GBexit, Trump, Le Pen. Verso il crollo del mondo unipolare?
Il “combinato disposto” tra tamburi di guerra in Libia e nel Vicino Oriente, stagnazione dell’economia quale risultato della bolla finanziaria ancora in atto con i crescenti atti di indipendenza nazionali (Ungheria, Brics o comunque gli aumentati disordini monetari sui mercati internazionali delle valute e delle materie prime), e risultati delle prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti e nella Francia, incluso l’esito del referendum sull’uscita o meno della Gran Bretagna dalla cosiddetta Unione europea, sembra annunciare nel breve-medio termine quel “crollo dell’unità dell’Occidente” che imporrebbe l’irreversibile fine dell’egemonia atlantica, angloamericana, sul pianeta.
Decisivi i prossimi mesi
Già l’editorialista del “Washington Post” Anne Applebaum, di simpatie sioniste, partendo da un’analisi drammatica (e a tinte fosche, almeno per chi continua ad avere, come la grande stampa e i media embedded, a cuore “l’ordine liberale del mondo moderno”) ha lanciato l’allarme sulla possibile “fine dell’Occidente nella forma in cui lo conosciamo”, stilando, nei giorni scorsi un lungo articolo-appello alla mobilitazione negli Usa, in Gran Bretagna e in Francia perché non si attuino “devastanti” crisi come una “Gbexit” dall’Ue nel prossimo giugno, come la vittoria del repubblicano Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca e come un successo di Marine Le Pen all’Eliseo.
Secondo la Applebaum a inizio estate, dopo il referendum di giugno, il Regno Unito sarà molto probabilmente fuori dall’Unione Europea e un tale scenario potrebbe essere premessa di una prossima uscita dalla Nato, magari graduale, con un primo distacco dal comando militare e quindi con una progressiva rinuncia politica alla partecipazione all’Alleanza Atlantica. Un percorso “no-Ue, no-Nato, no Alleanza Atlantica”che potrebbe essere seguito sic et simpliciter, anche da altri Paesi europei.
Naturalmente, l’analisi dello Washington Post si concentra con più attenzione sulla “pericolosità” di una vittoria dell’outsider Trump nella corsa alla presidenza degli Stati Uniti. Un Trump che, interprete-vendicatore di quella “classe media” abbandonata in questi ultimi anni alla crisi economica e proletarizzata, non nasconde le sue volontà per così dire “anti-mondialiste”, con le sue critiche alle “costose” politiche di aggressione atlantica nel Vicino Oriente e nella stessa Europa (Serbia, Ucraina) e con la sua annunciata volontà di avvicinarsi alla Russia e di costruire un “grande rapporto” con Valdimir Putin.
Per l’establishment Usa un pugno in pieno viso, dopo decenni di ipotesi e programmi di “scacco matto globale”, di mondo “unipolare” e di parcellizzazione e predazione politica ed economica di varie nazioni “non allineate” del pianeta.
Ultimo – ma non ultimo – allarme è quello su quanto si può verificare in Francia tra un anno. Una vittoria di Marine Le Pen e del suo Fronte Nazionale alle elezioni presidenziali accelererebbe ancora di più il crollo dell’egemonia occidentale, non ha caso la leader frontista francese ha promesso di far uscire il Paese dall’Ue e dalla Nato (riproponendo i passi già attuati negli Anni Sessanta da Charles De Gaulle), di nazionalizzare le aziende strategiche e di limitare la partecipazione straniera agli investimenti nell’economia d’Oltralpe.
Un ritorno degli Usa all’isolazionismo?
L’analisi della Applebaum descrive dunque le apparenze formali di quanto potrebbe accadere da una successione di crisi atlantiche e globaliste nel Regno Unito, negli Usa e nella Francia. Quanto viene sottinteso dal suo allarme è in particolare che gli Stati Uniti stiano rinunciando al loro ruolo mondialista, e tornino a quella politica isolazionista – la versione Usa di quello “splendido isolamento” già applicato alla fine dell’’800 da Londra nei riguardi degli affari europei – già iniziata con George Washington dopo il suo Farewell Address del 1796, contraddetta dalla “dottrina Monroe” del 1823 ma con interesse limitato all’America Latina e dall’intervento nella prima guerra mondiale, tornata in auge con la rinuncia ai trattati di Versailles e alla costituzione della “Società delle Nazioni” e definitivamente interrotta, complice la Grande Crisi del 1929 e la necessità di risolverla con una potente iniezione all’industria pesante (bellica), quando F. D. Roosevelt forzò l’opinione pubblica nordamericana ad accettare l’intervento militare nella guerra in Europa. Una rottura imposta dalla grande finanza predatrice angloamericana e portata avanti in seguito, dal 1945 (Truman) ad oggi, da ogni successivo presidente Usa, “democratico” o “repubblicano” non importa, nel nome dell’export della democrazia, anche a costo di feroci colpi di Stato e di vergognose “guerre umanitarie”.
