Genius loci: figure, simboli etimologici

30.07.2021

Genius loci – lo spirito del luogo o lo spirito-padrone – è un concetto universale che in una forma o nell’altra troviamo in quasi tutte le culture, dalle più semplici a quelle più sofisticate e differenziate. Nella tradizione romana, lo spirito del luogo era rappresentato da una creatura antropomorfa (genio), i cui attributi classici erano la cornucopia, la fiala e una coppa senza impugnatura impiegata per libagioni rituali (patera). Spesso il gruppo iconico includeva l’immagine di un serpente e talvolta un altare per i sacrifici. L’intero gruppo costituiva un unico insieme, incentrato sul momento della cerimonia, il sacrificio, finalizzato a conseguire un risultato positivo: protezione, aiuto, acquisizione di beni.

La parola latina “genio” risale alla radice indo-europea *ǵenh₁-, che aveva il significato di “dare alla luce”, da cui l’antico iraniano ĵánati, il sanscrito jī́janat e il greco γίγνομαι. Dalla stessa radice derivano il latino genus, il greco γéνος, il sanscrito jánas – tutti con il significato di “genere”, “parentela”. Da ciò logicamente segue il termine gens – “complesso familiare”, “gente”, con riferimento ai “nati”. 

Insomma, genio significa propriamente qualcosa di “nato”, “legato alla stirpe”, in tal senso “umano”. Ma proprio perché stiamo parlando di una sfera “tribale”, riferendoci cioè a una catena di individui che si riproducono (o generano) nel medesimo contesto, lo stato antropologico di una tale “persona” è diverso rispetto al caso di un soggetto singolo, individuale. Il genio è infatti una figura “generalizzata” e “generalizzante”: comprende i vivi e i morti, i singoli e l’intero. Pertanto in latino gens assume sempre il significato “plurale” di popolo. Il singolo individuo non è precisamente un genio, ma rientra in questa sfera di soggettività generalizzata.

Tuttavia, nel caso della forma del genio, essa è singolare. Se infatti con gens si intendeva una moltitudine di individui appartenenti alla stessa stirpe, allora il genio è un individuo, ma non ordinario, piuttosto è una moltitudine che è diventata unità, un collettivo che ha acquisito la proprietà di una personalità individuale. Pertanto, l’antropomorfismo dello spirito (genio) dovrebbe essere considerato in un’ottica speciale: non si tratta solo di un singolo individuo, bensì di una persona “generalizzata”, che include cioè sia i vivi che i morti, i singoli e l’intero: è una “persona totale”, una vera e propria personalità integrale. 

Nel linguaggio ordinario, il termine genio si applica alle persone che dimostrano doti di qualità (principalmente nell’arte o nella scienza), che sono cioè di gran lunga superiori agli individui ordinari. In persone di questo tipo si manifesta qualcosa di più di un singolo individuo: è lo spirito generalizzato, una personalità integrale, che include nella sua interezza quelle proprietà che sono distribuite con intensità e concentrazione molto inferiori tra la gente comune. Un genio, in questo senso, è una specie di “uomo universale”. È in questi termini che si può comprendere il carattere antropomorfico nell’immagine dell’intero gruppo del genius loci.

L’etimologia della seconda componente di questa espressione, locus, risale allo *stel- indoeuropeo, all’origine del tedesco Stelle, “luogo”, dello slavo stьlati, “sdraiarsi”, del greco στέλλω, “preparo”, “invio”. Il locus latino è stato formato da questa base indoeuropea attraverso l’antica forma romana di stlokos con una riduzione della s iniziale. L’idea principale della radice indoeuropea è ridotta al punto culminante: la preparazione del luogo per qualcosa. Il locus, in questo caso, è lo spazio inteso come qualcosa di significativo e distinto, come una sorta di struttura – o protostruttura – che serve a collocare qualcosa al suo stesso interno; una dimensione semanticamente ordinata, intera.

Pertanto, nell’espressione genius loci ci si riferisce a uno spazio allocato specifico, che ha la sua logica e semantica, in cui si trova (dimora) uno speciale soggetto generalizzato (principio generico, genio come quintessenza di gens).

La presenza di oggetti rituali di sacrificio in un luogo così designato – la fiala e la cornucopia – sottolinea contemporaneamente la proprietà del genio come una presenza concentrata, sacra, speciale, e la proprietà del locus come territorio distinto – anch’esso sacro. Non ogni spazio è infatti locus. Per diventare tale, è necessario “preparare”, “arredare”, “disporre” questo territorio, dargli cioè lo status di una struttura caratterizzata da un orientamento, un significato e una logica. Solo in questo caso, in uno spazio a tal punto sacro, lo spirito (il genius) si fa sentire, come un’entità soggettiva generalizzante, a sua volta semanticamente carica.

Nel complesso, sarebbe corretto interpretare l’espressione “genius loci” come una dimensione integrale, e trarre il significato di entrambe le parole che la compongono dalla sua intera semantica. In questa prospettiva, il locus diventa se stesso alla presenza del genius, e viceversa – il genius si rivela solo nel contesto del locus; entrambi i concetti si spiegano e si affermano semanticamente, nella loro relazione reciproca.

Feudalesimo degli spiriti

La religione romana, in virtù del suo orientamento politico e del centralismo imperiale, ordinò, sotto l’imperatore Augusto, il culto dei genii loci, collegandolo a varie parti dello Stato e ribattezzandoli genii Augusti, cioè soggiogando i luoghi alla sacra volontà del divino imperatore. Quindi l’imperatore stesso divenne lo spirito del luogo e l’intero Impero in quanto tale costituiva il locus per eccellenza. Questa identificazione di un culto religioso con la politica è molto importante, perché nella società romana quest’ultima manifesta con evidenza la propria importanza, rimasta invece maggiormente implicita nelle culture più arcaiche. 

Per definire il culto degli spiriti-padroni tra i popoli dell’Eurasia nord-orientale (Türks, chi fanno parte degli Altaici, Finno-Ugriani, chi fanno parte degli Urali, e dei Paleo-asiatici) l’etnologo Lot-Falk[i]usò il termine “feudalesimo eurasiatico”, con l’intenzione di enfatizzare la convinzione delle popolazioni di questo spazio che l’intero territorio sia diviso in zone, ognuna delle quali ha il suo “padrone” (o “signore”). Nello spazio dell’Eurasia nord-orientale era radicata l’idea che qualsiasi spazio (foreste, steppe, montagne, fiumi, torrenti, ecc.) abbia il suo “padrone”; in questa prospettiva, il mondo naturale è un Impero feudale: qui ogni feudo e tutte le cose a esso collegate (piante, animali, persone, ecc.) sono sotto la giurisdizione di una o un’altra entità spirituale. Tra gli spiriti delle foreste, valli, montagne, fiumi, paludi, ecc. esiste una sorta di gerarchia, in parte simile al sistema feudale.


 

Questa distribuzione di territori tra gli spiriti è concettualizzata come un sistema di dipendenza di tipo vassallatico – gli spiriti inferiori dipendono da quelli superiori. Inoltre, l’idea del Signore dei Cieli, Tengri, e del Signore degli Inferi, Erlik Khan, rende l’intera gerarchia doppia, e simbolicamente può essere espressa da due triangoli: uno ha il vertice rivolto in alto, l’altro in basso. 


 

Si scopre una sovrapposizione dei due imperi degli spiriti padroni. La leggenda turco-mongola narra della caduta di Erlik Khan dal cielo: in quel momento gli spiriti che lo seguono cadono sulla terra nei diversi luoghi (foreste, case, fiumi, ecc.), trasformandosi negli spiriti padroni della terra e degli inferi. Gli spiriti celesti si dividono invece le regioni del cielo e dell’aria. Qualsiasi zona dello spazio, quindi, appartiene a qualcuno, e questo “qualcuno” lo tiene in suo possesso. Il luogo diventa propio (eigene – in tedesco, che significa “proprio” e “autentico”) quando viene rivelato il suo proprietario, lo spirito maestro.

Lot-Falk richiama l’attenzione sul fatto che il nome dello spirito padrone nella lingua turca e in quella mongola, così come tra Cheremisi, Evenki e Russi, rimane sostanzialmente invariato e in qualche modo in sintonia con le variazioni rispetto alla radice della lingua dei Mongoli äjä – dei Buryati ižin, ižen, iyin, äzän, äcän, äzi,  dei Kalmyki edzen, ezen, ezn, dei Manjuri ejen, ezen, ecen, dei Tungusi eden, ejen, ädian, ežan, dei Turki Antichi idi, dei Yakuti ičči, dei Cheremisi iyaoza, ecc. Secondo Fasmer, la parola russa “khozyaïn” è presa in prestito dal lingua dei Chuvashi χоźа, χuźа (padrone), tataro χоǯа (insegnante, maestro, vecchio), che si riferisce ancora alla stessa radice. Pertanto, la parola “padrone” nel significato di "maestro spirituale", che da parte nostra abbiamo impiegato nel concetto di “padrone eidetico”, è un termine fondamentale della società ecumenica eurasiatica e risulta facilmente comprensibile ai suoi abitanti.

