, prefazione di Franco Cardini, Controcorrente, Napoli, 2011; E. Raisi, Storia ed idee della Nuova Destra italiana, Settimo Sigillo, Roma, 1990; M. Angella, La Nuova Destra. Oltre il neofascismo fino alle “nuove sintesi”, Fersu, Firenze, 2000; M. Zucchinali, A destra in Italia oggi, prefazione di Giorgio Galli, SugarCO, Milano, 1986.
[xxii] A. Dugin, Alcuni suggerimenti riguardanti le prospettive per la Quarta Teoria Politica in Europa, cit.
[xxiii] Cfr. C. Beard, La colpa fu tutta tedesca? Storia delle responsabilità americane nello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Oaks Editrice, Milano, 2017; E. Salvador Borrego, Sconfitta Mondiale. Capitalismo e Marxismo verso la Globalizzazione, Settimo Sigillo, Roma, 2016.
[xxiv] J. Evola, Anticomunismo positivo. Scritti su bolscevismo e marxismo 1938-1968, a cura di Marco Iacona, Controcorrente, Napoli, 2008, p. 205.
[xxv] Cfr. D. Fusaro, Essere senza tempo. Accelerazione della storia e della vita, Bompiani, Milano, 2010.
[xxvi] M. Capra Casadio, Storia della Nuova Destra. La rivoluzione metapolitica dalla Francia all’Italia (1974-2000), op. cit., p. 125.
[xxvii] Ivi.
[xxviii] Per ricollocare in una corretta dimensione storica e filosofica la figura di Karl Marx, lontano dalle strumentalizzazioni proprie del ceto accademico liberal anglofilo e mainstream, si consiglia la lettura dei seguenti testi: C. Preve, Marx inattuale. Eredità e prospettiva, Bollati Boringhieri, Torino, 2004; C. Preve, Storia critica del marxismo. Dalla nascita di Karl Marx alla dissoluzione del comunismo storico novecentesco, Introduzione di André Tosel, La Città del Sole, Napoli, 2007; C. Preve, Ripensare Marx. Filosofia, idealismo, materialismo, Ermes, Potenza, 2007; D. Fusaro, Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario, Bompiani, Milano, 2009. Per una rilettura, per così dire da destra, della figura politica e filosofica di Karl Marx (tra l’altro condivisa anche dall’autore di queste righe), interessante: A. Dugin, Eurasia. La Rivoluzione Conservatrice in Russia, prefazione di Andrea Marcigliano, Pagine I Libri de Il Borghese, Roma, 2015, p. 110-117.
[xxix] Cfr. J. Evola, Lo Stato 1934-1943, Fondazione Julius Evola, Roma, 1995; J. Evola, Lo Stato organico, Fondazione Julius Evola, Roma, 2004.
[xxx] J. Evola, Anticomunismo positivo. Scritti su bolscevismo e marxismo 1938-1968, op. cit., p. 200.
[xxxi] A. de Benoist, Minima moralia. Per un’etica delle virtù, Bietti, Milano, 2017, p. 91.
[xxxii] A. Dugin, La Quarta Teoria Politica, op. cit., p. 191.
[xxxiii] Ivi.
[xxxiv] Ivi.
[xxxv] C. Formenti, La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo, DeriveApprodi, Roma, 2016, p. 256.
[xxxvi] Ivi.
[xxxvii] Ivi.
[xxxviii] Ivi, p. 255.
[xxxix] S. Caputo, Sul tradimento della sinistra francese. Dialogo con Jean-Claude Michéa, in S. Caputo, a cura di, Franciavanguardia. Cronaca di una rivoluzione culturale, con un commento di Pietrangelo Buttafuoco, Circolo Proudhon, Roma, 2014, p. 81 e 82.
[xl] D. Fusaro, Contro il giovanilismo, in «Filosofico.net», 3 marzo 2014.
[xli] Ivi.
[xlii] M. Monicelli, La speranza è una trappola, in «YouTube», https://www.youtube.com/watch?v=85umR-higzk
[xliii] A. Pecoraro, La generazione Erasmus argine del populismo, in «Linkiesta», 13 giugno 2017.
[xliv] Ivi.
[xlv] F. Paci, Dal “socialismo gulash” alla delusione per l’Europa. Nell’Ungheria tentata dall’Est dove i giovani disertano la politica o votano destra, in «La Stampa», 10 marzo 2014.
[xlvi] Ivi.
[xlvii] Alceste, Il respiro dei nostri padri, in «Comedonchisciotte.org», 18 ottobre 2016.
[xlviii] Ivi.
[xlix] Ivi.
[l] Ivi.
[li] M. Tarchi, Uscita di (in)sicurezza, in AA. VV., Vote Leave, «Diorama Letterario», n. 332, luglio-agosto 2016, p. 2.
[lii] F. Paci, “Renzi? Un rivoluzionario non so se di destra o di sinistra”. Cohn-Bendit: i partiti socialisti sono vecchi e non attirano più i giovani, intervista a Daniel Cohn-Bendit, in «La Stampa», 3 maggio 2014.
[liii] Ivi.
[liv] D. Venner, Prefazione, in G. Dussouy, Fondare lo Stato europeo contro l’Europa di Bruxelles, Controcorrente, Napoli, 2016.
[lv] C. Preve, La Quarta Guerra Mondiale, Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma, 2008, p. 175.
[lvi] G. Riotta, Eco: scommetto sui giovani nati dalla rivoluzione Erasmus. “Anche idraulici e taxisti dovrebbero essere obbligati a passare un periodo a integrarsi negli altri Paesi Ue”, intervista a Umberto Eco, in «La Stampa», 26 gennaio 2012.
[lvii] Ivi.
[lviii] Ivi.
[lix] O. Rey, Dismisura. La marcia infernale del progresso, Controcorrente, Napoli, 2016.