E’ un fatto che lo scenario dipinto dalla Applebaum, il suo “allarme” per il montante scollamento tra Usa (e istituzioni sue (Nato) o comunque controllate (Ue), sottintenda la preoccupazione per un possibile accelerato distacco di Washington dagli affari internazionali (europei e mediorientali, in particolare) con reazioni a catena, quali l’indebolimento dei suoi “gendarmi” nel Mediterraneo (Tel Aviv e Ankara) o nel Golfo e il loro possibile crollo, la costituzione di un mondo multipolare più giusto e calibrato tra i vari Stati nazionali, scenario decisamente avversato da chi ha le redini della politica monetaria e del profitto predatorio su produzioni e materie prime del mondo.
L’ultima guerra
E’ evidente come le grandi lobbies economiche e finanziarie e i vertici politici contemporanei angloamericani loro brasseurs d’affaires , abbiano tutto da perdere dall’avverarsi di una tale disegno di ridistribuzione del potere nel mondo e di non ingerenza negli affari dei singoli Stati nazionali. Tutto il castello di carte sul quale si regge l’attuale egemonia mondiali sta atlantica sarebbe destinato a crollare. Di qui le già iniziate “manovre di contenimento” dei possibili scenari sfavorevoli – per restare alla Applebaum consideriamo soltanto quelli “politici” a breve: Regno Unito fuori dalla Ue, Trump alla Casa Bianca, Le Pen all’Eliseo – che diventeranno, c’è da giurarci, parossistiche e a 360 gradi. Tutti i media controllati – embedded – sono già infatti dediti a campagne di critica e diffamazione contro ogni personalità britannica no-Ue, contro Trump, naturalmente, contro la Le Pen e – naturalmente, ma questa non è una novità… – contro Putin, più o meno indicato come il “guastatore” alle spalle degli ostracizzati.
Fin qui tutto normale.
Tuttavia l’offensiva mondialista non si fermerà certo alle parole – scritte o diffuse via etere dai vari Luttwak o, peggio, Brzezinski, Soros e “Killary” Clinton – ma userà ogni pretesto e conseguentemente ogni mezzo per rendere inattuabile una prospettiva “multipolare” (chiamiamola così).
Come avvertiva nelle sue analisi pubblicate su questo quotidiano già all’indomani dell’11 settembre 2001 l’intellettuale geopolitico romeno-francese Jean Parvulescu, oggi andato oltre, l’egemonia mondialista degli Stati Uniti, dopo essere giunta all’acme ma ormai in quel momento in fase di stallo, si sarebbe presto dovuta confrontare sia con una crisi economico-finanziaria (avvenuta nel 2008 e ancora in atto) e sia con una crisi di credibilità politica.
Siamo giunti a quest’ultima fase. Per gli Stati Uniti la strada più giusta e decorosa da percorrere sarebbe quella del proprio consenso a spartire le responsabilità di gestione degli affari del mondo con una pluralità di nazioni e di potenze internazionali.
Ma dalle parti di Wall Street e della City, o dei guru della “fine della storia” e dell’egemonia planetaria unipolare, della globalizzazione e del mondialismo, tale dignità latita. Piuttosto di cedere tale dominio, ogni mezzo, anche le guerre, o una nuova grande guerra, è una concreta possibilità.
Come fecero Roosevelt e Truman, il primo organizzando il pretesto dell’intervento, il secondo ordinando, a guerra già vinta, l’olocausto atomico di Hiroshima e Nagasaki.
Non è detto, naturalmente. Ma un’ “ultima guerra” – dagli esiti spaventosi per tutti – magari contro Mosca, è una eventualità. Con gli avvoltoi che si annidano a Washington e Nuova York, purtroppo, qualcosa di più.