La connessione con l’area culturale turco-mongola ci suggerisce la base nomade di questo concetto di proprietà terriera. Ciò è confermato anche dall’etimologia della parola latina feudum, “feudo”, la terra data dal signore supremo al suo vassallo. È formato dal fehu germanico (gregge, pecora) e ulteriormente dal *peku- proto-indoeuropeo (bovini, ovini), che indica chiaramente l’origine etimologica del termine, connessa all’allevamento. Proprio come un pastore governa un branco di creature viventi, così lo spirito maestro controlla lo spazio vivente e mobile che gli è stato dato dal suo spirito sovrano.

Possiamo ora svolgere un’importante osservazione etnosociologica. Il concetto di “spirito padrone” si trova in Eurasia sia tra i nomadi, nelle società di cacciatori e raccoglitori arcaici (per esempio gli Evenki), sia tra i contadini. Se prendiamo solo cacciatori, raccoglitori e agricoltori, vedremo che la stratificazione sociale in queste società è insignificante e che non esiste un sistema feudale in senso pieno. Allo stesso tempo, la comprensione dello spazio come territorio con il proprio proprietario, al contrario, è un motivo costante di tali società. Pertanto, in questo caso abbiamo a che fare con il feudalesimo degli spiriti, con l'Impero dei spiriti padroni che controllano diversi topoi – naturali e culturali (per i cacciatori-raccoglitori, non esiste infatti differenza alcuna tra natura e cultura). Nel mondo di queste società arcaiche il sistema socio-politico verticale propriamente detto è fondamentalmente assente, ma nella comreenzione della natura, del mondo la stessa vericalitá è nondimenno presente. L’istituzione della proprietà acquisisce in questo caso il suo significato originale: diventa segno di essere sotto il potere dello spirito, esistento como il locus, come spazio dell’epifania. Le persone si trovano all’interno dell’Impero spirituale, interagendo con le sue gerarchie – offrendo doni, osservando le regole e le leggi spirituali, pagando tasse sotto forma di sacrifici, e così via.

Uno vero Stato o un proto-Stato sorge nel momento quando i nomadi conquistano e sottomettono le società sedentare, anche le società di cacciatori-raccoglitori. In questo caso, feudalismo degli spiriti si transforma in feudalismo normale, ordinario e lo strato aristocratico di guerrieri nomadi diventa l’espressione visibile degli spiriti padroni. Da ora in poi, i sacrifici (tributi, tasse) sono rivolti a persone reale – membri dell’élite; è l’élite che distribuisce terre e possedimenti. Ma nella coscienza degli strati arcaici nomadi, l’élite che ha preso il posto degli spiriti padroni continua a essere sacra; è in questo modo che si è costruito il sistema delle caste: attribuendo alle caste superiori proprietà spirituali e talvolta divine.

I romani diedero a questa versione arcaica un’espressione legale, identificando la “divinità più elevata” dello spazio – cioè l’Impero – con l’imperatore, a cui obbedivano tutti gli spiriti del luogo.

Allo stesso tempo, la gerarchia degli spiriti del luogo poteva estendersi sino a divisioni più piccole – le abitazioni separate erano, ad esempio, sotto l’egida di lares o penates. Per i lari c’erano santuari speciali – il larario. Il sacerdote di questo culto era il capo della famiglia romana (pater familias). Il livello successivo è stato il lare sacrificale (lares compitales), in cui diverse famiglie unite in un quartiere (vicus) portavano sacrifici. Altari dedicati ai lari o agli spiriti del luogo dovevano essere presenti nei granai (horreum). Allo stesso tempo, esisteva una sorta di continuum ontologico tra gli spiriti del luogo e le “divinità” superiori: le divinità romane erano considerate spiriti di alto livello, a cui erano subordinati gli spiriti minori – ecco come la struttura del mondo spirituale riproduceva l’ordine politico romano.

Impero eidetico

Nella tradizione greca, l’analogo diretto del genius loci era il concetto di daimon (δαίμων), che indicava divinità inferiori che ascendevano continuamente a divinità gerarchicamente superiori, chiamate “dèi” (θεοί).

I neoplatonici (Giamblico, Proclo, Damascio, fra gli altri) costruirono sulla base delle credenze religiose greco-romane una teoria universale di divinità e demoni, incorporata nel paradigma platonico di idee, fenomeni e spazio. I tre princìpi del mondo nel dialogo di Timeo sono: 

1.    idee/paradigmi; 

2.    immagini/copie/fenomeni; 

3.    spazio/χώρα. 

È importante qui sottolineare che il terzo principio, analogo del concetto aristotelico di “materia” (ὕλη), sia precisamente χώρα (spazio), che può essere correlato al locus latino. Questo ci permette di comprendere la struttura dell’ontologia neoplatonica: l’essere e il divenire si trovano entrambi in un luogo (χώρα, locus) – hanno cioè natura spaziale. Lo spazio è il supporto della loro manifestazione. Ma questo è il livello più bassa della realtà. Contiene un fenomeno, cioè qualcosa dotato di vita, forma, forza, potere e, al limite, coscienza. Insomma, un luogo è sempre un luogo per qualcosa. 

Il grammatico e commentatore romano Servio Matio Onorato, commentando nel IV secolo d.C. l’opera di Virgilio ha scritto, con piglio neoplatonico: «Nullus enim locus sine genio est»[ii].

Ossia: non c’è un luogo che non abbia uno spirito (genius), oppure: non c’è luogo senza uno spirito, o, ancora più radicalmente: se non vi è spirito, non vi è luogo.

L’idea del luogo come “un ente che contiene qualcosa” è ancora più approfondita in Aristotele. Egli rifiuta la χώρα platonica che, nella sua interpretazione, può esistere indipendentemente dal fatto che sia vuota o piena[iii] (tuttavia, lo stesso Platone nel Timeo, non è così chiaro nel definire la nozione di χώρα), introducendo invece il concetto di topos (τόπος), fondamentale per la sua filosofia. Soltanto che, al posto dello “spirito[iv]”, Aristotele pone una cosa, cioè un fenomeno (φαινόμενον). 

Per i neo-platonici, l’enfasi cade sull’effettiva presenza delle idee nelle cose: è per loro possibile identificare l’eidos di una cosa, la sua essenza e il suo daimon. E poi i demoni delle cose (cioè dei luoghi) si riuniscono in gerarchie “feudali”, fino alle divinità superiori in cui è racchiuso il Logos del mondo, l’imperatore eidetico, Νοῦς. Pertanto, il “luogo” come locus è inizialmente un concetto piuttosto complicato: sia la presenza di una cosa che la presenza del suo spirito sono concentrate in esso. Inoltre, tale locus è una struttura complessa, in cui la presenza stessa è espressione di una dialettica del “esser-ci” (Dasein) piuttosto articolata. L’intera struttura del locus è espressa con i suoi orientamenti, opposizioni, gerarchie e proporzioni. Pertanto, il genius dovrebbe essere inteso come un complesso olistico e non come qualcosa di semplice e monotonico. La sua presenza è sempre multidimensionale, multivalente e dialettica. Questo è il motivo per cui gli spiriti di un luogo possono comportarsi in modo imprevedibile, rappresentando sia opportunità che pericoli, aggiungendo e sottraendo, guadagnando e perdendo, al limite tra la vita e la morte.

Nel Sofista Platone, attraverso le parole dello “Straniero”, dà questa definizione dell’esistente: “Io affermo dunque che qualunque cosa possiede in sé una forza sia per poter influire su un’altra cosa, quale che sia per natura, o anche da essere influenzata, sia pur un minimo, da un fattore di nessun conto, anche se soltanto per una volta, tutto questo è realmente. Intendo così delimitare il concetto di essere dicendo che esso null’altro è se non potenza»[v].

