Dalla Russia senza amore
Dalla Russia senza amore.
Questi ultimi giorni di campagna elettorale presidenziale americana fra l’esponente democratica Hillary Clinton e il repubblicano Donald Trump sono caratterizzati dal tema delle relazione dei candidati con la Russia. O meglio dalle accuse di “intelligenza con il nemico”: allusorie, velenose, sottili.
Mentre parte dell’opinione pubblica è distratta da faccende più superficiali, come le grossolane volgarità di Trump, o i suoi “se fossi presidente, ti farei arrestare” rivolto a Clinton - fra l’altro, senza entrare nel merito delle accuse di malversazioni ed opacità che riguarderebbero anche la Fondazione della candidata e dell’ex marito - la questione più interessante coinvolge proprio i rapporti con Mosca. La strategia di Clinton di svelare la relazione privilegiata o addirittura sleale - a fronte delle accuse a Trump di utilizzare gli hacker russi per alimentare l’email-gate che da mesi coinvolge l’esponente dem - si sta trasformando in un fango che travolge tutti. Anche Hillary Clinton.
Le ultime lettere pubblicate da Wikileaks relative ai così detti file Podestà, alimenterebbero i sospetti che Clinton abbia assunto in qualità di segretario di Stato decisioni favorevoli agli interessi di alcuni contributori russi alla Fondazione Clinton. In particolare, Clinton non avrebbe sollevato delle perplessità relative all’interesse strategico nazionale a rischio in merito alla vendita di una azienda americana titolare di una quota significativa di uranio ad una controllata dallo Stato russa, la Atomredmetzoloto, i cui investitori sarebbero fra il novero di ‘donors’ della Fondazione.
Trattandosi di un affare che cedeva il 20% delle riserve di uranio americane, il segretario di Stato doveva dare il suo parere preventivo. I file Wikileaks rimestano un tema già sollevato dalla stampa, provando che il braccio destro della Fondazione Clinton, John Podestà - già capo di gabinetto di Bill Clinton - cercava di informarsi in merito alla cessione della Uranium One alla Atomredmetzoloto che sarebbe stata decisa da Hillary Clinton, in qualità di membro del comitato che doveva affrontare la questione.
La questione Podestà rischia di rivelarsi uguale e contraria a quella di Paul Manafort, lo spin doctor di Trump, già al servizio dell’ex candidato alle presidenziali del Gop, John McCain. Manafort, infatti, avrebbe ottenuto fondi russi nella sua campagna di fundraising.
Quello che i media americani allora fingono di non vedere è altro. La questione americana non riguarda i rapporti con la Russia ma lo stesso sistema di finanziamento della politica: al di là della capacità dei donor di influenzare le scelte dei politici, è la stessa idea di accettare un “mercato plurale delle donazioni” ad arenarsi, quando la stampa solleva dubbi circa l’opportunità di accettare finanziamenti da parte di Paesi che sono considerati partner o “canaglie” a seconda delle convenienze. Non a caso, molte polemiche sono sorte anche per i finanziamenti dell’Arabia Saudita. Per tacere dei contributi di quelle aziende che hanno interessi così diffusi da poter essere tirate in ballo a prescindere.
Se l’ombra della Russia si proietta su entrambi i candidati, forse più che essere colpa di Mosca o argumentum ad personam, si dovrebbe riconoscere che si tratta di una falla della “maggiore democrazia del pianeta” che ha svuotato la democrazia delegando a mercato la ricerca di risorse per il suo funzionamento.