Platone cita queste tesi per corroborare la posizione dei sostenitori dell’esistenza delle idee (cioè gli stessi platonici) nella loro disputa con i materialisti secondo cui a esistere sono solo le cose. Platone paragona questa discussione, di carattere filosofico, alla gigantomachia combattuto tra gli dèi e i titani: è una battaglia per la definizione di ciò che esiste. E per i sostenitori delle idee, è ciò che è potenza (δύναμις) a essere riconosciuto come esistente. La potenza si manifesta non solo nell’azione (ποιεῖν), ma anche nella sofferenza (πάσχειν). Platone lo sottolinea fortemente. Questa potenza è ciò che è presente nel luogo (locus), che è lo spirito del luogo o il suo potere. Δαίμων è δύναμις, ma allo stesso tempo è ciò che è (τὰ ὄντα) – la definizione del essere come presenza. Esiste solo quanto è dotato di potenza – ossia di capacità di agire o di soffrire. E quindi, un luogo non è mai vuoto (di nuovo: Nullus enim locus sine genio est), dal momento che un posto del genere sarebbe completamente impotente, non potrebbe né agire né subire azioni, e ciò significa che, secondo Platone, non sarebbe affatto, non sarebbe un “luogo reale”. Un luogo autentico, infatti, rende ciò che è in esso uno spirito, una forza, una presenza

A poco a poco il concetto di genius loci assume un contenuto sempre più filosofico e ontologico.

Concetto di Κλῆρος

Nella prima parte del suo Commento al Timeo, Proclo discute della struttura sacra dello spazio. Egli riflette sul seguente punto: perché in alcuni miti e leggende si dice che una città fu data in eredità (κλῆρος) a un dio, ad esempio ad Atena, e poi ad Atena fu data un’altra eredità (ad esempio Sais, dove, secondo Platone, è stata venerata come Iside) e l’eredità precedente è stata trasferita a un altro dio. Proclo pone la domanda: in che modo il concetto di κλῆρος (eredità) si collega al luogo, allo spazio? Questo nesso gli fornisce la base per lo sviluppo di un modello eidetico finalizzato a comprendere la struttura delle divinità dei luoghi. Tutti i punti dello spazio, tutti i suoi luoghi, sono distribuiti, stando a Proclo, tra vari esseri spirituali, cui sono stati dati in eredità. Lo spazio del mondo nel suo insieme è un velo continuo pervaso dai destini degli dèi e di altre entità superiori. Allo stesso tempo, alcuni luoghi venivano assegnati a divinità e spiriti inferiori, altri a quelli superiori – principalmente olimpici. Tutti i luoghi sono distribuiti lungo le scale della gerarchia eidetica, che ha il suo apice nei mondi degli dèi e delle idee.

Secondo Proclo, questa gerarchia è approssimativamente la seguente: un dio “corrisponde” a cento angeli (ἄγγελος), un angelo (ἄγγελος) a cento demoni (δαίμων), un demone (δαίμων) a cento uomini. Si scopre che esiste una piramide divina verticale che converge alle idee di luce che sono nella Mente Infinita, νοὺς, su cui governa il principio apofatico, l’Uno. È all’Uno che i “getti” dell’assoluto salgono gerarchicamente e da esso procedono, raggiungendo il livello ontologico e cosmologico più basso, che è lo spazio, il luogo. Il punto più basso nello spazio è attribuito a uno dei demoni – questi sono numerosi: il demone della foresta, della valle, delle montagne, del villaggio, della tribù, e così via. I demoni possono avere spiriti subordinati (se stiamo parlando di luoghi “selvaggi” naturali), ma possono anche essere legati a persone (che compongono collettivamente l’epifania del demone). Il daimon (δαίμων) sovrintende a luoghi e territori ordinari, mentre agli dèi sono attribuiti come κλῆρος alcuni luoghi specifici e selezionati, in cui vengono costruiti templi, capitali e grandi centri spirituali.

Proclo inizia a discutere le ragioni e modalità per cui a un dio che è eterno venga assegnato (κλῆρος) un luogo transitorio – come correlare l’eternità di dio con la temporalità e mutevolezza del mondo sublunare? Giunge così alla tesi per cui in realtà ci sono due ordini di luoghi, due topoi. Un luogo è dato a questo o quel dio, a questa o quell’essenza spirituale, a questo o quell’angelo o demone – per sempre. Ma questo stesso luogo può avere un suo essere temporaneo. Pertanto qualsiasi topos (località, paese, continente) può essere considerato da due punti di vista: come una porzione permanente (κλῆρος) di un’essenza spirituale o come qualcosa che cambia, passando da un maestro, “padrone”, a un altro. Non c’è luogo che non possa essere patrocinato da un demone, un angelo o persino un dio. Di conseguenza, tutti i luoghi hanno “maestri eidetici”, ma questi luoghi esistono in relazione ai loro “maestri eidetici” secondo due diverse modalità. Possono essere aperti ai loro padroni, cioè esprimere, manifestare, scoprire Dio (angelo, demone), servire come spazio della sua epifania, ma è anche possibile che, al contrario, non la esprimano, né manifestino. Da ciò segue l’idea di una falsa esistenza di un luogo. Ψεῦδος, falso, significa anche occultamento, chiusura (Bergung). Le bugie sono l’opposto della verità, ἀλήθεια, che Heidegger interpreta come scoperta e apertura. Applicato a un luogo, questo paradigma permette di distinguere un luogo falso da un luogo vero. Eppure, entrambi i luoghi – falso e vero – sono al contempo lo stesso posto.

È allora importante comprendere cosa significano verità (apertura) e falsità (occultamento) di un luogo. L’apertura è l’espressione del luogo nella sua essenza eidetica. L’occultamento è invece il rifiuto di esprimere questa essenza, il suo velo, il suo occultamento, nella misura in cui la sua essenza si trasforma in un tesoro sepolto. L’essenza del luogo è la sua esistenza come sigillo o ultima frontiera di ciò che Proclo chiamava “l’Esodo” (πρόοδος). Un raggio eidetico emana dal mondo dei princìpi (Mente Infinita) e scende sempre più in basso fino a raggiungere il punto più basso possibile, proprio al confine con la materia. Questo punto è il luogo, come la sezione più bassa del raggio proveniente dal cielo. L’essenza del luogo è la sua affiliazione verticale. Questa affiliazione verticale costituisce il “maestro eidetico”, il cui destino è il luogo. Quando un luogo rivela il suo “maestro eidetico”, quando lo scopre, si pone come un luogo vero ed esiste autenticamente. Se il luogo è aperto, risvegliato, allora in esso Dio, l’angelo, o il daimon, si mostra con chiarezza. Questo è il luogo dell’epifania. Se, invece, è chiuso, allora il “maestro eidetico” si nasconde, volta le spalle, si occulta. Questo è il luogo dell’apofania. Ogni luogo è allo stesso tempo un luogo di epifania e apofania, manifestazione e occultamento. Uno stesso luogo può così essere vero e falso. Lo stesso luogo può essere un’espressione di se stesso e del proprio contrario. Questa posizione è molto vicina a quella formulata da Heidegger, specialmente rispetto alla sua comprensione del Dasein (esserci), che può esistere in modo autentico e non autentico. Qualsiasi punto nello spazio, secondo Proclo, è κλῆρος, cioè il limite dell’origine (πρόοδος) e, allo stesso tempo, una manifestazione di un’essenza spirituale di un ordine più o meno elevato.

Per i neoplatonici, il tema dell’origine, πρόοδος, era strettamente legato al tema del ritorno, ὲπιστροφή. Un luogo è il limite dell’esodo (discesa), e quindi il punto in cui inizia il ritorno (salita). L’esodo, diventando evidente, cioè rivelando la presenza di un “maestro eidetico”, spinge per il ritorno. Questo è il destino del luogo, la sua destinazione, il suo significato e la sua missione. L’asse eidetico verticale che poggia su un luogo è il momento stesso che lo costituisce. Il risveglio di un luogo (κλῆρος) significa il suo orientamento verso il ritorno; un luogo vero, esistenzialmente autentico, non solo ricorda il ritorno, ma lo invoca. Il luogo falso, al contrario, incarna la procrastinazione, ritardando il ritorno (ὲπιστροφή) e, al limite, costituendone un ostacolo. Un luogo in-esistentemente esistente cattura, congela, rende pietrificati. Non mostra nulla, non segnala nulla, non vive e non consente di vivere. È un ostacolo, poiché fa dimenticare il ritorno; il suo “maestro eidetico” continua a irradiare il potere della discesa, πρόοδος, anche quando raggiunge logicamente il limite.

Questo genera l’inerzia di scendere al di sotto della linea stabilita, una misura della quale è la presenza stessa dello spazio, il luogo stesso. Ma poiché non esiste un sentiero ancor più inferiore, il potere della discesa preme il luogo in se stesso, lo dota di gravità, una pesantezza derivante dall’espulsione creativa dei raggi eidetici dalla Mente Infinita. Questi raggi si raffreddano e sbiadiscono raggiungendo la linea limite. Incapace di penetrare al di sotto di questo limite, purtuttavia continuano a cercare di superarlo, trasformando il luogo dal punto di inizio del ritorno al punto di ritardo – noch nicht, non ancora. Questa è la dialettica interiore dello spazio.

La teoria neoplatonica della geografia eidetica conferma a sua volta la mappatura esistenziale di un sistema filosofico profondo.

Spiriti elementali

Lo sviluppo dell’idea degli spiriti maestri, ai quali i luoghi sono assegnati come eredità (κλῆρος), riemerge nel XVI secolo con il dottore e alchimista Paracelso[vi]. Sulla base del modello dei quattro elementi tradizionali diffuso nell’antichità e accettato dalla cosmologia medievale, Paracelso propose la teoria di quattro tipi di spiriti, ciascuno dei quali è lo spirito del luogo (genius loci), ma solo con riferimento agli elementi. Quindi, Paracelso afferma che i nani sono gli elementi della Terra, le ondine gli elementi dell’Acqua, le silfidi gli elementi dell’Aria, le salamandre, infine, gli spiriti dominatori del Fuoco. Li descrive come creature antropomorfe e razionali, che differiscono dalle persone per la densità dei corpi e l’assenza di un’anima immortale. Le creature degli elementi (elementali) formano una società, ma non costituiscono una chiesa.

Paracelso afferma che gli spiriti degli elementi hanno abiti speciali e sono distribuiti per professione, tra i quali elenca guardie, giudici, magistrati e sovrani.

Paracelso afferma che ogni tipo di profumo si muove liberamente attraverso il suo elemento, come le persone attraverso l’aria. Pertanto, le persone sono più vicine alle silfidi. Gli gnomi che vivono sulla terra sono più densi degli umani e più corti. Allo stesso tempo si muovono liberamente attraverso oggetti solidi e pietre. I nani sono in grado di vedere il sole attraverso la terra, come le persone attraverso l’aria. Essi respirano la terra. Le creature acquatiche, invece, respirano l’acqua come i pesci, non sono dense come gli gnomi, ma più degli umani. Le silfidi, come gli umani, vivono nell’aria, ma sono più sottili degli umani. E infine, le salamandre vivono nell’elemento del fuoco, che respirano. Allo stesso tempo, il sole brilla sempre per le salamandre sia di notte che di giorno, poiché sono più vicine ad esso e il sole ravviva e fertilizza il loro elemento. Paracelso parla di salamandre come sottili creature allungate. Le loro grida possono essere ascoltate nel vulcano Etna, sostiene Paracelso.

Le persone possono comunicare con gli spiriti maestri degli elementi e persino dare alla luce bambini con loro. Secondo Paracelso, questi spiriti elementali diventeranno persone reali solo alla fine dei tempi, mentre nel tempo presente sono costretti a rimanere mostri, a metà tra la sfera umana e quella animale.

Se correliamo queste idee di Paracelso con il concetto base di genius loci, allora possiamo individuarne quattro tipologie, in base al numero di elementi e agli spiriti ospiti che abitano il luogo. Quindi quattro tipi di luoghi possono essere descritti con l’aiuto di quattro elementi di diversa densità – in base al grado di fuoco, aria, acqua, terra. Ogni tipo di locus corrisponde così a un tipo geniale. Tutti i maestri elementali possono essere inoltre rappresentati da un serpente: il serpente ordinario corrisponde alla Terra, l’anguilla all’Acqua, il drago all’Aria, un serpente infuocato al Fuoco.

Le idee più sviluppate in varie tradizioni sacre riguardano spiriti ospiti ctonii, corrispondenti al genius loci della tipologia degli gnomi. Nell’Europa orientale, questi spiriti-padroni includono lüdérc (altri nomi – iglits o iglicpyritus o piritusz), mit-mitke (o mit-mitke), maniokiterpeki dei Ungheresi; spiridusci e brechnele dei Rumeni; kaukas (o kaukas) e barzdukas (o barzdukas) tra le nazioni baltiche;  kuigoroji (dal "kui" -- letteralmente "serpente" e "goroj" - letteralmente "gufo" nella lingua dei Moksha) nella mitologia ugro-finlandese, che è semanticamente vicino al kuykӑrӑshe tra i turchi Chuvash e al bisyur dei Tatari di Volga (anche vicino al bosorkany dei Ungherese).

Nel folklore baltico, l’immagine dei kaukas, gli spiriti della Terra, è rappresentata con colori vividi. Possiamo trovare kaukas sulla strada (molto spesso all’incrocio delle vie) sotto forma di un pollo nero, ma anche per caso nella tasca di una vecchia giacca. Kaukas puo essere comprato (nelle cittá), trovato negli stracci, ma può anche essere coltivato. Per fare questo, bisogna prendere i nuclei del cinghiale e mettrerli sotto la soglia, costringendoli a schiudere un gallo nero. 

Il filosofo strutturalista, esperto di folklore baltico, Algirdas Greimas ha scritto di un caso tipico della tradizione del Caucaso: «Il figlio di re Draus, cercando invano di imparare a scolpire figure di persone e animali, un giorno notò come qualcosa cominciò a mescolare in un pezzo di argilla, da cui voleva modellare un gruppo di animali predatori, e alla fine si sono manifestato i kaukas nati dall’argilla con loro re, chi, inchinandosi in basso al figlio reale, scomparve immediatamente»[vii].

Nel folklore baltico, l’immagine di altri spiriti, che ricordano piuttosto le salamandre, è estremamente popolare. Questi sono gli aitvars, spiriti come serpenti o draghi, associati al fuoco (scintille, fuochi) e al denaro. Gli aitvars possono anche essere allevati, come i kauskas, e possono nascere dalle uova di un gallo nero. Gli aitvars potevano anche concludere accordi con le persone, ma in questo caso il primo segnale di comunicazione era apparizione della scintilla piccola. Se la gente rispondeva a questa “offerta” degli aitvars e lasciava a loro del cibo, la relazione si sviluppava. Gli A aitvars prendevano solo cibi fritti o bolliti – solitamente di carne. In cambio, proteggevano la casa dal fuoco e portavano denaro. In alcuni casi, permettevano di trovare tesori o aiutavano le persone a restituire il denaro preso in prestito – che, di solito, era considerato un disastro, poiché il suo accumulo eccessivo portava a conseguenze davvero devastanti per l’intera comunità. Gli aitvars erano poi talvolta rappresentati come luci erranti o come lo spirito dell’oro stesso, il suo stato liquido liberato.

Nel caso degli aitvars (così come dei kaukas), si dovrebbe prestare attenzione al fatto che le persone rivolgono loro sacrifici dando loro cibo. Questo ci rimanda ancora al complesso genius loci, dove vediamo la fiala e la cornucopia, cioè strumenti per l’alimentazione della vittima. Allo stesso tempo, agli aitvars e kaukas vengono sacrificati sia il liquido (latte), che corrisponde alla fiala e alla patera, sia il cibo solido, che può essere correlato alla cornucopia.

Ermeneutica di un’entità di gruppo: il sacrificio di Enea

Ritornando al gruppo che tradizionalmente rappresentava lo spirito del luogo (genius loci), figurazione classica per la tradizione spirituale romana, potremmo chiederci: chi è esattamente lo spirito (genius)? É la figura antropomorfa che compie il sacrificio (libagione) o il serpente?

Virgilio, nel Quinto libro dell'Eneide, descrive il sacrificio di Enea a suo padre Anchise, dove il serpente prende la vittima, e lo stesso Virgilio non sembra sapere se in questo caso ad apparire fosse lo spirito del luogo o qualche assistente di Anchise, che veniva da Ade.

 

Mentre così dicea, di sotto al cavo
De l’alto avello un gran lubrico serpe
Uscio placidamente; e sette volte
Con sette giri al tumulo s’avvolse.
Indi, strisciando infra gli altari e i vasi,
Le vivande lambendo, in dolce guisa,
Con le cerulee sue squamose terga
Sen gio divincolando, e quasi un’Iri
A sole avverso scintillò d’intorno
Mille vari color di luce e d’oro.
Stupissi Enea di cotal vista; e l’angue
Di lungo tratto infra le mense e l’are,
Ond’era uscito alfin si ricondusse.
Rinnovellò gl’incominciati onori
Il frigio duce, del serpente incerto,
Se del loco era il genio, o pur del padre
Sergente o messo. E com’era uso antico,
Cinque pecore elette e cinque porci,
Con cinque di morello il tergo aspersi
Grassi giovenchi anzi a la tomba occise,
Nuove tazze versando, e nuovamente
Fin d’Acheronte richiamando il nome
E l’anima d’Anchise[viii].

 

Questo passo è significativo. In esso vediamo infatti la stessa immagine della composizione del genius loci, con una particolare enfatizzazione del rito della libagione[ix] (da qui la fiala e la patera), nonché il serpente come genius loci stesso. La sacralità del luogo è enfatizzata dall'importanza della tomba del padre di Enea, di cui si evoca lo spirito. Forse le funzioni della cornucopia sono svolte da fiori (purpureosque iacit flores), che nelle immagini classiche sono spesso raffigurati come cadenti dalla cornucopia, insieme ai frutti. In questo caso, lo spirito del luogo è rappresentato quindi da un serpente e la figura antropomorfa (qui Enea, l’eroe paradigmatico e padre fondatore dei romani, proto-imperatore) è colui che è venuto nel luogo sacro, cioè un estraneo che entra in contatto con lo spirito del luogo attraverso un rito sacro, fatto di sacrifici e libagioni. E in questo luogo, il ruolo gerarchico rivestito da Enea è chiaro: egli viene alla tomba di suo padre, a cui si rivolge per consigli e benedizioni, prima di andare in Italia. Ossia: è lo spirito del luogo ad essere nella posizione di anzianità. È una potenza sacra al quale l’eroe si rivolge e porta sacrifici.

Se consideriamo la figura del serpente come lo spirito del luogo, allora possiamo correlare ad esso il corno. Esso simboleggiava quello spezzato, secondo il mito greco, da Zeus bambino alla capra Amaltea, che lo nutriva nella sua infanzia trascorsa a Creta. Il corno simboleggia anche la forza e il potere, molto spesso nella sua dimensione ctonia, che è abbastanza coerente con il luogo stesso, il locus, in quanto terza e più bassa sezione dell’ontologia e cosmologia platonica. Secondo questa interpretazione, lo spirito di un luogo è allora l’esistenza stessa di un luogo in cui il soggetto, antropomorficamente rappresentato, accede. E il sacrificio è l’asse principale della relazione del soggetto con il luogo in quanto tale: compiere un atto sacro, un sacrificio appunto, è il primo passaggio fondamentale di questa relazione. E i lari, i penati e le divinità superiori hanno la stessa struttura: arrivando a loro, volgendosi a loro, una persona compie un sacrificio, trasmette alla potenzadel luogo quanto sacrifica, dona, ciò di cui si priva.

Qualcosa di molto importante è radicato in questo passaggio. L’interazione di una persona con lo spirito di un luogo è infatti completamente diversa dall’interazione tra due persone. Due persone sono pensate come soggetti, cioè come coloro che possono venire in qualche luogo. I rapporti fra di loro si sviluppano come quelli tra viaggiatori in movimento, i cui percorsi si possono incrociare così come andare in parallelo. Pertanto, non apportano sacrifici l’uno all’altro (se non consideriamo ora la pratica della riverenza o della preghiera per persona nella setta dei khlysti russi). Più precisamente, il rapporto tra uomo e uomo è molto ampio, non si riduce all’atto del sacrificio, come invece il rapporto con lo spirito del luogo. Diversamente, la soggettività dello spirito del luogo risulta più rigida e fissa. Lo spirito è al suo posto, ma la persona che viene in quel posto non lo è. Pertanto, una persona è mobile, dinamica e plastica, ma non offre spazio allo spirito. In un certo senso è morta, ma non come qualcosa d’inesistente, bensì in quanto ente vincolato a uno stato d’immobilità, che nel contempo preserva la sua potenza – il suo poter agire e soffrire. Quindi, le società arcaiche comprendono la morte: questa è la transizione della vita a una fase statica speciale, che porta in sè la possibilità di una nuova rivelazione, esplosione, fioritura, di una nuova vita. Nella tradizione cristiana, la risurrezione attende il corpo nel cimitero. Nelle società arcaiche, il cimitero è un vortice di vita e la tomba è sinonimo di grembo materno. Lo spirito del luogo incarna allora questa autorità: è il punto di transizione, la porta tra la vita e la morte. 

Da qui l’immagine del serpente, strettamente associata all’area della terra e della morte. Pertanto, nello spirito del luogo una persona entra in contatto non solo con una forma di vita più passiva e calma rispetto a quella umana, ma con la potenza (δύναμις), che è al contempo più e meno potente di un individuo. È più debole in quanto è immobile, ma più forte in quanto ha già raggiunto il suo obiettivo, mentre una persona si sta ancora muovendo verso di esso. E quindi lo spirito del luogo è in grado di esercitare un’influenza speciale su una persona: più debole rispetto all'influenza di un’altra persona, a causa della rigidità della sua δύναμις, ma, allo stesso tempo, più forte, poiché capace di influenzarne i livelli più profondi. 

Lo spirito del luogo è una specie di telos (τέλος), che colpisce una persona dal futuro, da quel momento in cui la persona stessa non sarà più o sarà completamente diversa. Da qui la necessità di sacrificio allo spirito del luogo. È nell’atto del sacrificio allo spirito del luogo che si manifesta la massima concentrazione della devozione: questo sacrificio tocca il fondamento della religione, l’atto di ingresso nella regione sacra, che proprio da questo luogo sale o scende nelle profondità dell’asse verticale del mondo. Lo spirito del luogo, quindi, è anche un soggetto, ma diverso dal soggetto umano – è più fondamentale, ontologico e potente. Sebbene allo stesso tempo meno mobile, leggero e disordinato, meno caotico.

Il concetto stesso di χάος (caos) era originariamente correlato da un punto di vista etimologico allo spazio vuoto. Il caos è infatti uno spazio vuoto tra cielo e terra. È uno stato condizionale dello spazio, fino a quando non è diventato un luogo, cioè un luogo per lo spirito. Pertanto, gli spiriti del luogo sono i guardiani del caos, lo organizzano, trasformando il vuoto in pieno, muovendosi in modo statico, insignificativamente significativo. L’uomo è più caotico e irrequieto dello spirito del luogo. Pertanto, si riferisce allo spirito del luogo come al suo centro, come ciò a cui si aspira.

La speciale soggettività della presenza della potenza nello spirito del luogo ci consente di interpretare diversamente il gruppo di figure simboliche della tradizione religiosa romana. La creatura antropomorfa con oggetti rituali può infatti scambiare identità con il serpente. Nell’atto di sacrificare allo spirito del luogo (così come ai lari, ai penati e agli dèi), ha luogo una sorta di scambio di identità. Nel caso più estremo e contrastante, si parla di ossessione. Quindi lo spirito del luogo stesso diventa una creatura antropomorfa, acquisisce così mobilità cinetica e leggerezza, le peculiarità dell’uomo, mentre la persona risulta piena di una forte presenza statica, che gli dà accesso a livelli più profondi dell’essere. L'uomo diventa un serpente in modo che il serpente diventi uomo. Questa è la chiave per comprendere il simbolismo delle figure teromorfiche e degli animali antromorfici – si pensi agli angeli, con attributi propri degli uccelli. 

Lo spirito del luogo non è allora né il serpente né l'uomo che offre un sacrificio. Il genius loci è la relazione di entrambi che accade in un luogo. Lo spirito del luogo richiede un sacrificante per esistere. La sua forza sta nella capacità di esercitare l’azione o di subirla. Questa è, come abbiamo visto nel Sofista di Platone, la definizione stessa di esistenza. Pertanto, lo spirito di un luogo viene alla luce ogni volta che una persona, come lo “Straniero” del Sofista, si rivolge a esso in un rituale sacro. E sebbene lo spirito del luogo sia sempre al suo posto, non si muova, è l’arrivo dell'uomo ad attualizzare la sua esistenza, a segnarne il passaggio da potenza ad atto. 

Il sacrificio ravviva colui al quale viene offerto. Questa è la base della sacra comprensione dell’essere, che è ripetutamente richiamata, in modo spesso brutale, dalle tragedie e dalle commedie greche: gli dèi che, secondo Eraclito, «vivono la morte delle persone», muoiono quando le persone smettono di sacrificare loro. Lo spirito alimenta l’attenzione, fa a lui appello. E poi prende vita e inizia ad agire. Allo stesso tempo, la forma più intensa di risveglio dello spirito è l’atto di ossessione: in esso il sacrificante e colui al quale è rivolto il sacrificio scambiano ruoli, si fondono in una nuova sintesi. Questo è esattamente ciò che sottolinea la struttura del gruppo del genius loci latino, in cui due soggetti (uno umano e uno non umano) e il rituale sacrificale che li collega devono essere presenti in piena forma. Entrambi i poli e la connessione tra loro costituiscono non solo un evento o una scena, ma una specie di essere in cui tutti gli elementi sono indissolubilmente collegati tra loro.

Pan: lo spirito del luogo per eccellenza

Fondamentale, in questo contesto, è il dio Pan (Πάν). In lui riconosciamo tutte le principali caratteristiche simboliche e semantiche dello spirito del luogo. Pan è raffigurato infatti come una creatura terio-antropomorfa con un corpo umano, zampe di capra e corna di toro. In lui l’animale e l’uomo del gruppo del genius loci si fondono integralmente. Allo stesso tempo, Pan viene spesso raffigurato con abbondanza di frutti – frequentemente si tratta di grappoli d’uva. Un atto di ossessione è costantemente associato a Pan; è quello che colpisce una persona in una foresta o, comunque, nella natura selvaggia, tanto che si parla di “attacchi di panico”. Pan è la figura stessa dell’ossessione, del messia. La sua presenza è la cattura da parte dello spirito del luogo di una persona, lo scambio di soggettività con lui. L’immagine di Pan è un modello per la rappresentazione di divinità e spiriti minori (satiri e fauni), che ci rimandano nuovamente alla gerarchia degli spiriti del luogo e all’impero eidetico. È anche vero il contrario: estendendo la linea di Pan verso l'alto, in direzione degli dèi olimpici, si arriva a Dioniso, che era considerato il patrono di Pan e spesso raffigurato come un satiro. Dioniso è lo stesso imperatore eidetico, è anch'egli associato a un atto di ossessione, al sacrificio, al vino e alle libagioni. Il mito ci narra della nascita di Dioniso-Zagreo cornuto, figlio di Persefone e di Ade in forma di serpente.

Nel simbolismo di Pan, il principio maschile gioca un ruolo importante. È espressione del potere maschile per eccellenza. Friedrich Georg Jünger ha scritto sulla figura di Pan: «Inizialmente agisce come iniziatore, come figlio di divinità e ninfe. Nel suo profondo sonno di mezzogiorno, così come in un movimento di veglia, appare come un genitore, un iniziatore»[x].

Qui possiamo ricordare che il concetto stesso di genio è strettamente collegato alla stirpe e alla nascita. Pan, in quanto proprietario di un luogo (selvaggio), è un genitore universale, e non è un caso che nell’etimologia filosofica i Greci, a partire da Omero, abbiano interpretato il nome Πάν come un'indicazione di πᾶν (tutto), il genere neutro dall'agettivo πᾶς. Pan è il genio totale, la potente proto-soggettività sacra del mondo. E il fatto che sia signore di luoghi prevalentemente selvaggi, aggirando i campi, i villaggi e ancora di più la città, indica l’organizzazione originale del locus, quella che ne precede gli strati più superficiali e artificiali. La natura selvaggia appare qui come l’antitesi della civiltà, non della cultura. Pan come un genio universale del luogo è anzi la base della cultura, la sua base sacra, la sua struttura.

La fenomenologia del soggetto noemico

La correlazione dei due poli del gruppo del genius loci ci ha avvicinato a un’analisi fenomenologica. È nella fenomenologia della cultura moderna e specialmente nella teoria del design che il concetto di genius loci è oggi ampiamente utilizzato, ma la nostra analisi sarà in qualche modo diversa da quella generalmente condotta.

La fenomenologia classica esplora l’atto intenzionale dal punto di vista della sua stessa struttura. Nello spirito dell’antropologia e dell’epistemologia della New Age (Tempi Nuovi, ossia il Moderno) si parla della struttura dell’esperienza umana in termini di cognizione o percezione, nonché dell’organizzazione delle strutture della coscienza prelogica. È così che la fenomenologia è stata interpretata dai suoi padri classici: Brentano, Husserl e Heidegger. D’accordo con questo, è possibile, tuttavia, combinare la fenomenologia con alcuni casi psichiatrici, principalmente tratti dalla famiglia della schizofrenia, in cui le strutture dell’atto intenzionale “normale” sono sostanzialmente interrotte. Fenomenologicamente, questo può essere descritto come uno spostamento del centro dell’atto intenzionale verso l’oggetto, cioè il noema. Si può immaginare questo spostamento come un indebolimento della soggettività, dotando l’oggetto dell’atto intenzionale e, di conseguenza, attribuendo a esso alcune caratteristiche del “soggetto”. Almeno è così che la schizofrenia viene interpretata da Deleuze e Guattari. Al limite, si può ottenere la figura di un “soggetto noemico”, che diventa sempre più potente e autonomo man mano che il soggetto ordinario (classico, normale) si indebolisce. In casi clinici, ciò accade come fenomeno di “voce interiore”, “rinascita di oggetti inanimati” o altro, ma il significato rimane lo stesso: ciò che viene generalmente inteso come oggetto, ossia qualcosa di inanimato e completamente subordinato alla coscienza, inizia a ribellarsi, mostrando segni di indipendenza, tracce di mente e volontà, ossia quelle proprietà che vengono solitamente attribuite al soggetto. Allo stesso tempo, il soggetto ordinario perde fiducia in se stesso, accetta la maggiore autonomia del mondo esterno e, al limite di questo processo, finisce col dipendere completamente dal noema, avendo questo acquisito autonomia ontologica ed epistemologica.

Tale processo è magnificamente descritto nel caso dell’ossessione, ossia laddove un’altra soggettività – estranea – si infonde nella creatura. L’attacco di panico è uno dei classici esempi di questo fenomeno.

Anche nel caso del genius loci, nella sua struttura di gruppo, possiamo ricostruire la meccanica di tale processo. Una figura antropomorfa (un donatore, uno straniero, una persona che esegue una cerimonia) rappresenta un soggetto ordinario. Il rituale della vittima è l’atto intenzionale stesso. E il serpente è il noema. L’atto intenzionale, in un contesto profano, non sacro, comporta il controllo completo del soggetto (figura antropomorfa) sullo “spirito del serpente”, che in realtà non è uno spirito né un animale, ma un oggetto che è completamente comprensibile, conosciuto e controllato dalla volontà del soggetto. Pertanto, l’atto intenzionale che collega la persona con il noema è profano e non sacro, mentre il noema stesso è un oggetto semplice, un oggetto dell’atto intenzionale. In quest’ultimo, tutto è prevedibile e controllato. Non c’è spazio per il genius loci, poiché al suo posto c’è una cosa, un oggetto, qualcosa di completamente oggettivo. Così, per i realisti e i materialisti, il polo oggettivo è semplicemente un ente materiale indipendente dal soggetto; per gli idealisti e i fenomenologi la questione è un po’ più sottile, poiché il contenuto della sua presenza, la sua struttura e i suoi significati (senza i quali non si può dire nulla al riguardo) sono completamente costituiti da una struttura propria del soggetto – per i fenomenologi è il processo di un atto intenzionale per il quale non è necessaria una piena soggettività razionale del pensiero logico. Ma in ogni caso, un oggetto materiale o intenzionale è strettamente subordinato alla coscienza. In questo, si differenzia dal soggetto, che è invece una forma di coscienza indipendente o di intenzionalità autonoma. Secondo queste prospettive, la figura del genius loci è semplicemente impossibile e rappresenta un’aberrazione cognitiva, facilmente attribuibile alle vestigia del pensiero arcaico (come sosteneva Lévy-Bruhl, parlando di «partecipazione mistica» come di una forma di pensiero primitivo prelogico). 

Il genius loci appare proprio quando il soggetto si indebolisce, si divide e diventa insicuro di sé. Quando il noema acquisisce forza, persino un’esistenza autonoma e, nel caso estremo, prende vita. Questo è l’atto della nascita del genius loci. Si tratta, precisiamo, di un noema che è diventato soggettivo, ma rimane diverso dai normali soggetti umani. Una persona capisce ancora che questa è una cosa, ma non è più in grado di possederla completamente. E poi il genius loci si presenta da solo, inizia a esistere autonomamente come soggetto. In un certo senso, questo può essere descritto come un momento di ossessione, e ciò che abbiamo detto in precedenza sulla fusione di figure antropomorfe e teriomorfe acquisisce qui tutto il suo significato. Lo spirito del luogo assume un’esistenza distintiva, diventa in un certo qual modo un uomo – nel contempo l’uomo perde la sua posizione dominante, trovandosi nella posizione di una bestia - di fronte al potere che lo supera come inaspettato lampo della soggettività che balenò all'improvviso. Quindi il cacciatore si trasforma, come nel mito di Atteone, che scorse il bagno di Artemide.

Dasein e genius loci

Qui possiamo passare a un argomento molto importante, il concetto chiave della filosofia di Martin Heidegger: il Dasein. Questo termine è composto da due parti: da e SeinDa è un avverbio di luogo, rimanda a una nozione che si situa fra qui (hier) e lì (dort). Possiamo intenderlo come l’indicazione di alcuni loci. E sebbene la struttura e la natura del Dasein nella filosofia di Heidegger richiedano una considerazione separata (alla quale, in particolare, è dedicato il lavoro approfondito di Alejandro Vallega[xi]), non vi è dubbio che possiamo considerare il da come un locus e, inoltre, potremmo già trovarci all’interno del paradigma del genius loci, più di quanto possa sembrare. 

Nell’interpretazione più generale del genius loci abbiamo infatti a che fare con la presenza, con una certa vivacità del luogo, con l’insistere di un potere intelligente in esso. Ma il Dasein è interpretato in modo molto simile dallo stesso Heidegger. Da è per lui solo la localizzazione della presenza intelligente. Heidegger collega la presenza stessa in una relazione col Sein, l’essere. Anche in questo caso si può ricordare il Sofista e la gigantomachia riguardo al significato dell’esistenza. Senza dimenticare tutta la distanza che separa Heidegger da Platone, se consideriamo l’esistenza come forza, δύναμις, allora possiamo confrontare il Sein con il genio. 

Da, secondo Heidegger, non è la persona (questa è una sovrastruttura metafisica storicamente e culturalmente a posteriori), ma qualcosa di primario, in parte comparabile con l’intenzionalità dei fenomenologi. In effetti, nella descrizione del Dasein, Heidegger segue Husserl, sebbene in un modo completamente originale. Il Dasein esprime infatti una relazione spazialmente fissa con l’essere. Non si riferisce all’essere in sè, ma nemmeno a una forma di esistenza astratta (noema). Questa è un’opportunità (δύναμις) di relazionarsi con l’essere in modo autentico o non autentico. In questa descrizione, Heidegger riconosce gli esistenziali del Dasein: sentire situato (Befindlichkeit), comprendere (Verstehen) cura (Sorge), stare-con (mit-sein), essere nel mondo (in-der-Welt-sein), essere per la morte (Sein zum Tode). Ma la loro combinazione coincide con l’esperienza dell’incontro con loci abitati dal genius. In un certo senso, tenendo conto della reversibilità dell’atto intenzionale, di cui abbiamo appena parlato, possiamo accettare una identità a prima vista strana: Dasein = genius loci

Non insistiamo sulla loro completa coincidenza, vogliamo solo prestare attenzione alle somiglianze strutturali ed esistenziali fra l’esperienza del Dasein e quella del genius loci. Il Dasein non è scontato, proprio come un incontro con un satiro, con Pan o Dioniso. Heidegger parlerà anche di “intuizione del Dasein”. Questa nozione esprime una forma di ossessione, non solo esterna, ma anche interna, che Heidegger definisce Selbst del Dasein. Essa risulta possibile solo quando una persona si trova al suo posto, nel suo da, nel suo locus. È lì che si rivela come una presenza eidetica, come il suo “padrone”, come un telos, come un genius, insomma.

Qui possiamo ricordare che nel gruppo tradizionale romano il genius loci collega una figura antropomorfa e un serpente. Raffigura un rituale, cioè una forma di relazione sacra dell’uno con l’altro: un uomo arriva in un luogo, all’interno di un Dasein, e una volta lì (da) riverisce ciò che ne costituisce l’essenza, il suo nucleo eidetico, il suo daimon, il suo genio, in ultima istanza il punto in cui cade un raggio costante di divinità. 

Il culto è l’essenza del sacro e l’antitesi del profano, della routine, di tutto ciò che è meccanico. Esso richiede un’organizzazione speciale dell’atto intenzionale, un atto intenzionale che sia insolito e straordinario. Ed è proprio tale intenzionalità sacra (concepibile, in senso heideggeriano, come cura del Selbst) che è il modus dell’esistenzialismo autentico.

Duende in García Lorca

Ora possiamo rivolgerci a come la cultura moderna riconosce e riflette l’ontologia fondamentale dello spazio associata al concetto di genius loci. Lo facciamo prestando attenzione alla lezione del grande poeta spagnolo Federico García Lorca pronunciata a Buenos Aires nel 1933. Si intitola Juego y teoría del duende (Gioco e teoria del duende)[xii].

Lorca introduce il termine “duende” (da duen de casa, “padrone di casa”), che nella tradizione iberica indica lo spirito che domina un luogo (cioè il “maestro eidetico”). Duende è lo spirito del luogo: coincide con il genius loci.

In che modo Lorca stesso definisce il duende? Lo fa, riferendosi al fatto che con questo termine quanti assistono ai canti e alle danze tradizionali determinano se hanno o meno a che fare con un’arte autentica, dotata di genio. La presenza di genio nell’esecuzione è precisamente la presenza del duende.

Lorca dice ad esempio che durante la danza del flamenco, ad un certo, preciso momento c’è una breve pausa; prima che la donna riprenda a ballare, ella si blocca per un attimo. Il significato della danza non è tanto riposto nel momento del ballo, ma precisamente in quell’istante che separa il riposo statico dalla danza attiva. In questo momento, la ballerina si distende lungo un asse esistenziale sconosciuto. Si trasforma, muta, succede qualcosa di inesprimibile, che arriva a trasformare i maleducati e rudi proprietari di mucche, i vignaioli, i macellai, i toreri e i ladri dei dintorni di una città spagnola provinciale abbandonata in veri e propri sacerdoti di Dioniso. Costoro si trasformano in un gruppo completamente diverso: ciascuno di loro diventa un Mystes, un Baccante ieratico, portatore di tirso, un sacerdote del dio morente e resuscitante. E insieme a questo, tutto si trasforma e si congela: gli spettatori maleducati, ubriachi, disordinati, poveri e insignificanti di uno spettacolo di flamenco si trasformano in un battito di ciglia. Inizia qualcosa che sfida ogni possibile spiegazione razionale.

Lorca, che ha viaggiato molto nelle province spagnole, nella sua conferenza racconta di aver spesso chiesto agli artisti di flamenco quale sia il segreto di questo momento. Coloro che sono stati sinceri hanno risposto: «Si tratta del duende. Non possiamo ballare davvero fino al suo arrivo». Pure gli interpreti di canzoni popolari spagnole (e gitane) si riferivano al duende. Così, ad esempio, Lorca racconta: in una cittadina spagnola di provincia, la sera, tra i maleducati cittadini comuni, alcune donne cantavano una canzone tradizionale. Cantavano male, con voce incrinata. Nessuno del pubblico era felice del canto. Un cupo postino ubriaco borbottò: «Sì, questo non è, ovviamente, Parigi, non è un café-chantant». Forse una volta ha viaggiato a Parigi, spendendo in un paio di giorni tutto ciò che aveva guadagnato con il suo noioso lavoro di molti anni, o aveva sentito da qualcuno che cosa fosse un café-chantant. Allora la cantante ubriaca, ferita dalle critiche, disse: «Allora devi chiamare il duende». Cominciò, si bloccò per un momento, e suoni impercettibili cominciarono a farsi sentire, in un’atmosfera dominata da un silenzio assoluto. Era chiaro che stava accadendo qualcosa che non aveva analoghi, che non si può sentire in nessun café-chantant. È l’arrivo del duende. La donna allora cominciò a cantare. Con la sua voce incrinata, l’infinito sbocciò, guardò tutti gli spettatori dall’interno, magnifico, radioso con tutti i colori del cuore – un fenomeno puramente spagnolo. Quando la canzone finì, tutti iniziarono di nuovo a respirare. 

Lo stesso Lorca spiega questa vicenda con il concetto di “ossessione”. Il duende si presentò e “conquistò”, “catturò”, “prese possesso” sia della cantante che del pubblico. Prese possesso del luogo nella sua interezza, della cittadina, della provincia, dell’intera Spagna, trasformando il mondo, per un momento, nel campo della sua intensa epifania. E non importa che forse fu solo un piccolo spirito, non troppo alto nella gerarchia dell’impero invisibile. Attraverso di lui apparve il suo signore supremo, poiché egli stesso era proprietà del suo padrone, e, a sua volta, diede un posto a un’essenza angelica ancora più elevata nella scala gerarchica in modo che, alla fine, la gente sentisse, attraverso tutti i veli, il canto di Dio.

Discutendo del duende con cautela e allo stesso tempo apertamente, Lorca lo confronta con il demone di Socrate. Questo demone non appariva spesso, ma sempre essenzialmente, aprendosi a Socrate dall’interno. Allo stesso modo, il duende o, possiamo dire, il genius loci è lo spirito di un luogo che non si apre sempre da solo, ma solo quando tale luogo è autentico.

Lorca contrappone il duende a due concetti: la Musa e l’Angelo. Dice che un Angelo, quando arriva, porta luce. L’uomo ne è illuminato. La Musa, invece, quando si mostra, porta forme, inducendo i processi creativi. Ma entrambi, sia l’Angelo che la Musa, provengono dall’esterno. Il duende, invece, vive nella dimora del sangue. Non viene dall’esterno, è un’ossessione per se stesso. Ossessione che proviene dal luogo in cui dimora. Egli non è infatti un messaggero proveniente da un luogo migliore, bensì un messaggero radicato nel qui ed ora. Pertanto, quando il duende appare, profuma di morte.

Il duende è attratto dal sangue ed entra in una terribile e mortale battaglia con l’uomo, perché la danza, la poesia, il canto, la filosofia che veramente catturano sono sempre una lotta contro la morte e la manifestazione del duende rimanda proprio al gusto della morte.

Lorca descrive ulteriormente il duende in termini molto vicini alla posizione filosofica di Heidegger. Si rivolge all’essenza della Spagna, al suo da, al locus della Spagna, cercando di capire e definire l’identità del Dasein spagnolo. Infine Lorca conclude che la Spagna è il paese del duende, un paese aperto alla morte. Questo è fondamentale. Usa persino il termine “aperto” che rimanda alla nozione di “apertura” (Offenheit) formulata da Heidegger. Essere-per-la-morte è la principale componente dell’esistenza del Dasein. Un paese aperto alla morte è allora, in questo senso, un toposautenticamente esistente. Così Lorca delinea la Spagna “esistenziale”, la Spagna nella sua natura autentica.

Citiamo di seguito alcuni frammenti di questa lezione di Lorca con relativi commenti:

 

«La Spagna è un paese guidato in tutte le epoche dal potere del duende».

 

Dio, e persino un piccolo dio, lo spirito padrone, sono eterni, e viene loro attribuito un luogo come suo “possedimento”, che non può più esser loro sottratto (come aveva notato Proclo).

 

«[La Spagna] è un paese di musica e danza millenaria».

 

Cosa significa musica millenaria? Una musica che, letteralmente, dura mille anni. I cicli degli dèi sono lunghi.

 

«La danza che comincia ma non filisce mai. Forse non si è comnciato anche mai, ma dopo una seconda noi olvidiamo il tempo, guardando la danza di flamenco. Qui il duende si risvela in limoni dell’alba. La Spagna è la terra di morte. Un paese aperto alla morte».

 

Quindi Lorca sviluppa come un sonnambulo i suoi pensieri, rivolgendosi alla metafisica del teatro: «In tutti gli altri paesi, la morte significa fine. Giunge, e cala il sipario. Non così in Spagna. In Spagna, al suo arrivo, il sipario si alza. Molti spagnoli vivono senza lasciare mai le proprie quattro mura ed escono al sole solo quando muoiono. Un morto in Spagna è più vivo, proprio in quanto morto, che in alcun altro luogo al mondo: il suo profilo è più nitido di un rasoio. Gli scherzi sulla morte, così come la sua contemplazione silenziosa, sono familiari agli spagnoli». Quest’ultimo passaggio si riferisce alla corrida, l’ultima eco degli antichi culti mediterranei di Dioniso e alla tradizione di Mitra.

Alla fine della lezione, Lorca si chiede dove risieda il duende. Lorca pone così direttamente la domanda sulla mappa esistenziale. Dov’è il duende? Questa domanda non ha una risposta chiara. D’altra parte, questa domanda è più importante della risposta. E la risposta è la seguente: il duende è qui, da, dove un momento fa era nascosto, dove un momento fa non era presente, ma ora si è improvvisamente aperto, presentato, rivelato… ed è scomparso di nuovo. Dove, quindi? Dove il luogo è autentico. E se il luogo non esiste in modo autentico, allora il duende non è lì, non è presente per chi si è addormentato in questo luogo, né per quanti sono fuggiti da esso, e nemmeno per coloro che, pur trovandosi qui, è come se non ci fossero, dal momento che non conoscono il da, poiché il loro da è chiuso e non consente la penetrazione dei raggi del genius loci al suo interno. In effetti, alla fine, il luogo è esistenzialmente autenticamente per sempre: nulla che una volta gli sia stato dato per sempre può infatti essere sottratto a Dio.

Lorca termina con questa risposta alla sua domanda: «Un aire mentale entra attraverso un arco vuoto e fischietta persistentemente sopra le teste dei morti, alla ricerca di nuovi paesaggi e accenti sconosciuti: è un aire con il gusto della saliva dei bambini, erbe calpestate e una copertura di meduse, che annuncia il continuo battesimo delle cose appena create»[xiii].

La teoria di Lorca può servire come esempio di approfondimento della nozione di genius loci, un’introspezione elevata a metodo poetico creativo. Il quale può essere considerato come una sorta di “teoria scientifica del genio”, radicata nella filosofia, da un lato, nelle strutture arcaiche dell’esperienza religiosa, dall’altro.

 

Aleksandr Dugin

 

(trad. it. a cura di Luca Siniscalco)

 



[i] Cfr. Lot-Falck E. Der Eigentumsbegriff und die Herren-Geister in Sibirien/Mühlmann W.E., Müller E.W. (herausgeb.) Kulturanthropologie. Köln; Berlin: Kiepenheuere & Witsch, 1966. S. 196 - 217.

[ii] Servius Maurus Honoratus, Servianorum in Vergilii Carmina Commentariorum, Editio Harvardiana, Oxford 1965.

[iii] Su questo argomento, in relazione alla comprensione dello spazio in Heidegger, cfr. Alejandro A. Vallega, Heidegger and the Issue of Space: Thinking on Exilic Grounds, Penn State Press, Pennsylvania 2003.

[iv] Nel senso del schiamanesimo.

[v] «Λέγω δὴ τὸ καὶ ὁποιανοῦν τινα κεκτημένον δύναμιν εἴτ᾽ εἰς τὸ ποιεῖν ἕτερον ὁτιοῦν πεφυκὸς εἴτ᾽ εἰς τὸ παθεῖν καὶ σμικρότατον ὑπὸ τοῦ φαυλοτάτου, κἂν εἰ μόνον εἰς ἅπαξ, πᾶν τοῦτο ὄντως εἶναι: τίθεμαι γὰρ ὅρον ὁρίζειν τὰ ὄντα ὡς ἔστιν οὐκ ἄλλο τι πλὴν δύναμις» (Platone, Sofista, §247 d-e).

[vi] Paracelsus, Liber de nymphis, sylphis, pygmaeis et salamandris et de caeteris spiritibus, Francke, Bern 1960.

[vii] Algirdas Julien Greimas. Of Gods and Men: Studies in Lithuanian Mythology. Bloomington: Indiana University Press, 1992.

[viii] «Dixerat haec, adytis cum lubricus anguis ab imis / septem ingens gyros, septena volumina traxit, / amplexus placide tumulum lapsusque per aras, / caeruleae cui terga notae, maculosus et auro / squamam incendebat fulgor, ceu nubibus arcus / mille iacit varios adverso sole colores. / Obstipuit visu Aeneas. Ille agmine longo / tandem inter pateras et levia pocula serpens / libavitque dapes, rursusque innoxius imo / successit tumulo, et depasta altaria liquit. / Hoc magis inceptos genitori instaurat honores, / incertus, geniumne loci famulumne parentis / esse putet: caedit binas de more bidentes, / totque sues, totidem nigrantis terga iuvencos; / vinaque fundebat pateris, animamque vocabat / Anchisae magni Manisque Acheronte remissos» (Virgilio, Eneide, V, 121-143, tr. it. di Annibale Caro).

[ix] In questo caso, la libagione è triplice: vino, latte e sangue – ripetuta per due volte: «Hic duo rite mero libans carchesia Baccho/ fundit humi, duo lacte novo, duo sanguine sacro».

[x] Friedrich Georg Jünger, Griechische Götter Apollon - Pan- Dionysos. Vittorio Klostermann, Frankfurt/M., 1943.

[xi] Cfr. Alejandro A. Vallega, Heidegger and the Issue of Space: Thinking on Exilic Grounds, cit.

[xii] Federico García Lorca, Juego y teoría del duende (https://biblioteca.org.ar/libros/1888.pdf).

[xiii] El duende... ¿Dónde está el duende? Por el arco vacío entra un aire mental que sopla con insistencia sobre las cabezas de los muertos, en busca de nuevos paisajes y acentos ignorados: un aire con olor de saliva de niño, de hierba machacada y velo de medusa que anuncia el constante bautizo de las cosas recién creadas